Raffaella Di Marzio
Centro Studi sulla Libertà di Religione Credo e Coscienza
L’articolo tratta della diffusione e degli effetti delle fake news diffuse da gruppi e singoli militanti del movimento antisette, che etichettano organizzazioni religiose-target come “sette”, “psicosette” o “sette distruttive”. Nonostante la grande varietà di gruppi e movimenti religiosi presenti in un determinato contesto, le fake news riproducono invariabilmente lo stesso copione, al fine di indurre nel pubblico l’idea generalizzata della pericolosità sociale di movimenti religiosi non solo del tutto innocui, ma anche ben integrati nella società, dove svolgono un ruolo positivo nella promozione del dialogo e dei diritti umani. Un esempio emblematico di questo processo di distorsione comunicativa è la diffusione di fake news sull’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (IBISG), uno dei numerosi gruppi bersagliati ed etichettati come “sette”, che “manipolano la mente” dei loro seguaci, nelle fake news diffuse da alcuni ex-membri, dirigenti e membri di associazioni antisette.
Il fenomeno delle fake news si sta configurando come uno degli effetti più negativi dell’espansione dell’informazione digitale, producendo conseguenze talora rilevanti a livello planetario, riuscendo a creare delle vere e proprie realtà parallele credute “vere” da milioni di persone, che, nonostante non abbiano alcun fondamento, riescono a influenzare le decisioni di molti. È possibile affermare che, attualmente, non esiste un solo settore dell’informazione che non sia affetto dalla “malattia” delle fake news. In questo contributo si tratterà di quelle riferite al mondo delle religioni minoritarie, considerate “nuove” o “alternative” in un determinato contesto culturale.
Il fenomeno della disinformazione su organizzazioni religiose, sia minoritarie sia maggioritarie, è sempre esistito, ma attualmente si assiste a una più ampia e veloce diffusione di queste notizie false grazie all’uso di Internet e dei social network (Bakir e McStay 2018) e all’abitudine dei media generalisti di riprendere le notizie da altre fonti senza effettuare alcun controllo sulla loro attendibilità.
Nel caso specifico in oggetto, i principali creatori di queste false notizie sono persone e associazioni “antisette” la cui azione è in grado di provocare gravi conseguenze sociali. Infatti, la riproposizione e amplificazione di dati e notizie false e allarmistiche, nell’ambito specifico delle minoranze religiose, suscita iniziative e provoca decisioni, anche da parte di apparati istituzionali, che causano la violazione delle fondamentali libertà e dei diritti civili di intere comunità religiose. L’effetto prodotto sull’opinione pubblica è la creazione di un’immagine distorta secondo la quale queste organizzazioni sarebbero un pericolo per la società e, in particolare, per i soggetti più deboli.
Chiarificazioni terminologiche
Prima di esaminare nel dettaglio il caso delle fake news riferite alla Soka Gakkai è necessario chiarire il significato di alcuni concetti che saranno utilizzati in questo contributo: “fake news”, “sette”, “manipolazione mentale” e gruppi “antisette”.
Per quanto riguarda le fake news, il sociologo italiano Massimo Introvigne, in un’intervista rilasciata il 9 maggio 2018, le definisce così:
Le fake news non sono semplicemente delle notizie false. Esse infatti vengono diffuse continuamente e sistematicamente non solo attraverso i media (questa è “disinformazione”), ma anche attraverso i social media. Si tratta di notizie false che vengono ritenute vere perché provengono, oltre che dai media professionisti, anche da privati cittadini che sembrano agire in modo indipendente. Il movimento antisette ha diffuso spesso notizie che oggi noi chiameremmo fake news. Il problema è che oggi noi non abbiamo a che fare solo con organizzazioni private ma anche con i governi (Introvigne 2018).
Le falsità diffuse su gruppi religiosi minoritari tendono a confermare pregiudizi e paure infondate sul “diverso”, di cui l’opinione pubblica è già affetta, anche nelle fasce sociali più istruite, in alcuni settori delle istituzioni, e nell’informazione generalista (Gelfert 2018).
