Pubblicato su Buddismo e Società numero 199
marzo, aprile 2020
Il presidente Ikeda ha sottolineato che per rivitalizzare la civiltà contemporanea è necessario ristabilire lo spirito poetico; è il tema di questo articolo di The Japan Times, un quotidiano in lingua inglese pubblicato in Giappone.
Nel mare del cielo
si alzano onde di nubi
e la barca-luna
si vede remare e sparire alla vista
in una foresta di stelle.1
Questa poesia waka fu scritta 1300 anni fa. Fa parte del Man’yoshu (Raccolta delle diecimila foglie), la più antica collezione di poesie giapponesi giunta fino a noi.
Oggi abbiamo inviato esseri umani oltre i confini dell’atmosfera terrestre e abbiamo camminato sulla superficie della luna. Eppure, leggendo questa poesia, viene da chiedersi se nei tempi antichi le persone non avvertissero la presenza della luna e delle stelle in maniera più intima rispetto a noi. Non avevano forse una vita più ricca e vasta della nostra, in cui godiamo di tanto benessere materiale ma raramente ci ricordiamo di guardare il cielo?
Immersa nelle distrazioni materiali, nella frenesia e nel frastuono, l’umanità contemporanea si è tagliata fuori dalla vastità dell’universo, dall’eterno flusso del tempo. Lottiamo contro sentimenti di isolamento e alienazione, cerchiamo di placare il nostro cuore assetato perseguendo i piaceri, per poi scoprire che quella brama smodata si è fatta ancora più feroce.
Questa separazione, questa estraneazione, è a mio avviso la tragedia di fondo della civiltà contemporanea. Scissi dal cosmo, dalla natura, dalla società e gli uni dagli altri, ci siamo disgregati e frammentati.
La scienza e la tecnologia hanno conferito all’umanità un potere inimmaginabile, arrecando benefici inestimabili alla nostra vita e alla nostra salute. Ma ciò si è accompagnato alla tendenza a prendere le distanze dall’ambiente circostante, a oggettivare e ridurre tutto ciò che ci circonda a numeri e cose. Anche le persone diventano cose. Le vittime della guerra sono ridotte a mere statistiche, e noi rimaniamo insensibili di fronte al lutto e al dolore indicibile di tante singole persone.
Invece gli occhi del poeta scoprono in ogni persona una umanità unica e insostituibile. Mentre l’intelletto arrogante cerca di controllare e manipolare il mondo, lo spirito poetico si inchina con reverenza di fronte ai suoi misteri.
Ogni essere umano è un microcosmo. Vivendo qui sulla Terra respiriamo i ritmi di un universo che si estende infinitamente al di sopra di noi. Quando tra il vasto cosmo esterno e l’universo umano interiore sorgono armonie risonanti, nasce la poesia.
Forse un tempo tutti erano poeti, in intimo dialogo con la natura. In Giappone la raccolta del Man’yoshu contiene poesie scritte da persone di ogni classe sociale, e quasi la metà di esse sono firmate “poeta sconosciuto”.
Queste poesie non furono scritte per consegnare il proprio nome alla storia, ma scaturivano sulla carta come da una fonte inarrestabile del cuore, quasi avessero vita propria. Passando da persona a persona, da un cuore a un altro, superano i confini di spazio e tempo.
Lo spirito poetico si ritrova in ogni impresa umana. Può vibrare intimamente in uno scienziato alla scoperta di qualche verità. Quando lo spirito poetico vive tra noi, anche gli oggetti non appaiono come semplici cose e i nostri occhi vengono attratti verso una realtà spirituale più intima. Un fiore non è solo un fiore. La luna non è solo un ammasso di materia che vaga nel cielo. Guardando intensamente un fiore o la luna possiamo intuire il legame insondabile che ci collega al mondo.
In questo senso i bambini sono poeti per natura, dalla nascita. Se abbiamo caro il loro cuore poetico e lo nutriamo consentendogli di crescere, potranno accedere da adulti nel regno della scoperta sempre nuova. Dopotutto non esistiamo solo per soddisfare i nostri desideri; la vera felicità non sta nel possedere di più, ma nell’approfondire l’armonia con il mondo.
Lo spirito poetico ha il potere di “riaccordare” e ricollegare un mondo discordante, diviso. I veri poeti rimangono saldi, con le radici ben piantate nella realtà complessa, frammentata e conflittuale della vita.
Una ferita inflitta a chiunque, ovunque, angustia il cuore del poeta. Il poeta offre alla gente parole di coraggio e speranza, cercando una prospettiva – a un livello più profondo o più elevato – che renda tangibili le realtà spirituali costanti nella nostra vita.
Ora più che mai abbiamo bisogno della voce fragorosa ed eccitante della poesia. Abbiamo bisogno del canto di pace appassionato del poeta, dell’esistenza condivisa e solidale di tutte le cose. Abbiamo bisogno di risvegliare dentro di noi lo spirito poetico, l’energia vitale giovane e la saggezza che ci fanno vivere pienamente. Tutti dobbiamo essere poeti.
Il nostro pianeta è sfregiato e danneggiato, il suo ecosistema rischia il collasso. Dobbiamo fare ombra alla Terra riparandola con “foglie di parole” che emergono dal profondo della vita. La civiltà moderna sarà sana solo quando lo spirito poetico riguadagnerà il posto che gli spetta.
Dal saggio “Ristabilire le nostre connessioni”, pubblicato in The Japan Times, 12 ottobre 20062 (cfr. BS, 130)
Ridiamo vita alla cultura della parola scritta
Il presidente Ikeda ha spesso sottolineato l’importanza che la letteratura ha rivestito nello sviluppo e nel progresso dell’umanità. Qui spiega che un tratto caratteristico delle attività della Soka Gakkai è lo spirito di imparare dalla parola scritta.
Studiare e imparare insieme è parte integrante delle attività quotidiane della Soka Gakkai. I suoi membri, a ogni età, sono studenti e studentesse permanenti: approfondiscono gli scritti di Nichiren Daishonin agli zadankai, colgono l’occasione per leggere, ascoltare e studiare con attenzione anche in altre riunioni.
Il Buddismo è una filosofia vivente. Al cuore dell’insegnamento del Daishonin vi è la consapevolezza che ogni aspetto della nostra vita e del mondo è Buddismo, che «tutti i fenomeni sono la Legge buddista» (La dichiarazione unanime dei Budda delle tre esistenze, RSND, 2, 798).
Per questo ci sforziamo di leggere i grandi romanzi e trarne insegnamento, quelli di autori come Lev Tolstoj, J. Wolfgang Goethe e Victor Hugo, o cerchiamo di sviluppare una maggiore comprensione dell’economia, della politica, dell’arte e della musica. Cerchiamo di acquisire saggezza e una percezione profonda di tutti gli aspetti della vita. Questo è il nostro spirito e in ciò risiede la forza della Soka Gakkai. Dopotutto il termine gakkai significa “associazione di studio”. Spero che in particolare le persone giovani leggano buoni libri e prendano confidenza con la buona letteratura.
Leggere libri è anche un modo per ereditare il patrimonio intellettuale della specie umana.
Leggere stimola e sviluppa la mente aiutandoci ad affinare uno spirito critico, mentre guardare la televisione è una maniera del tutto passiva di ricevere informazioni e immagini che possono essere ingannevoli. È necessario riscoprire la letteratura autentica, che sgorga dalle profondità dello spirito umano, per combattere gli scritti pieni di bugie che distorcono volutamente la realtà dei fatti.
Ho trascorso la seconda parte della mia adolescenza, il periodo in cui si è più sensibili e suggestionabili, nel caos del dopoguerra. Poiché durante il conflitto ci era stato impedito di imparare, noi giovani eravamo affamati di nuove conoscenze.
Facevo parte di un gruppo di lettura composto da numerosi giovani del mio quartiere. I libri erano pochi e così ce li prestavamo a vicenda. Sebbene fossi povero, serbavo i libri come il mio tesoro più prezioso. Negli scaffali della mia camera c’erano opere classiche e moderne, di autori orientali e occidentali, prevalentemente di letteratura.
All’epoca il mio più ardente desiderio era stabilire una solida e profonda visione della vita. Così, quando alcuni vecchi compagni di scuola mi invitarono a una riunione dicendo che si sarebbe parlato della “filosofia della vita”, accettai. Fu in quella occasione che incontrai per la prima volta Josei Toda, che in seguito sarebbe diventato il secondo presidente della Soka Gakkai. Fui profondamente colpito dalla sua forte personalità e dalla sua immensa compassione nei confronti delle persone che soffrono. Non è esagerato affermare che la maggior parte della mia educazione da quel momento in poi è derivata da ciò che mi ha insegnato personalmente.