Il primo elemento ricorrente in questo genere di fake news è l’uso generalizzato, da parte di gruppi antisette e dei media, del termine “setta”. Al fine di definire questo particolare fenomeno, negli anni 1980, due studiosi americani hanno coniato il termine cultphobia (fobia delle sette), da loro definita, ironicamente, una nuova “malattia mentale” (Kilbourne e Richardson 1986, 259). Il termine “setta”, infatti, prescinde dal suo significato letterale ed etimologico – che indica un gruppo separatosi da un altro maggioritario o che segue un leader e una dottrina particolare – e diventa uno “stigma”: la “setta” è un’organizzazione criminale, guidata da leader che perseguono finalità distruttive a danno del singolo e della società, nella quale si schiavizzano e si sfruttano – fisicamente e psicologicamente – le persone.
Per queste sue connotazioni fortemente discriminanti, il termine “setta” è stato ormai abbandonato nelle pubblicazioni scientifiche della maggior parte dei sociologi della religione (Richardson 1993), che prediligono altri termini privi di connotazioni dispregiative, come “movimenti religiosi”, “nuovi movimenti religiosi”, “movimenti religiosi alternativi”, “minoranze religiose”. L’abbandono dell’uso del termine “setta” fu dovuto alla preoccupazione per l’atteggiamento antireligioso del movimento antisette americano e per la minaccia che lo “stigma” poteva rappresentare per la libertà di religione (Hood. et al. 2009, 259-267; Shupe et al. 2004). Anche autorevoli istituzioni internazionali, come il Consiglio d’Europa, hanno emanato raccomandazioni agli Stati membri, invitandoli a non criminalizzare organizzazioni religiose o spirituali: “non è necessario definire che cosa è una setta o decidere se è una religione oppure no” e, in caso di violazioni delle leggi, si raccomanda di usare le procedure normali della legge civile e penale contro le pratiche illegali portate avanti in nome di gruppi di natura religiosa, esoterica o spirituale (Council of Europe 1999).
Una delle accuse più gravi, diffuse nelle fake news contro le “sette”, è quella di praticare la “manipolazione mentale” o “controllo mentale” ai danni degli adepti. La manipolazione mentale sarebbe messa in atto, unitamente all’inganno, nella fase del reclutamento (Hassan 1988; Singer e Lalich 1995), anche dopo l’affiliazione, per rafforzare il controllo sul neofita, e per rendere difficile o impossibile l’uscita dal gruppo (Zablocki 1997; 1998).
In questo caso la falsificazione o “pseudoverità” presente nelle fake news sta nel fatto che queste teorie, propagandate come “scientifiche” e presentate come condivise da un ampio numero di studiosi, in realtà hanno pochissimi aderenti in ambito accademico perché, alla prova dei fatti, si sono rivelate infondate. A partire dagli anni 1970 studiosi di diverse branche del sapere, in ambito psicologico e sociologico, si sono occupati di puntualizzare lo stato delle ricerche in questo campo, contribuendo a smascherare varie e diffuse forme di disinformazione che vorrebbero scientificamente provata l’esistenza di tecniche di manipolazione mentale attuate nelle “sette” (Introvigne 2002; Anthony e Robbins 2004). Inoltre, importanti associazioni professionali le hanno rifiutate, perché prive di fondamento empirico e quindi non scientifiche (APA 1987) e autorevoli rappresentanti nel mondo accademico della psicologia della religione hanno affermato che la teoria del “lavaggio del cervello”, applicata alla conversione ai nuovi movimenti religiosi, non è compatibile nemmeno con il processo della “persuasione coercitiva”, né in relazione al modello elaborato in Europa né a quello cinese (Hood et al. 2009, 271).
I risultati delle ricerche sul campo, anche sui movimenti più controversi, lasciano emergere una realtà molto più complessa, che va nella direzione opposta a quella diffusa nelle fake news: i modelli psicologici, elaborati per interpretare il fenomeno della conversione a gruppi religiosi e spirituali minoritari, si collocano in un continuum, che vede ai due estremi i concetti di “libertà di scelta” (modello intrinseco) e di “persuasione coercitiva” o “lavaggio del cervello” (modello estrinseco), con molte posizioni intermedie (Anthony e Robbins 1996). Nella maggior parte dei casi, le caratteristiche psicologiche del convertito, verificate con strumenti d’indagine quantitativi e qualitativi, sono quelle proprie di un individuo attivo – in diversa misura –, variamente libero e responsabile, in interazione con una proposta religiosa più o meno autoritaria e persuasiva (Cowan 2014, 699; Di Marzio 2014).