Toda esortava le persone giovani a trovare il tempo di leggere e riflettere. Quasi ogni giorno mi chiedeva cosa stessi leggendo, con una severità più simile a un interrogatorio che a una domanda casuale, tanto che non osavo incontrarlo se non avevo letto niente. Quello strenuo e costante impegno di leggere e studiare ha dato i suoi frutti e adesso è il mio più grande tesoro e la mia maggiore forza.
Dopo essere stato nominato presidente della Soka Gakkai, Toda si dedicò anima e corpo alla formazione dei giovani. Iniziò facendoci leggere diverse grandi opere della letteratura mondiale, fra cui Il romanzo dei tre regni e I briganti di Luo Guanzhong, Racconto di due città di Charles Dickens, Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas e Novantatré di Victor Hugo.
Ci incoraggiava a scambiarci riflessioni e impressioni, rispondeva liberamente alle numerose domande che gli ponevamo e a volte ci dava anche consigli personali, in modo che ognuno di noi potesse crescere e sviluppare il proprio potenziale. E nel far questo toccava spesso molti problemi che avremmo potuto incontrare nel corso della vita.
C’è un limite a ciò che una persona può vivere in una singola esistenza. Ma attraverso la lettura possiamo fare nostre le esperienze degli altri. Possiamo imparare la profondità dell’esistenza e la vastità del mondo, sviluppare intuizioni sulla natura umana e coltivare la capacità di discernere e comprendere le realtà sociali.
In ognuno di questi incontri di formazione noi giovani facevamo grandi passi avanti. Leggere è un tesoro che dura tutta la vita, è una preziosa fonte di nutrimento spirituale, è la base di qualsiasi forma di conoscenza. Leggere sviluppa la capacità di pensare e allarga i nostri orizzonti.
Per costruire un futuro positivo dobbiamo imparare dalle lezioni del passato. Il XX secolo è stato caratterizzato da un notevole progresso materiale, ma anche da una carenza di evoluzione spirituale che ha generato una situazione in cui è a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana. Perciò dobbiamo far sì che il XXI secolo sia un’epoca di grande progresso spirituale.
Dal saggio “I buoni libri danno nutrimento spirituale” nella raccolta Haha no mai (Danza delle madri), pubblicato in giapponese nel gennaio 2000
L’arte deve essere accessibile a tutti
Nel maggio 1973 il presidente Ikeda fondò il Fuji Art Museum, nella prefettura di Shizuoka,3 e nel novembre 1983 il Tokyo Fuji Art Museum ad Hachioji. Entrambe le istituzioni erano il risultato del suo impegno nella promozione di scambi culturali in collaborazione con esponenti di fama mondiale nel campo dell’arte e della cultura. In questo brano parla delle motivazioni che lo spinsero a fondare questi musei.
Nel novembre di quest’anno (2005) il Tokyo Fuji Art Museum festeggerà il suo ventiduesimo anniversario. Negli anni trascorsi dalla sua fondazione è diventato una delle principali gallerie d’arte private del Giappone, una collezione di primaria importanza.
Fedele al suo principio ispiratore di essere un ingresso per il mondo, il Tokyo Fuji Art Museum ha organizzato varie mostre in cui sono stati esposti alcuni tra i più grandi capolavori mondiali. La sua collezione comprende 30.000 opere d’arte dei generi più svariati, di provenienza giapponese, asiatica e occidentale.
Il nucleo centrale della collezione di pittura occidentale del Fuji fu allestito in collaborazione con René Huyghe (1906-1997), storico dell’arte rinomato a livello internazionale.
Huyghe era stato il principale curatore della collezione di disegni e dipinti del museo del Louvre a Parigi, e durante la seconda guerra mondiale aveva rischiato la vita per salvare dalle forze di occupazione naziste opere d’arte di valore inestimabile per l’umanità. Ho avuto occasione varie volte di conversare con lui e insieme abbiamo pubblicato un dialogo dal titolo La nuit appelle l’aurore. Dialogue orient occident sur la crise contemporaine (Flammarion, Paris, 1980).
Con la sua ricca esperienza e il suo occhio esperto, Huyghe si rivelò molto utile e ci diede consigli preziosi già nelle prime fasi di allestimento del museo, per esempio nella realizzazione della collezione di pittura occidentale e per le varie mostre. Svolse un ruolo cruciale per il successo della mostra inaugurale “Capolavori dell’arte francese” (1983-1984) e anche per “La vita, il popolo e i nobili nella Francia del XVIII secolo” (1986-1987), “La rivoluzione francese e il Romanticismo” (1987) e altre. Continuò a consigliarci e a sostenerci fino alla sua morte, all’età di novant’anni, nel 1997. Le sue linee guida e le sue preziose indicazioni rivestono ancora oggi un valore insostituibile per il museo.
Uno degli scopi di un museo d’arte è rendere accessibili al grande pubblico opere la cui visione era un tempo privilegio di pochi. La missione del Tokyo Fuji Art Museum è esattamente questa: dare ai cittadini l’opportunità di vedere opere di grande valore artistico rendendo l’arte accessibile a tutti.
La bellezza autentica ci commuove. Lo spirito artistico ci nobilita e ci ispira, infondendo in noi nuova forza e vigore. La cultura e l’educazione coltivano e arricchiscono l’animo umano e sono il fondamento per la costruzione della pace. Mi sembra ancora di sentire la sonora voce di Huyghe mentre diceva che il materialismo è la causa della guerra e insisteva che dobbiamo farci strada nel deserto del materialismo per rigenerare una intensa “ricchezza interiore”. Definiva la nostra amicizia un “fronte spirituale unito” dedito alla rivitalizzazione dello spirito umano.
Portiamo avanti con energia la nostra lotta spirituale, il nostro impegno nel campo della cultura e dell’educazione per contrastare il materialismo selvaggio che sta devastando la civiltà. Questo è il cammino verso la pace e verso un futuro di vero umanesimo.
Da un discorso alla Conferenza sull’educazione e la cultura, Tokyo, 12 settembre 2005
Uniamo il mondo attraverso la cultura
Il presidente Ikeda fondò l’Associazione concertistica Min-On nell’ottobre 1963. In questo brano parla delle motivazioni che lo spinsero a farlo e di ciò che è riuscito a realizzare per avvicinare le persone grazie alla cultura.
La musica parla al cuore, toccando corde interiori universali per creare un’armonia di empatia e amicizia. Può infonderci coraggio, ispirare una preghiera per la pace e risvegliare il nostro orgoglio e la nostra dignità. Questi sono i poteri benefici della musica.
Sin dalla gioventù sognavo di unire le persone attraverso la musica realizzando una splendida melodia di cultura e di pace in tutto il mondo.
Nell’ottobre di quest’anno (2003) l’Associazione concertistica Min-On ha compiuto quarant’anni. Sin dalla sua fondazione ha patrocinato più di sessantamila spettacoli di vario genere, dalla musica orchestrale a quella da camera, all’opera, al balletto, alla musica pop, al tango e alle danze popolari.
Il mio maestro Josei Toda ci incoraggiava sempre a cercare il meglio di ciò che l’arte poteva offrire, che si trattasse di letteratura o di musica. Quando ero giovane, ascoltare i capolavori di Beethoven su un grammofono a manovella era per me fonte di incredibile incoraggiamento, e mi dava la forza necessaria ad affrontare quei momenti di estrema difficoltà.
Ancora nel 1960, quando diventai presidente della Soka Gakkai, i concerti di musica classica e le esibizioni sul palcoscenico non erano alla portata della maggior parte delle persone e sembravano totalmente distanti dalla loro vita. Ma non era giusto che l’arte rimanesse chiusa in se stessa e accessibile solo a pochi privilegiati, specialmente in un’epoca in cui le persone comuni stavano venendo sempre di più alla ribalta.
Volevo far sì che la grande musica, un tesoro dell’umanità, fosse accessibile a tutti, e per questo fondai la Min-On. Ho lavorato moltissimo e ho superato tante difficoltà per riuscire a realizzare questo scopo.