È ora il momento di chiedersi chi sono i gruppi antisette, i responsabili principali della creazione e diffusione di questo genere di notizie false. Per comprendere appieno questa tipologia di gruppi è necessario fare riferimento al fenomeno della disaffiliazione, cioè l’uscita da un movimento religioso e le sue conseguenze. La maggior parte degli ex-membri riesce a superare il momento della disillusione e del distacco dalla comunità, autonomamente, lasciandosi alle spalle l’esperienza passata e attivandosi per trovare nuove forme di aggregazione che possano corrispondere alle proprie aspirazioni. Tuttavia, per alcuni ex- membri, il periodo successivo all’abbandono del gruppo si rivela maggiormente problematico, soprattutto dal punto di vista emozionale: questi soggetti avvertono sentimenti ambivalenti nei riguardi della loro decisione di lasciare il gruppo, e talora soffrono per il senso di fallimento personale e la perdita del sostegno della comunità di cui si sentivano parte. In questi casi, una funzione utile di supporto affettivo, anche non professionale, è quella svolta da gruppi di sostegno, formati da altri ex-membri che si adoperano per aiutare gli altri, almeno nei primi difficili momenti di transizione e riadattamento alla società.
Si tratta di gruppi generalmente poco organizzati, molti dei quali, con l’avvento di Internet, hanno assunto le caratteristiche di network virtuali animati da ex-membri. Essi mettono a disposizione notizie e consigli su come superare il momento della fuoriuscita, in relazione a uno specifico movimento, oppure in riferimento a un’ampia gamma di gruppi e movimenti. Il loro atteggiamento può variare molto: dalla neutralità di approccio, che non vede nell’attività di proselitismo una forma di lavaggio del cervello, all’ostilità aperta (Bromley 2004).
In quest’ultimo caso il movimento abbandonato è considerato come l’unica ragione delle sofferenze che gli ex-membri devono affrontare dopo la disaffiliazione e la loro conversione è reinterpretata come un effetto causato dal lavaggio del cervello (Barker 1998). In effetti, la teoria del lavaggio del cervello, come spiegazione unica della conversione ai nuovi movimenti religiosi, è essenziale per sostenere le attività delle tre componenti principali del movimento antisette: amici e parenti di membri affiliati, ex-membri e gruppi antisette. La teoria del lavaggio del cervello, infatti, per ciascuno di questi soggetti, funziona come “conforto”, “consolazione” e “misura di controllo” (Cowan 2014, 693).
Secondo autorevoli studiosi, l’anti-cult movement (ACM, movimento antisette) nel suo complesso rappresenta una tipologia particolare di movimento sociale che nasce come contrapposizione a un altro tipo di movimento. Per questo motivo, l’ACM può conseguire i suoi obiettivi solo se i gruppi sociali a cui si oppone esistono e sono attivi nella società. In questo senso, gli autori affermano che l’approccio sociologico più adatto a studiare l’ACM sia quello di analizzare la sua struttura ed economia interna come quella tipica di un contro- movimento e, a livello esterno, considerarlo come un network di gruppi alleati tra loro (Shupe et al. 2004, 185).
La struttura di questi gruppi si configura, pertanto, come un network integrato di ruoli (organizzazione) e simboli (ideologia) caratterizzanti. I ruoli chiave sono quelli dei membri, dei leader, nonché degli esperti di assistenza e recupero – deprogrammatori, exit counselor, terapisti –, degli esperti in ambito giuridico – avvocati – e degli “apostati” – ex-membri disaffiliati da nuovi movimenti religiosi che aderiscono al movimento antisette. Per ciò che riguarda l’ideologia, essa si fonda sull’idea che nella società stia emergendo un nuovo problema, quello delle “sette”, e che questo problema sia sottovalutato e si stia diffondendo rapidamente, rappresentando, così, un pericolo per la società. Conseguentemente, sarebbe dunque importante intraprendere azioni concrete per recuperare gli individui compromessi – deprogrammazione/exit counseling – e contrastare i gruppi dai quali sono stati danneggiati (Shupe et al. 2004).
In questa stessa linea si pongono i contributi di altri autori che mettono in rilievo l’attività dei gruppi antisette finalizzata a creare dei “panici morali” (Jenkins 1998), con il sostegno della stampa scandalistica e di informazioni allarmistiche diffuse anche attraverso Internet. Essi, oltre a promuovere campagne d’odio – contro aggregazioni religiose e spirituali etichettate come “sette” in senso criminologico –, cercano anche di ottenere dai governi l’istituzione di nuove leggi che puniscano la manipolazione mentale (Introvigne 2002).
Come accennato in precedenza, l’indubbia inconsistenza scientifica e la totale irrealtà delle fake news diffuse dai gruppi antisette, non hanno impedito che l’opinione pubblica e, talora, anche le istituzioni le prendessero per “vere”. In Italia, per esempio, questo tipo di falsificazione ha richiamato l’attenzione di alcuni settori istituzionali, sfociata, da una parte nella creazione di una squadra di polizia denominata SAS (Squadra Anti-Sette) (Ministero dell’Interno 2006) e dall’altro nel tentativo reiterato di reintrodurre nel Codice penale il reato di plagio, già abolito dalla Corte Costituzionale, con il nuovo nome di “manipolazione mentale”.
Autopsia della fake news. “Perché la SGI è una setta (secondo i criteri di Steven Hassan)”
L’organizzazione religiosa presa di mira, in questo caso, è l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, che ha siglato l’Intesa con la Repubblica Italiana il 14 giugno 2016 e che in Italia supera gli 85.000 membri (Introvigne e Zoccatelli 2018). Per conoscere la storia, la dottrina e la pratica religiosa della Soka Gakkai ci si può riferire a un’ampia letteratura scientifica sul movimento (per esempio: Dobbelaere 1998; Machacek e Wilson 2001; Seager 2006; Metraux 2010).
A questa organizzazione è attribuito l’infamante stigma di “setta” nell’articolo di Kathy Aitken “Perché la SGI è una setta (secondo i criteri di Steven Hassan)” (Aitken 2018a), pubblicato il 26 giungo 2018 sul sito dell’AIVS (Associazione Italiana Vittime delle Sette), nella sezione “Documenti” riservata alla Soka Gakkai, e poi rilanciato sui social network gestiti dalla stessa associazione e da altre similari e “simpatizzanti”.
Prima ancora di esaminare il contenuto di questa fake news è importante segnalare il primo motivo per cui un lettore attento dovrebbe usare cautela nel prendere per vero ciò che legge: la totale assenza di riferimenti e l’impossibilità di controllare la fonte, a cominciare, in questo caso specifico, dalla versione originale in inglese, sono elementi essenziali di ogni fake news che si rispetti.
1 — I “criteri di Steven Hassan”
Nella fake news la stigmatizzazione della Soka Gakkai come “setta” si fonda sui “criteri di Steven Hassan”. Anche in questo caso non sono forniti riferimenti di alcun tipo su questo autore o sul testo nel quale sarebbero illustrati i suoi criteri, come in precedenza. Tuttavia, l’autore citato e il suo libro (Hassan 1988) sono conosciuti nel vasto e variegato mondo di persone e organizzazioni che si occupano di “sette”, a diverso titolo. Steven Hassan ha cominciato a occuparsi di “sette” dopo essere stato “deprogrammato”. A diciannove anni era entrato nella Chiesa dell’Unificazione fondata dal reverendo Sun Myung Moon (1920-2012) e ne era uscito in seguito alla “deprogrammazione” commissionata dai suoi genitori, una pratica molto diffusa negli anni 1970-1980 negli Stati Uniti, dichiarata successivamente illegale e oggi quasi del tutto abbandonata negli USA e altrove (Shupe et al. 2004).
Il caso di Hassan non è isolato: sono molti gli ex-membri “deprogrammati” che hanno aderito al movimento antisette; persone che “sono più inclini degli altri a vedere la loro passata affiliazione come l’effetto di una ‘manipolazione mentale’” (Wright 2014, 720). Dopo l’abbandono del gruppo, Hassan si è dedicato a diffondere informazioni sui pericoli dei “culti distruttivi” e ha elaborato un metodo per aiutare le persone a uscire dalle “sette” in un modo meno violento rispetto alla deprogrammazione da lui subita. Egli definisce questo metodo “exit counseling”, un’attività che è in seguito diventata la sua professione.