Quando fondai la Min-On, uno di miei sogni era invitare in Giappone il Teatro alla Scala, la principale compagnia operistica italiana. Molti mi prendevano in giro dicendo che era impossibile, ma dopo 16 anni di trattative alla fine ci riuscimmo, e nel 1981 il Teatro alla Scala tenne una serie di meravigliosi spettacoli per il pubblico giapponese. Carlo Maria Badini, all’epoca sovrintendente del teatro, disse che per quel tour, a parte l’edificio, avevano portato in Giappone proprio tutto!
Le persone costituiscono le fondamenta del mondo. Quando una musica di pace risuona ovunque fra la gente, la luce della bontà e della bellezza avvolge la società e il mondo intero.
Nel 1966, tre anni dopo la sua fondazione, la Min-On invitò la compagnia di balletto dell’Accademia nazionale sovietica di Novosibirsk, che fu la prima a esibirsi nella nostra rassegna di balletti dal mondo. Eravamo all’apice della guerra fredda: l’attenzione era concentrata sulla polarizzazione di quel conflitto e dilagava la paura nei confronti dell’Unione Sovietica. Eppure, anche in quel clima, l’arrivo in Giappone di tale meravigliosa “ambasciata di buona volontà culturale” suscitò una calorosa risposta umana e fece sbocciare fiori di amicizia.
Lo scambio culturale è un ponte per la comprensione reciproca, un preludio alla pace.
Le tensioni fra Cina e Unione Sovietica fecero sì che gli accordi per la realizzazione della tournée del 1985 “Una strada per la pace che viene da lontano” si rivelassero particolarmente difficili. Era il quarto della rassegna di concerti “Viaggio musicale sulla Via della Seta”, un tentativo di mettere insieme interpreti e musicisti provenienti dalla Cina, dalla Turchia e dall’Uzbekistan, che allora faceva parte dell’Unione sovietica. Lo staff della Min-On era fermamente convinto che la cultura potesse superare le differenze politiche e continuò a portare avanti le trattative. Infatti, poiché ogni paese è formato dalle persone che vi abitano, non c’era motivo che, in quanto esseri umani, i musicisti non potessero capirsi reciprocamente. Quando lo staff della Min-On trasmise tale dedizione appassionata, sia la Cina sia l’Unione Sovietica diedero il loro assenso.
La tournée, che comprendeva 30 spettacoli in 26 città, ebbe un grande successo. Al termine andai a salutare i musicisti presso la sede del Seikyo Shimbun a Shinanomachi, Tokyo. I rappresentanti degli artisti dei paesi partecipanti dichiararono all’unanimità di essere convinti che la tournée avrebbe aperto la strada alla pace e all’amicizia. Per me quelle parole furono un tributo alla vittoria della cultura. Quattro anni dopo, la Cina e l’Unione Sovietica riuscirono incredibilmente a riconciliarsi.
La musica non conosce barriere. Va oltre i confini nazionali, le lingue, le culture, le etnie, e unisce i cuori in una sinfonia di pace.
Questa è la ragione per cui l’Associazione concertistica Min-On è riuscita a realizzare scambi culturali con novanta paesi e territori.
Per me la grande strada dello scambio culturale è una “Via della Seta spirituale”. Sono certo di non essere il solo a pensare che essa continuerà ad ampliarsi di pari passo con la crescita della Min-On, che ha la missione di unire il mondo attraverso la cultura.
Da un saggio dal titolo “Per il quarantesimo anniversario della Min-On” nella serie “Riflessioni sulla Nuova rivoluzione umana”, pubblicato in giapponese sul Seikyo Shimbun, 4 dicembre 2003
Un bellissimo regno di sicurezza e di pace
Il presidente Ikeda riporta le parole di lode per le attività della Soka Gakkai espresse dallo studioso indiano Lokesh Chandra, esperto del Sutra del Loto, e afferma che la nostra rete umanistica è un faro di speranza per l’umanità.
Ho intrattenuto un dialogo sulle filosofie del mondo con il filosofo indiano Lokesh Chandra.4 L’India è la terra natale del Buddismo e al tempo stesso il luogo d’origine della saggezza del Sutra del Loto; perciò questo scambio di idee con uno dei più importanti intellettuali indiani ha per me un significato speciale.
Verso la fine del dialogo Chandra ha lodato il nostro movimento dicendo che i contributi che abbiamo dato all’umanità sono la realizzazione concreta di un passo della parte in versi del capitolo Durata della vita del Sutra del Loto, recitandone poi i seguenti passi che noi ripetiamo quotidianamente nella cerimonia di Gongyo: «Questa, la mia terra, rimane salva e illesa, / costantemente popolata di esseri celesti e umani» (SDLPE, 318).
Questi versi fanno parte di una strofa più lunga in cui si afferma: «Quando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa/ e tutto arde in un grande fuoco/ questa, la mia terra, rimane salva e illesa,/ costantemente popolata di esseri celesti e umani./ Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi/ sono adornati di gemme di varia natura./ Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti/ e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio./ Gli dèi suonano tamburi celesti/ creando un’incessante sinfonia di suoni./ Boccioli di mandarava piovono dal cielo/ posandosi sul Budda e sulla moltitudine» (Ibidem).
Il filosofo indiano ha concluso riconoscendo che il nostro movimento proclama la gioia dell’esistenza umana, promuove una fioritura spirituale e si impegna a espandere la cooperazione per la pace in perfetto accordo con questi versi del capitolo Durata della vita, che è il cuore del Sutra del Loto. Ha affermato anche che la Soka Gakkai è «l’unica nel mondo attuale a porre questi valori al centro della vita».5
La Soka Gakkai, travalicando confini nazionali e differenze etniche, sta aiutando una persona dopo l’altra a rivelare il supremo stato vitale della Buddità e a risplendere come tante “Torri preziose” colme della «più grande di tutte le gioie» (Raccolta degli insegnamenti orali, BS, 124, 54). I nostri centri sono come «le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi» di cui si parla nel sutra, sono roccaforti di sicurezza e di prosperità per le comunità in cui sorgono.
Al tempo stesso la Soka Gakkai trabocca del potere dell’educazione umanistica. I fiori della gioventù vi sbocciano profumati e il frutto della vittoria adorna l’esistenza di chi vive i suoi “anni d’oro”.
La Banda di pifferi e tamburi, le altre bande musicali e i molti gruppi corali offrono continuamente sinfonie meravigliose, e grazie alle vivaci attività del Gruppo artisti la nostra organizzazione abbonda del potere creativo della cultura.
Così come nel sutra piovono dal cielo «boccioli di mandarava», la Soka Gakkai è inondata dalla fiducia, dalle lodi e dal sostegno delle persone di tutto il mondo.
La nostra assemblea Soka unita è l’emblema dell’armonia umana, un modello di coesistenza creativa che concretizza l’ideale di una cultura di pace.
Come membri della Soka Gakkai, che porta fedelmente avanti gli insegnamenti del Daishonin, continuiamo a espandere, approfondire e rafforzare la nostra rete umanistica – faro di speranza per il nuovo secolo – a beneficio della pace mondiale e della sicurezza di tutta l’umanità.
Messaggio inviato a una conferenza nazionale dei responsabili di prefettura, 13 novembre 2001
Niente è più barbaro della guerra
Il presidente Ikeda racconta la sua esperienza di vita durante la guerra, da cui presero il via le sue attività per la pace.
In questa occasione mi torna in mente la mia gioventù. Il 15 agosto 1945, sessant’anni fa, segnò la fine della seconda guerra mondiale per il Giappone. A quell’epoca avevo diciassette anni, la stessa età di molti di voi, studenti e studentesse delle scuole superiori che siete qui oggi. La mia famiglia viveva in quello che adesso è il quartiere di Ota a Tokyo. Io ero il quinto di otto figli. Uno dopo l’altro i miei quattro fratelli maggiori furono chiamati alle armi e inviati sui campi di battaglia in Cina e in altre regioni.
Mio padre, che aveva un’azienda per la lavorazione delle alghe, soffriva di reumatismi e ciò gli rendeva difficile lavorare. Come fu doloroso per lui vedere quattro figli nel fiore degli anni, che erano un sostegno importante, andare in guerra in rapida successione! E fu incredibilmente duro anche per mia madre.
I miei due fratelli più giovani, la mia sorellina ed io rimanemmo a casa. Per contribuire in qualche misura al sostentamento della famiglia, sin dalle elementari andavo a consegnare i giornali quotidiani nelle case.
Dopo aver conseguito il diploma alla scuola nazionale del popolo ottenni un lavoro nelle vicine acciaierie Niigata (1942), dove era stato impiegato anche uno dei miei fratelli maggiori. Non potei continuare gli studi perché dovevo aiutare la mia famiglia.
All’epoca in cui frequentavo la quinta elementare (1938) vivevamo felicemente in una spaziosa casetta a due piani. Ma quando le nubi della guerra si fecero sempre più tetre, fummo costretti a vendere la casa, che in seguito venne trasformata in una fabbrica di munizioni. Ci trasferimmo in un alloggio nelle vicinanze, ma ben presto ci ordinarono di evacuarlo [in modo che la zona potesse essere trasformata in una trincea tagliafuoco quando i bombardamenti aerei su Tokyo si fossero intensificati].
Decidemmo allora di andare a vivere dalla sorella minore di mia madre, dove avremmo abitato in un’ala separata che sarebbe stata aggiunta alla casa. Alla fine dei lavori vi spostammo tutte le nostre cose con un carretto, ma la notte del 24 maggio 1945, proprio il giorno prima del nostro trasferimento, la casa fu colpita durante un raid aereo e una bomba incendiaria la rase al suolo.
Riuscimmo a malapena a salvare un’unica cassapanca, ma quando la aprimmo scoprimmo che conteneva nient’altro che le bambole ricevute da mia sorella per il tradizionale Giorno delle bambine. Nell’arco di una notte avevamo letteralmente perso tutto. Nonostante questo, la mia intrepida mamma ci consolò e ci rassicurò dicendo: «Sono sicura che un giorno avremo di nuovo una bella casa in cui potremo mettere in mostra queste bambole».
Dopo la fine della guerra passò diverso tempo prima che i miei fratelli tornassero a casa.
Guardavamo con invidia gli altri soldati congedati che tornavano a casa sani e salvi. Fu solo nel maggio del 1947 che ricevemmo la notizia della morte di mio fratello maggiore, al quale ero particolarmente affezionato. Non dimenticherò mai la vista di mia madre che cercava di trattenere le lacrime quando ricevette quella tragica notizia.
In quei giorni avevo la tubercolosi, di notte sudavo copiosamente e avevo dolorosi accessi di tosse nei quali spesso sputavo sangue. Ero magrissimo e il dottore consigliò di inviarmi in un sanatorio a Kashima, nella prefettura di Ibaraki, ma non fu possibile.
La guerra causò terribili sofferenze alla mia famiglia rendendo la mia infanzia un periodo molto difficile, ma non eravamo certo i soli. In tutto il Giappone le famiglie sopportarono miseria e sofferenze indicibili, e in tutto il mondo un numero incalcolabile di persone senza alcuna colpa fu tragicamente sacrificato in guerra.
Niente è più barbaro della guerra. Niente è più crudele. Per questo odio la guerra e mi opporrò per sempre alla natura demoniaca dell’autorità che ne è la causa. Il mio impegno assoluto per il pacifismo, la decisone di battermi tutta la vita per la pace, si impresse nel mio cuore quando ero giovane.
Messaggio inviato alla cerimonia di ammissione delle Scuole medie e superiori Soka, a Tokyo e nel Kansai, 8 aprile 2005
Un pezzo di specchio
Il presidente Ikeda sa per esperienza diretta che durante la guerra coloro che soffrono di più sono le mamme e i bambini. Questo brano vuole comunicare il suo desiderio che tutte le persone possano condurre vite felici e sicure. Tale è lo spirito essenziale del movimento per la pace della Soka Gakkai.
Io possiedo uno specchio. A dire il vero è solo un pezzo di specchio rotto, circa delle dimensioni della mia mano. Ha dei piccoli graffi su entrambi i lati, ma funziona ancora perfettamente. È uno di quei pezzi di specchio piuttosto spessi che potreste trovare in qualsiasi mucchio di spazzatura. Ma per me è un ricordo prezioso.
I miei genitori si sposarono nel 1915 e, come parte del suo corredo, mia madre portò con sé una toeletta munita di uno specchio molto bello. Senza dubbio fu proprio quello specchio che rifletté l’immagine della giovane sposa con il suo bell’abito, rimandandole un’immagine nitida e priva di distorsioni.
Vent’anni più tardi però lo specchio si ruppe. Mio fratello maggiore Kiichi e io eravamo a casa quando successe e scegliemmo due frammenti da tenere per noi.
Non molto tempo dopo scoppiò la guerra e i miei quattro fratelli maggiori furono inviati al fronte uno dopo l’altro, chi in Cina, chi nel sud-est asiatico. Mia madre, che si vide strappare i figli più grandi, cercò di dissimulare il suo dolore, ma sembrava improvvisamente invecchiata.
Poi iniziarono i raid aerei quotidiani su Tokyo. Mi tormentava vedere la sua sofferenza. Pensando che in qualche modo potesse proteggerla, tenevo il pezzo di specchio sempre con me, avvolto con cura nella mia camicia, mentre andavo in giro tra le bombe che ci piovevano intorno.
Dopo la guerra, quando infine ricevemmo la notizia ufficiale dell’uccisione del mio fratello maggiore durante un combattimento in Birmania (Myanmar), non potei fare a meno di pensare a quel pezzo di specchio che doveva aver conservato nel taschino della sua uniforme. Me lo immaginavo mentre durante le pause dei combattimenti lo tirava fuori per guardarsi il volto non rasato e pensava con nostalgia a sua madre a casa. Sapevo come doveva essersi sentito perché anch’io avevo un pezzo dello specchio della mamma e, quando seppi che era morto, lo presi in mano pensando a lui.
Nel travagliato periodo che seguì alla sconfitta del Giappone decisi di andare via di casa e trasferirmi in un piccolo monolocale. L’arredamento era spartano e non c’era nemmeno uno specchio, ma io tirai fuori il mio pezzo di specchio rotto e lo misi nel cassettone. Lo specchio mi fu molto utile. Ogni mattina, prima di andare a lavorare, lo tiravo fuori e guardavo il mio viso smagrito, mi rasavo, mi pettinavo i capelli e mi mettevo la pomata per tenerli in ordine. Quell’unica volta al giorno in cui tenevo lo specchio in mano pensavo sempre a mia madre e quasi inconsciamente sussurravo nel mio cuore: «Buon giorno mamma».
Nel 1952, quando mi sposai, mia moglie portò con sé una toeletta nuova di zecca e da allora per guardarmi usai lo specchio nuovo.
Un giorno trovai mia moglie che esaminava perplessa il mio pezzo di specchio rotto. Deve aver pensato che fosse una cianfrusaglia senza valore che non avrebbe interessato nemmeno un bambino. Ma quando vidi che lo specchio stava per finire nel cestino della spazzatura ne raccontai la storia a mia moglie, parlandole di come mi legasse a mia madre e a mio fratello ucciso in guerra.
Lei riuscì a trovare una piccola scatola di legno di paulonia e vi conservò lo specchio, che ancora oggi è lì, al sicuro.
Come una vecchia stilografica, magari appartenuta a qualche grande scrittore, può avere un certo fascino perché sembra parlare dei segreti nascosti dietro i capolavori che ha scritto, così il mio pezzo di specchio rotto racconterà per sempre la storia dei giorni della mia gioventù, tanto difficili da descrivere, delle preghiere di mia madre e del triste destino di mio fratello maggiore.
Adattamento dal saggio “Un pezzo di specchio”, pubblicato per la prima volta in giapponese nel novembre 1968
Il punto di partenza delle attività della Soka Gakkai per la pace: l’appello per l’abolizione delle armi nucleari
Nel suo romanzo La rivoluzione umana il presidente Ikeda parla della dichiarazione del secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda in cui chiedeva l’abolizione delle armi nucleari (1957). Egli sottolinea che al cuore delle attività per la pace della Soka Gakkai c’è la battaglia contro le funzioni demoniache che minacciano la dignità della vita e il diritto all’esistenza dell’umanità.
Festival della gioventù della Soka Gakkai, stadio Mitsuzawa, Yokohama, 8 settembre 1957.
In piedi davanti al microfono Josei Toda cominciò a parlare con voce calma e possente: «Il Festival dei giovani di oggi è stato salutato da una splendida giornata di sole in cui non è rimasta traccia della tempesta di ieri. Sembra quasi che i cieli abbiano voluto rispondere al vostro entusiasmo. Ho osservato con gioia i concorrenti che hanno gareggiato cercando di mostrare l’ardente spirito Soka che li anima, mentre voi tutti li applaudivate e li incoraggiavate.