È evidente che Aitken non ha scelto “a caso” la teoria di Hassan sulle quattro forme di controllo mentale – espresse con l’acronimo BITE: “Behavior, Information, Thought, Emotion” – (Hassan 1988, 60-67). Si tratta di un autore senza dubbio “di parte”, che ha pubblicato per la prima volta il suo libro in seguito a un’esperienza per lui traumatica all’interno di una “setta” e a una disaffiliazione indotta con coercizione, attraverso la “deprogrammazione”, e che non risulta collegato ad alcuna istituzione accademica.
2 — “La SGI è un culto distruttivo”
L’articolo inizia con una sintesi della definizione che Hassan dà di “culto distruttivo”, e cioè un’organizzazione con un regime autoritario piramidale diretto da una persona o da un gruppo di persone che hanno il controllo dittatoriale. I nuovi membri vengono reclutati per mezzo di un inganno, cioè alle persone non viene detto in anticipo quali sono i veri obiettivi del gruppo o cosa ci si aspetta da loro se diventano membri. Inoltre, vengono impiegate tecniche di controllo mentale, in primo luogo per attirare persone ignare nella setta e quindi per mantenerle (Aitken 2018a, 1).
Dopo questa premessa, l’autrice afferma che gli ingredienti principali di una setta sono la leadership autoritaria, l’inganno e il controllo distruttivo della mente. SGI li ha tutti (Aitken 2018a, 1).
La definizione di “culto distruttivo”, all’interno del variegato mondo dei movimenti antisette, è utilizzata per colpire i movimenti religiosi più diversi, senza fare alcuna distinzione, come se si trattasse di organizzazioni create con una sorta di “stampo”, che funzionano tutte nello stesso modo e sono ugualmente “pericolose”. Si tratta di un’informazione del tutto falsa, non solo per l’evidente diversità di movimenti e gruppi considerati tutti allo stesso modo “culti distruttivi”, ma anche per il fatto che queste organizzazioni non rimangono sempre identiche a sé stesse, ma mutano nel tempo, talvolta anche in modo radicale.
Nelle fake news prodotte dal movimento antisette, come quella presa in esame, tutte le “sette” attirerebbero seguaci con l’inganno. Su questo aspetto esiste una vasta letteratura scientifica, basata su ricerche e studi effettuati su diversi movimenti religiosi, che smentisce un’accusa così generalizzata. Certamente l’inganno è sempre possibile, ma le motivazioni per cui le persone si affiliano sono le più diverse; nella maggior parte dei casi la scelta è libera e consapevole, fondata su dati reali e una conoscenza sufficiente del movimento cui si aderisce (Lofland e Stark 1965; Rambo 1993; Buxant 2007; Saliba 2004; Coates 2011).
Nel caso della Soka Gakkai l’accusa di ingannare le persone alle quali “non viene detto in anticipo quali sono i veri obiettivi del gruppo o cosa ci si aspetta da loro se diventano membri” (Aitken 2018a, 1) su quali basi si fonda? Le persone che si avvicinano alla Soka Gakkai e che desiderano affiliarsi non devono solo “praticare” (cioè recitare il daimoku) ma impegnarsi per la “rivoluzione umana” e la promozione della pace e della felicità nel mondo. È dunque richiesto loro lo studio del buddhismo di Nichiren Daishonin (1222-1282), con relativi esami, la partecipazione a riunioni di discussione, e l’impegno nelle attività umanitarie e culturali promosse dal movimento (Introvigne e Zoccatelli 2018). La realtà dei fatti dice esattamente l’opposto della fake news: le persone che iniziano il loro cammino per diventare membri sanno esattamente a cosa vanno incontro e hanno a disposizione tutto il tempo necessario per studiare e riflettere sulla loro scelta. Chiunque sia o sia stato membro del movimento può confermare questo fatto, anche se il modo in cui la proposta di adesione è formulata, e il neofita è seguito nel suo cammino spirituale, possono differire. In un movimento che ha un numero così elevato di praticanti, sparsi in diversi continenti, potrebbe essersi verificato qualche caso di “inganno” più o meno intenzionale, ma questo non contraddice la grave falsità dell’accusa rivolta all’organizzazione nel suo insieme.