Tuttavia, a prescindere dalla gioia che posso provare in una giornata come questa, è inevitabile che la Soka Gakkai in futuro debba incontrare nuovamente delle persecuzioni. E anche noi personalmente potremmo subire ogni sorta di attacchi. Ciò detto, vorrei condividere con voi alcune riflessioni, che spero vorrete considerare come mie supreme istruzioni per il futuro.
Come ho già detto in diverse occasioni, la responsabilità dell’era ventura poggerà sulle spalle dei giovani. Non occorre che io ripeta che kosen-rufu rappresenta la nostra missione e che dobbiamo assolutamente realizzarla. Ma oggi vorrei affermare chiaramente il mio atteggiamento e i miei sentimenti riguardo agli esperimenti sulle armi nucleari, un tema che attualmente è oggetto di intenso dibattito nella società contemporanea.
Spero che come miei discepoli erediterete la dichiarazione che farò oggi e ne diffonderete lo spirito in tutto il mondo, al meglio delle vostre capacità.
Sebbene nel mondo stia prendendo forma un movimento contro gli esperimenti sulle armi nucleari, desidero affrontare il problema alla radice. Voglio esporre e strappare gli artigli che si celano nelle profondità di queste armi. Per questo invoco la condanna a morte per chiunque dovesse decidere di utilizzare le armi nucleari, che appartenga a un paese vincitore o a un paese sconfitto, a prescindere dalla sua nazionalità.
Perché dico questo? Perché noi, cittadini del mondo, abbiamo l’inviolabile diritto alla vita. Chiunque attenti a questo diritto è una incarnazione del demone, un criminale e un mostro. Propongo che l’umanità applichi, in ogni caso, la pena di morte contro tutti coloro che si rendono responsabili dell’uso di ordigni nucleari, anche se dovessero appartenere al paese vincitore di un conflitto».
Josei Toda considerava le armi nucleari l’invenzione più diabolica del XX secolo. Il termine giapponese “demone” (ma) è la traslitterazione della parola sanscrita māra (demone), che si traduce in cinese in vari modi come “assassino”, “ladro di vita” o “distruttore”. Si potrebbe dire che la funzione del demone sia quella di confondere e tormentare la mente delle persone, privarle della vita e distruggerne la saggezza.
Nella tradizione buddista il simbolo per eccellenza di questa funzione è il re demone del sesto cielo, che viene anche chiamato “Colui che gode liberamente delle creazioni illusorie degli altri” e denota un individuo che desidera controllare e sottomettere gli altri. In questa luce la dottrina della deterrenza nucleare, che sfrutta le paure dei popoli per giustificare l’esistenza di arsenali nucleari in grado di provocare uno sterminio di massa, è di per sé una funzione manifesta del re demone del sesto cielo.
Un elemento centrale della dichiarazione di Toda contro le armi nucleari era il suo appello ad annientare questa natura demoniaca che si nasconde profondamente nella vita degli esseri umani. In quell’epoca anche in Giappone si stava diffondendo un movimento popolare che puntava all’abolizione degli esperimenti sulle armi nucleari. Non di meno Toda sentì l’urgenza di ribadire che, per “strappare gli artigli” di queste armi, per sradicare il demone che alligna nelle loro profondità, fosse essenziale affermare che esse erano il prodotto della natura demoniaca della vita, un male assoluto la cui stessa esistenza era inammissibile.
Egli riteneva che le armi nucleari e il loro uso dovessero essere assolutamente condannati, non dal punto di vista dell’ideologia, del nazionalismo o dell’identità etnica, ma dalla dimensione universale dell’umanità. È questo che rende straordinaria la sua dichiarazione ed è per questa ragione che essa continuerà a rappresentare un faro luminoso negli anni futuri.
Invocando l’abolizione delle armi nucleari Josei Toda aveva chiesto l’adozione della pena di morte, senza eccezione alcuna, per coloro che avessero deciso di usare quel tipo di ordigni. Ma questo non significava certo che egli approvasse o perorasse la pena di morte come strumento punitivo in generale. In diverse occasioni aveva affermato che secondo il Buddismo, che si basa sulla legge di causa ed effetto, non era concepibile che una persona potesse condannarne un’altra. Perché allora, si spinse fino al punto di usare le parole “pena di morte” nella sua dichiarazione?
Egli non stava chiedendo che la comunità internazionale introducesse una legge che autorizzasse la pena di morte contro coloro che si rendevano responsabili dell’uso di ordigni nucleari. Più semplicemente, il suo scopo era affermare l’idea che l’uso delle armi nucleari, un atto che privava gli esseri umani del diritto fondamentale a esistere, doveva essere considerato un male assoluto. Egli sperava che, con la graduale diffusione di questa visione e di questo modo di sentire fra i leader delle nazioni e i popoli del mondo, si giungesse a riconoscere un saldo principio morale che avrebbe impedito l’uso delle armi nucleari. Solo la massima punizione possibile, cioè la pena di morte, poteva ritenersi adeguata per un crimine di tale estrema gravità e malvagità.
Se Toda si fosse limitato a etichettare come demoni, criminali e mostri coloro che impiegavano ordigni nucleari, la sua sarebbe rimasta una dichiarazione astratta. E di certo non sarebbe riuscito a comunicare fino in fondo la sua convinzione che l’uso delle armi nucleari costituiva un male assoluto. Il fatto che avesse invocato la pena di morte mirava a sradicare dalla mente delle persone qualsiasi tendenza a giustificare l’uso delle armi nucleari. In un certo senso stava condannando a morte gli impulsi demoniaci che si annidano nella vita umana.
Toda pronunciò la sua dichiarazione in un momento in cui la guerra fredda era al suo apice. Gran parte delle argomentazioni di quel periodo in tema di armi nucleari rifletteva l’ideologia o del blocco orientale o di quello occidentale. Ma la sua dichiarazione si discostava radicalmente da questo modo di pensare, identificando le armi nucleari come un male fondamentale per il loro impatto sugli esseri umani.
La voce di Toda si fece ancora più intensa: «Se anche una nazione dovesse conquistare il mondo per mezzo delle armi nucleari, i conquistatori dovranno essere giudicati per quello che sono, come demoni in carne e ossa. Ritengo che la missione di ogni membro del Gruppo giovani del Giappone consista nel diffondere questo principio in tutto il globo.
Vorrei concludere esprimendo le mie aspettative affinché trasmettiate questo mio appello in tutto il pianeta, con lo stesso entusiasmo che avete dimostrato durante le gare sportive di oggi».
Un applauso scrosciante salutò la conclusione del discorso di Toda, mentre ondate di emozione ed eccitazione pervadevano lo stadio.
Toda disse che questa dichiarazione contro le armi nucleari era la più importante delle sue istruzioni finali per i giovani e ciò ha un significato profondo. Dato che il Buddismo di Nichiren Daishonin è una religione che esiste per la felicità delle persone, la realizzazione della sua missione religiosa, cioè l’adozione dell’insegnamento corretto da parte della società, deve accompagnarsi alla costruzione di una terra pacifica e ciò si realizza solo quando ogni singolo praticante adempie la propria missione nella società.
Toda sapeva che dietro l’esistenza delle armi nucleari si annidava la natura demoniaca intrinseca nella vita umana e aveva compreso che era possibile sconfiggerla solo attraverso il potere della natura di Budda. Gli esseri umani avevano creato le bombe atomiche, e perciò erano anche capaci di eliminarle. Era convinto che l’esistenza della natura di Budda negli esseri umani avrebbe senz’altro permesso di abolire le armi nucleari e affidò ai giovani il compito di trasmettere questa convinzione agli altri, incoraggiando tutti a credere nella natura di Budda di ogni persona, a risvegliarla e a trasmettere ampiamente la nozione che le armi nucleari sono un male assoluto.
La dichiarazione di Toda sarebbe diventata la base delle attività per la pace della Soka Gakkai.
Mentre ascoltava le parole di Toda, Shin’ichi Yamamoto provò un’intensa emozione e promise a se stesso che avrebbe assolutamente messo in pratica e realizzato fino in fondo le disposizioni del suo maestro.
Da quel giorno cominciò a riflettere senza sosta per trovare il modo di diffondere la convinzione di Toda in tutto il mondo.
Adattamento da La rivoluzione umana, volume 12 capitolo “Dichiarazione”, edizione riveduta pubblicata in giapponese nel 2013.
La chiave è la trasformazione interiore
In un discorso tenuto a Hiroshima, la città colpita dalla prima bomba atomica, il presidente Ikeda delinea la via essenziale per la realizzazione di una pace duratura. In base al principio buddista secondo il quale il disordine sociale è causato dalle impurità nella vita delle persone, spiega che le iniziative della Gakkai mirano ad aiutare gli individui a purificare e a trasformare la loro vita.
Il presidente Toda era ben coscio di quanto le armi nucleari fossero diverse dalle armi tradizionali, poiché rappresentano una minaccia per l’esistenza stessa dell’umanità.
L’abolizione delle armi nucleari è uno degli scopi più importanti del movimento per la pace in tutto il mondo, cosa perfettamente comprensibile alla luce di ciò che sappiamo oggi. Ma Toda, con acuta preveggenza, aveva compreso la natura del problema sin dagli albori della corsa alle armi nucleari e aveva pronunciato un appello per la loro messa al bando.
Tutti e tutte abbiamo diritto alla vita, diritto alla felicità. Il diritto alla vita è inviolabile. In più, nessuno ha il diritto di derubarci della nostra libertà spirituale.
Finché le persone saranno deboli e sottomesse all’autorità, la natura demoniaca del potere prospererà e cercherà di sfruttarle. L’unico mezzo che hanno le persone per assicurarsi pace e felicità autentiche è prendere posizione, indignarsi e battersi contro tali abusi di potere, contro gli impulsi demoniaci inerenti alla vita. L’appello del mio maestro era una sfida diretta e un severo monito a questa natura demoniaca occulta.
Lo scopo della nostra pratica buddista è far sì che le persone mantengano coraggiosamente i propri princìpi e avanzino verso la felicità senza farsi spaventare dagli abusi e dalle persecuzioni di chi detiene il potere; è proteggere la dignità umana, realizzare una pace duratura e tutelare la libertà spirituale di tutte le persone. Facendo nostre le istruzioni di Toda, che erano sostenute dalla sua forte personalità, capacità di giudizio e convinzione, propaghiamo il nostro grande movimento per la pace e la solidarietà delle persone in tutto il mondo nel secolo a venire.
Quali sono le cause che scatenano la guerra e le altre sciagure che minacciano la sopravvivenza umana? Nichiren Daishonin cita un trattato buddista in cui si afferma: «Poiché la collera cresce di intensità, si scatenano conflitti armati. Poiché l’avidità cresce di intensità, sopraggiunge la carestia. Poiché la stupidità cresce di intensità, scoppiano le epidemie. E poiché si verificano queste tre calamità, i desideri terreni diventano più intensi e le false visioni prosperano sempre più»6 (Raccolta degli insegnamenti orali, BS, 110, 58).
In altre parole, nella loro essenza le calamità della guerra, della carestia e dell’epidemia derivano dalle impurità presenti nella nostra vita, dai tre veleni di avidità, collera e stupidità.7 Perciò dobbiamo essere preparati al fatto che il Giappone e il resto del mondo saranno sempre soggetti a simili tragedie.
Sin dalla mia nomina a terzo presidente della Soka Gakkai ho sempre pregato per due scopi: che non si verifichino terremoti e che ci siano buoni raccolti. Il motivo è che desidero sinceramente che i nostri membri, nobili figli del Budda, siano sempre al sicuro; ancora oggi questa è la mia sincera preghiera.
Una pace duratura non si può realizzare solo con misure politiche ed economiche. Vanno eliminate le impurità dei tre veleni, che potremmo considerare malattie intrinseche alla vita stessa. In altre parole, la via più sicura per una pace duratura consiste nella purificazione e nella trasformazione della vita di ogni individuo. Questo insegna il Buddismo, questo è il nucleo della pratica buddista. Sono fermamente convinto che qui si trovi la ricetta migliore per guarire in modo definitivo le malattie spirituali dell’umanità e della società.
Da un discorso a una cerimonia di Gongyo nella prefettura di Hiroshima, 15 ottobre 1989
Il potere per vincere la minaccia delle armi nucleari
Su iniziativa del presidente Ikeda, deciso a mettere in atto concretamente la dichiarazione contro le armi nucleari del suo maestro, la Sgi ha sponsorizzato in tutto il mondo varie mostre per l’abolizione di tali armamenti. Nella sua prima visita in Costa Rica del 1996, Ikeda partecipò all’inaugurazione della mostra “Armi nucleari: una minaccia per il nostro mondo”. Colpito dalle allegre voci infantili che giungevano dal Museo dei bambini – situato dietro la porta accanto alla sede della mostra – iniziò il suo discorso con alcune osservazioni improvvisate che li riguardavano.
Bambini e bambine, emissari dal futuro! Che meraviglia sentirsi uniti a queste giovani vite che si assumeranno la responsabilità del XXI secolo! Da questa sala possiamo udire le loro voci allegre mentre giocano nella stanza accanto, dove ha sede il Museo dei bambini. La vista e il suono di questa gioventù piena di vita sono l’immagine stessa della pace. In loro risiede il potere per vincere la minaccia delle armi nucleari, in loro risiede la speranza.
I bambini e le bambine sono il simbolo della fioritura della vita, mentre le armi nucleari sono simboli di morte e distruzione. È davvero significativo poter celebrare l’inaugurazione della mostra “Armi nucleari: una minaccia per il nostro mondo” proprio qui, insieme a loro.
La Soka Gakkai rifiuta ogni forma di violenza. Questo è il nostro credo eterno. Durante la seconda guerra mondiale il primo e il secondo presidente della nostra organizzazione, Tsunesaburo Makiguchi e Josei Toda, denunciarono pubblicamente il militarismo giapponese, e per questo furono imprigionati. Il presidente Makiguchi morì in carcere all’età di 73 anni.
Nel 1957, solo sette mesi prima della sua stessa morte, Toda, il successore di Makiguchi, pronunciò una Dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari. In un’epoca in cui la corsa agli armamenti nucleari si stava intensificando, il mio maestro affrontò tale minaccia direttamente, denunciando con veemenza questo tipo di armi e la prospettiva di distruzione di massa che esse rappresentano, dichiarando che tutte le persone del mondo hanno l’inviolabile diritto di vivere.
Il compito principale che il presidente Toda affidò a noi giovani fu quello di rendere la filosofia di rispetto della dignità della vita la principale corrente spirituale dell’epoca: a tale scopo mi sono adoperato al meglio delle mie capacità per condurre dialoghi e forgiare legami di amicizia in tutto il mondo alla ricerca della pace.
Il nostro obiettivo deve essere sviluppare le potenzialità inerenti alla vita, assai più forti del potere delle armi nucleari, e creare fra le persone una crescente solidarietà che sia più potente dell’impulso alla proliferazione nucleare.
Questo è un obiettivo importante per l’educazione e per le varie iniziative che mirano ad accrescere nelle persone la consapevolezza del loro potere interiore.
Per quanto mi riguarda, finché avrò vita sono determinato a portare avanti senza sosta, insieme a voi, la battaglia spirituale per creare un mondo libero dalla violenza.
Da un discorso all’inaugurazione della mostra “Armi nucleari: una minaccia per il nostro mondo” presso il Centro della Costa Rica per la pace e la cultura, San José, 28 giugno 1996
Il dialogo è la via più sicura per realizzare la pace
L’11 settembre 2001 gli attacchi terroristici agli Stati Uniti sconvolsero il mondo. In un clima di paura crescente per questa escalation del terrorismo e per l’aumento vertiginoso della corsa agli armamenti, il presidente Ikeda sottolinea l’importanza di rimanere fedeli alla via del dialogo.
Negli anni trascorsi dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 il livello di tensione nel mondo è aumentato enormemente. Mentre i governi inaspriscono le misure di sicurezza per prevenire attentati che potrebbero colpire in qualsiasi momento, un senso di paura e insicurezza permea la vita di tante persone comuni e non ci sono segni di un ritorno alla normalità.
Anche se questa situazione mostra una certa somiglianza con quella presente durante la guerra fredda, la minaccia attuale ha dimensioni forse ancora più insondabili. È impossibile identificare i potenziali autori delle azioni terroristiche e non si vede con chiarezza quali misure potrebbero risolvere la situazione. C’è una tormentosa sensazione di vulnerabilità che anche le azioni militari più aggressive e le misure di sicurezza più intrusive non hanno il potere di alleviare.