Per quanto riguarda, poi, la questione della leadership, la Soka Gakkai ha una lunga storia di trasformazioni nella dirigenza, nel modo di rapportarsi al contesto sociale e politico giapponese e poi occidentale, nei suoi rapporti con i monaci della Nichiren Shoshu, e così via. Dunque, l’accusa di esercitare una “leadership autoritaria” sui membri, su quali fatti e situazioni reali si fonda? Chi è il leader autoritario e chi lo ha definito tale? Si sta parlando di Daisaku Ikeda (1928-), oppure di qualche dirigente nazionale o locale? E cosa si intende per “autoritario”? Il termine richiama subito l’idea di qualcuno che impartisce ordini e impedisce al subalterno di esprimersi e agire liberamente, ma non è dato sapere nulla di più preciso, tanto che anche questa affermazione rimane, come le altre, sospesa nel nulla, priva di qualsivoglia fondamento o circostanza probante.
La terza accusa – quella di esercitare un “controllo distruttivo della mente” – è talmente estrema da divenire caricaturale. È un tipo di affermazione che, nel lettore facilmente suggestionabile, suscita una reazione emotiva voluta da chi fabbrica questo tipo di fake news: la paura di essere trasformati da forze “oscure” in ciò che non si vuole essere. L’immagine suggestiva che si forma nella mente del lettore è quella dei dirigenti della Soka Gakkai impegnati ad annientare, neurone dopo neurone, la “mente” dei “poveri” malcapitati che entrano nel movimento. Si è già mostrato come le teorie sull’esistenza della “manipolazione mentale”, in tutte le loro formulazioni, siano ormai del tutto screditate in ambito scientifico, ed è quindi evidente come questa sia un’accusa senza alcun fondamento.
Se ciò non bastasse, per smentire questa fake news, basterebbe recarsi a qualche incontro del movimento, parlare con i membri o intervistarne qualcuno, come personalmente mi è capitato di fare. I membri della Soka Gakkai che ho incontrato – sia quelli affiliati da molto tempo, sia quelli ancora all’inizio della loro formazione – sono persone del tutto normali, adattate alla società, che hanno i loro dubbi e le loro certezze, come tutti i credenti.
3 — L’acronimo BITE
Per comprendere l’applicazione che nell’articolo si fa dell’acronimo BITE alla Soka Gakkai è importante prima di tutto chiarire di cosa si sta parlando. Si è già chiarito il contesto in cui la teoria di Hassan è stata elaborata. Per ciò che riguarda i contenuti, l’acronimo BITE indica i quattro tipi di controllo mentale che si verificherebbero nelle “sette”: controllo del comportamento, dell’informazione, del pensiero e delle emozioni (Hassan 1988, 60-67). L’autore dichiara di essersi ispirato alla teoria della dissonanza cognitiva di Leon Festinger (1919-1989) per elaborare il suo modello, in cui, alle tre componenti elaborate da Festinger (Festinger et al. 1956), egli aggiunge la quarta, e cioè il controllo delle informazioni (Hassan 1988, 59).
Non è questa la sede per distinguere la complessa teoria della “dissonanza cognitiva”, elaborata da Festinger, che riguarda temi generali sulla conformità alle norme e il funzionamento dei gruppi sociali, dall’applicazione che ne fa Hassan, al fine di avvalorare la sua teoria riferendosi a un autore importante. Dovendo soprassedere su questo aspetto, perché il tema esula dagli obiettivi di questo contributo, è però utile sottolineare come le fake news diffuse negli ambienti antisette riescano spesso a fuorviare il lettore poco informato citando autori le cui teorie sembrano rifarsi ad altre precedenti, elaborate da ricercatori accreditati in ambito accademico, ma in realtà spesso ne travisano i fondamenti teorici, il significato e le conclusioni (Introvigne 2002, 81-110).