In molti paesi, negli ultimi anni, la priorità accordata alla sicurezza nazionale ha alimentato una tendenza alla crescita degli armamenti, mentre le preoccupazioni per la sicurezza interna divengono sempre di più giustificazioni per operare restrizioni dei diritti e delle libertà. Nel frattempo sono state sottratte energie e attenzione agli sforzi internazionali per affrontare problemi globali come la povertà e il degrado ecologico. Il conseguente aggravamento delle minacce alla vita e alla dignità delle persone è un altro tragico risultato del terrorismo e dei tentativi di reprimerlo.
Come può l’umanità del XXI secolo superare la crisi che ha di fronte?
Ovviamente non c’è una soluzione facile, una “bacchetta magica” che possiamo agitare per far sì che tutto vada a posto. La strada che abbiamo di fronte è irta di pericoli, poiché impone di individuare una risposta appropriata a un tipo di violenza che respinge ogni tentativo di instaurare un rapporto o un dialogo.
E tuttavia non bisogna in alcun modo cadere in un pessimismo infecondo e senza senso. Tutti questi problemi sono causati dagli esseri umani e dunque devono avere una soluzione umana.
Per quanto lunga possa essere la strada da percorrere, fintanto che non abbandoneremo il compito di districare l’imbrogliata matassa di questioni e problemi interrelati, possiamo star certi che troveremo un modo per uscirne.
Il nucleo di tali sforzi dovrebbe consistere nel far emergere compiutamente le potenzialità del dialogo. Finché ci sarà storia umana si dovrà affrontare la sfida perenne di realizzare, mantenere e rafforzare la pace attraverso il dialogo, facendo del dialogo il sentiero sicuro e certo verso la pace. Questa convinzione va sostenuta e dichiarata senza posa, indipendentemente dalle critiche ciniche o dai freddi sorrisi condiscendenti che otterremo in risposta.
Il 1975, anno in cui fu fondata la Sgi, vide anche un aggravamento dei conflitti e delle divisioni a livello mondiale: mentre ancora si avvertivano i postumi della quarta guerra arabo-israeliana (1973) e della guerra del Vietnam, e si teneva il primo vertice dei principali paesi industrializzati per rafforzare il blocco occidentale, nel blocco comunista lo scontro fra Cina e Unione Sovietica raggiungeva livelli inquietanti.
Dedicai quell’anno, che avrebbe condotto alla fondazione della Sgi, a compiere intensi sforzi in direzione del dialogo. Nel 1974 feci le mie prime visite in Cina e in Unione Sovietica. Pienamente conscio delle tensioni potenzialmente esplosive, mi incontrai ripetutamente con i massimi leader dei due paesi, impegnandoli in un dialogo aperto.
In Giappone, a quell’epoca, l’Unione Sovietica e il suo popolo erano oggetto di sentimenti ostili e violenti, e molti criticarono la mia decisione di visitare quel paese chiedendomi quale scopo potesse mai avere la visita di un religioso in un paese che negava ufficialmente il valore e la validità della religione. Ma la mia sincera convinzione, come buddista, era che non potesse esistere alcun ideale di pace che non riconoscesse e abbracciasse quel terzo del mondo costituito dal blocco comunista. Era cruciale a mio avviso trovare quanto prima uno spiraglio di comunicazione.
Durante la mia prima visita in Cina, nel maggio del 1974, vidi con i miei occhi gli abitanti di Pechino costruire una vasta rete di rifugi sotterranei nell’eventualità di un attacco sovietico. Quando, circa tre mesi dopo, incontrai il premier sovietico Alexei N. Kossighin (1904-1980), gli comunicai le preoccupazioni dei cinesi riguardo alle intenzioni sovietiche e gli chiesi senza mezzi termini se l’Unione Sovietica avesse in programma di attaccare la Cina. Il premier mi rispose che l’Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione né di attaccare né di isolare la Cina.
Durante la mia successiva visita in Cina, nel dicembre dello stesso anno, riferii questo messaggio alla dirigenza cinese. Nella stessa occasione incontrai il presidente Zhou Enlai (1898-1976) e discussi con lui dell’importanza di promuovere e rafforzare le relazioni di amicizia fra Cina e Giappone e di lavorare insieme per il miglioramento della situazione mondiale nel suo complesso.
Nel gennaio 1975 visitai gli Stati Uniti e presentai alle Nazioni Unite una petizione per l’abolizione degli armamenti nucleari con più di dieci milioni di firme raccolte dai giovani della Soka Gakkai in Giappone. Ebbi anche l’opportunità di intraprendere uno scambio di vedute con il segretario di Stato americano Henry Kissinger.
Fu nel mezzo di questi sforzi febbrili per promuovere il dialogo che trent’anni fa, il 26 gennaio 1975, fu fondata la Sgi. La riunione inaugurale si tenne sull’isola di Guam – teatro di aspri combattimenti durante la seconda guerra mondiale – e vi parteciparono i rappresentanti di cinquantun paesi e territori.
A partire da allora, la Sgi ha cercato sempre di attingere alle risorse di energia e creatività della gente per costruire un vero e proprio movimento popolare per la pace.
Fin da quella prima riunione i membri della Sgi hanno costantemente sostenuto la convinzione che il dialogo rappresenta la via più sicura e certa verso la pace. Io mi sono dedicato alla “diplomazia umana”, quel tipo di diplomazia che cerca di unire un mondo diviso in uno spirito di amicizia e fiducia, e di promuovere vasti scambi a livello di base in ambito culturale ed educativo.
Cercando di guardare oltre le differenze nazionali e ideologiche, ho intrapreso dialoghi con vari esponenti mondiali provenienti dai più disparati ambiti di attività. Ho incontrato e scambiato riflessioni con persone di varie provenienze filosofiche, culturali e religiose, fra cui l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Islamismo, l’Induismo e il Confucianesimo. Credo fermamente, e quest’esperienza me l’ha confermato, che la base del dialogo di cui abbiamo bisogno nel XXI secolo debba essere l’umanesimo, un umanesimo che vede il bene in tutto ciò che ci avvicina e ci unisce e il male in ciò che ci divide e ci separa.
Dalla Proposta di pace 2005 “Verso una nuova era di dialogo: esplorare l’umanesimo”, in occasione del trentesimo Giorno della Sgi, 26 gennaio 2005, cfr. BS, 110
Scegliere il dialogo
Il presidente Ikeda ha intrattenuto scambi e dibattiti con numerosi intellettuali e leader di tutto il mondo. In questo estratto spiega come, attraverso un dialogo sincero, sia riuscito a inaugurare un cammino verso la pace mondiale e kosen-rufu.
Maggio è il mese del mio dialogo con Arnold J. Toynbee, uno dei maggiori storici del XX secolo. Durante le mie due visite a Londra, che si svolsero sempre in maggio, parlammo per più di quaranta ore. La prima avvenne il 5 maggio 1972 e la seconda il 19 maggio dell’anno successivo.
Toynbee allora aveva 84 anni e io 45. L’ultimo giorno delle nostre conversazioni mi disse, lanciandomi uno sguardo penetrante con suoi occhi gentili, di nutrire la speranza che nei molti anni che avevo ancora davanti io continuassi a instaurare dialoghi con i maggiori pensatori mondiali. Il dialogo, aggiunse con enfasi, è la chiave per il futuro dell’umanità.
Da allora sono passati trent’anni; per rispondere alla fiducia che Toynbee ripose in me ho condotto più di 1500 dialoghi con tantissime personalità, fra cui Henry Kissinger, Bryan Wilson, Aurelio Peccei, René Huyghe, Anatoli Logunov, Josef Derbolav, Chandra Wickramasinghe, Chang Shuhong e Hazel Henderson.8
Quelle conversazioni in libertà sulla filosofia, la pace, la cultura e l’educazione, e il lavoro svolto insieme per pubblicare quei dialoghi, sono fra i miei ricordi più importanti.
Il dialogo è veramente la mia vita.
Proprio perché siamo così diversi, il dialogo ci permette di creare qualcosa di puro e di valore, di fare nuove scoperte. Il dialogo funziona come uno specchio che ci permette di vedere gli altri e noi stessi, di spezzare il guscio del nostro io ed espandere la nostra vita.
Ovviamente nella realtà tormentata e complessa in cui viviamo il dialogo non porta automaticamente alla comprensione reciproca. Non è così semplice. Tuttavia è ovvio che senza dialogo non ci si può capire. Quando si basa la propria posizione su preconcetti o pregiudizi, senza cercare di incontrarsi e parlare, non si fa che alimentare inutilmente l’incomprensione e l’ostilità. Questo genere di arroganza ha inflitto sofferenze indicibili all’umanità!
Che si tratti delle nostre relazioni personali, dei contatti con vicini e conoscenti, o dei rapporti fra le nazioni, tutto parte dall’incontrarsi, dialogare e conoscersi reciprocamente. Si tratta di avere il coraggio di avvicinare le altre persone e parlare con loro.
Scegliere il dialogo è di per sé una vittoria della pace e un trionfo della nostra umanità. Perciò ho incontrato, come essere umano che incontra un suo simile, ogni tipo di persona al di là delle differenze di nazionalità, etnia, religione, ideologia, età, genere e posizione sociale. E ho anche portato avanti dialoghi interreligiosi per la pace con esponenti di varie confessioni religiose: cristiana, islamica, induista ed ebraica. Ho dialogato con persone diversissime, fra cui statisti, politici, educatori, accademici, scienziati, economisti, attivisti per la pace, giornalisti, scrittori, poeti, artisti, astronauti e anche con persone che erano state incarcerate per le loro idee.
In ognuno di questi incontri ho cercato di scoprire a cosa quella persona avesse dedicato l’esistenza – in altre parole quale fosse lo scopo della sua vita, la sua missione – e di impararne qualcosa. Ascoltare le preziose esperienze e la saggezza di queste persone di prim’ordine offre un’opportunità di ricchezza maggiore che leggere una montagna di libri.
I dialoghi sono come opere teatrali in vari atti. Ci sono fasi in cui volano scintille e attimi di gioia sublime in cui i partecipanti generano meravigliosi accordi armonici. Un dialogo vivace dà un’immensa soddisfazione e trabocca di dinamismo. Perciò dedico tutto me stesso a questi incontri.
«Le parole sono semi». Come dice questo proverbio della Corea del Sud, i semi che piantiamo grazie al dialogo con il tempo cresceranno e sbocceranno.
Quando dialoghiamo con una persona non stiamo parlando solo a chi abbiamo davanti. Quella persona ha una famiglia, amici e molti giovani successori che porteranno avanti la sua opera. Un bel dialogo nel quale due cuori si incontrano diventa immancabilmente il punto di partenza di conversazioni future, il primo passo verso la creazione di una rete di amicizia sempre più vasta.
Il cammino che porta dal conflitto alla collaborazione è il dialogo. Il dialogo è la strada per costruire ponti che conducono alla pace. Sono deciso a dedicarvi ogni giorno della mia vita, fiducioso che le generazioni future seguiranno le mie orme.
Dalla serie di saggi “Riflessioni sulla Nuova rivoluzione umana”, pubblicato sul Seikyo Shimbun il 31 maggio 2003
Un’epoca di competizione umanitaria
In questo brano il presidente Ikeda analizza il significato profondo della “competizione umanitaria”, un concetto innovativo per la pace e la coesistenza creativa coniato dal fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi nella sua opera Jinsei Chirigaku (La geografia della vita umana).
Il messaggio principale de La geografia della vita umana è che noi esseri umani dovremmo vivere come cittadini globali, con la consapevolezza che il mondo è la nostra casa, il palcoscenico delle nostre azioni. Come dice il titolo, questo libro esplora a fondo i legami fra l’umanità (vita umana) e il mondo (geografia).
In quest’opera il presidente Makiguchi definisce quattro stadi di sviluppo della società umana. I primi tre sono gli stadi della competizione militare, della competizione politica e della competizione economica. E ciò si è dimostrato vero. Egli fa rientrare il mondo dei suoi tempi nel terzo stadio, quello della competizione economica, in cui tutte le cose vengono misurate in termini di guadagno e perdita. Ma questo, a suo avviso, non è lo stadio finale dello sviluppo umano. Secondo la sua analisi segue un quarto stadio, quello della “competizione umanitaria”.
Sarà un tempo in cui gli affari mondiali non saranno più dominati dalla lotta per la supremazia militare, politica o economica, ma dal potere dell’umanitarismo. La sua era una visione veramente potente.
Il cammino della speranza per l’umanità, il grande cammino del Buddismo, consiste nell’individuare i mezzi per rafforzare il nostro carattere e la nostra umanità, e ciò avrà la precedenza sulla forza militare, sul potere politico e sulla crescita economica.
Come previde con grande acume il presidente Makiguchi, la luce dell’umanesimo sta ora iniziando a illuminare il mondo. L’umanesimo è l’unica via che la specie umana può perseguire. Impegniamoci a inaugurare una brillante epoca di umanità grazie al nostro impegno nella promozione della pace, della cultura e dell’educazione basati sui princìpi del Buddismo di Nichiren.
Da un discorso a una riunione generale della Sgi, Tokyo, 22 ottobre 1993
Le donne possiedono la chiave
Il presidente Ikeda sostiene che il potere delle donne e i loro sforzi tenaci per incoraggiare e ispirare individualmente ogni persona sono la forza trainante per creare una cultura di pace.
Per tutta la lunga storia dell’umanità le donne sono quelle che hanno maggiormente sofferto ogni volta che la società è stata devastata dalla guerra, dalla violenza, dall’oppressione, dalla violazione dei diritti umani, dalle malattie e dalle carestie.
Ciononostante sono state loro che hanno perseverato nell’indirizzare la società verso il bene, la speranza e la pace. Le donne possiedono la chiave per aprire un futuro pieno di speranza, come sottolineò il Mahatma Gandhi: «Se per forza si intende la forza bruta, allora la donna è davvero più debole dell’uomo. Se per forza si intende il potere morale, allora la donna è immensamente superiore all’uomo. […] Se la nonviolenza è la legge del nostro essere, il futuro è delle donne».9
Elise Boulding, rinomata esperta di studi sulla pace, rileva che le culture di pace risiedono in ogni processo individuale in cui si continuano a mettere in atto con tenacia comportamenti orientati alla pace. A questo proposito la studiosa attribuisce particolare importanza al ruolo delle donne.
La pace non è qualcosa che possiamo delegare ad altre persone in luoghi lontani, ma dobbiamo crearla giorno per giorno coltivando la cura e la considerazione per gli altri, costruendo legami di amicizia e fiducia nelle nostre rispettive comunità attraverso le azioni e l’esempio.
Aumentando il rispetto per la sacralità della vita e per la dignità umana attraverso il nostro comportamento quotidiano e il costante impegno nel dialogo, si approfondiranno e si rafforzeranno le fondamenta di una cultura di pace che permetterà il fiorire di una nuova civiltà globale. Con le donne come capofila, quando ogni singolo individuo si impegnerà in modo consapevole, saremo in grado di impedire che la società ricada in una cultura di guerra e potremo sviluppare e concentrare le energie per la creazione di un secolo di pace.
La Sgi si è sempre adoperata per favorire l’empowerment – della gente, tra la gente e per la gente – attraverso un processo che noi definiamo “rivoluzione umana”. Empowerment significa essenzialmente liberare appieno il potenziale illimitato insito in ogni essere umano, sulla base del concetto buddista secondo cui la nostra felicità è indissolubilmente legata a quella degli altri.
È nostra convinzione che attraverso l’impegno attivo nei confronti degli altri e il processo di sostegno e incoraggiamento reciproci si possano realizzare la pace e la felicità individuali, e consolidare ulteriormente le fondamenta di un mondo pacifico.
Constato con grande gioia e orgoglio come i membri della Sgi, impegnati nella invisibile ma costante azione di incoraggiare gli amici che stanno soffrendo e aiutarli a ritrovare la forza di vivere e di sperare, abbiano costruito una solidarietà della gente attraverso il loro movimento per la pace, la cultura e l’educazione come buoni cittadini e cittadine dei propri paesi e comunità.
Desidero ribadire che instaurare relazioni personali basate sulla fiducia e sul rispetto significa mettere esattamente in pratica una cultura di pace. Sono convinto che si potrà veramente realizzare una cultura di pace stabile su scala globale quando la pace metterà radici nella mente di ogni singola persona.
Dalla Proposta di pace 2000 “La pace attraverso il dialogo: l’era della discussione. Riflessioni su una cultura di pace”, in occasione del venticinquesimo Giorno della Sgi, 26 gennaio 2000, cfr. DuemilaUno, n. 80
(Traduzione di Marialuisa Cellerino)