4 — Controllo del comportamento
Nella teoria di Hassan (Hassan 1988, 60-61) questo tipo di controllo si esercita più facilmente sugli adepti isolandoli completamente dalla società. Nell’articolo di Aitken, l’autrice afferma che, nonostante la Soka Gakkai non richieda ai suoi membri di vivere in comunità separate dalla società, questa strategia è messa in atto attraverso un controllo severo sulle amicizie e conoscenze con persone che non fanno parte del movimento, nei riguardi delle quali la Soka Gakkai chiederebbe di essere “iper-vigilanti”. Tale indicazione sarebbe presente sia negli “scritti di Nichiren” che in “quelli della SGI”, ma l’autrice non specifica da quali testi ha tratto le citazioni letterali di Nichiren Daishonin e Daisaku Ikeda. Volendo esaminare, comunque, le due citazioni che fornisce, supponendo che gli autori siano effettivamente i due indicati, ci si trova di fronte a generiche e condivisibili esortazioni a scegliere con cura le proprie amicizie e a coltivare quelle che aiutino a progredire nel cammino intrapreso:
Nichiren ha scritto: “Gli amici diabolici sono quelli che, parlando dolcemente, ingannando, lusingando e facendo abile uso delle parole, conquistano il cuore degli ignoranti e distruggono la loro bontà della mente”. Più recentemente, Daisaku Ikeda ha scritto: “Avere buoni amici è come essere equipaggiato con un potente motore ausiliario. Quando incontriamo una collina ripida o un ostacolo, possiamo incoraggiarci a vicenda e trovare la forza per continuare ad avanzare” (Aitken 2018a, 1).
Queste esortazioni, secondo l’autrice, nascondono un “messaggio in codice”, che sarebbe questo:
Stai lontano da quelle persone che potrebbero farti perdere la fiducia nel Gohonzon e quindi farti pensare di lasciare il SGI (Aitken 2018a, 1).
Il fantomatico “messaggio in codice”, che sarebbe presente nelle due citazioni, può essere decifrato solo dall’autrice che, con ogni evidenza, è dotata di una notevole dose di fantasia.
5 — Controllo delle informazioni
Il secondo tipo di accusa falsa rivolta alla Soka Gakkai è che praticherebbe il “controllo delle informazioni”. Hassan afferma che nei “culti distruttivi” le informazioni sono deliberatamente nascoste o distorte, le comunicazioni sono menzognere e si impedisce alle persone di entrare in contatto con informazioni esterne alla “setta” (Hassan 1988, 65-67). In questo caso, la falsa accusa è quella di fare “propaganda” millantando meriti e successi inesistenti:
la SGI si assicura che i suoi membri siano bombardati da propaganda che promuove la sua agenda dubbia – da qui le infinite newsletter che vengono fuoriuscite [sic] dal quartier generale della Soka Gakkai a Shinanomachi a Tokyo. Le informazioni vengono fornite come se la SGI fosse di qualche importanza sulla scena mondiale mentre, in realtà̀, la maggior parte delle persone non ne ha mai nemmeno sentito parlare. La maggior parte dei discorsi di Ikeda seguono lo stesso schema e dicono più̀ o meno la stessa cosa, tutto il tempo. È così che funziona l’indottrinamento (Aitken 2018a, 1).
Per avvalorare questa falsa informazione l’autrice cita qualche frase di un discorso di Daisaku Ikeda. Si tratta del “discorso del SGI presidente [sic] Ikeda in una conferenza dei leader esecutivi a livello nazionale tenutasi a Tokyo, il 25 novembre 2003” (Aitken 2018a, 1), nel quale il leader si congratula per i successi ottenuti nel corso dell’anno 2003, lodando l’intero movimento e definendo quell’anno “l’Anno della Gloria e la Grande Vittoria”. Queste espressioni di Ikeda sono utilizzate come “esempio dell’uso manipolativo del linguaggio impiegato da Ikeda e SGI”. In sostanza, il discorso di un leader religioso che incoraggia i fedeli, usando parole perfettamente coerenti in un tipo di comunicazione esortativa come quella citata, che potrebbe essere pronunciato da qualsiasi altro dirigente di una religione, è spacciato per “propaganda”, nel senso più dispregiativo del termine.
L’autrice falsifica così il senso del discorso, il suo contesto e perfino le intenzioni del tutto comprensibili di Ikeda in quel particolare frangente. In un certo senso, è come citare un discorso di Papa Francesco nel corso di un’udienza del mercoledì, per dire che egli fa un’opera di propaganda menzognera perché in alcune frasi, ricche di metafore e pronunciate con entusiasmo, elogia i membri di qualche movimento per i successi ottenuti nell’evangelizzazione. Questo modus operandi, in effetti, è un altro esempio tipico delle fake news diffuse dal movimento antisette contro i presunti “culti distruttivi”: il medesimo comportamento è definito “distruttivo” o “manipolativo” se a compierlo è il leader di una “setta”, mentre non è neppure notato o commentato se chi lo mette in atto è il leader di una religione maggioritaria o, semplicemente, ancora non inserita nella lista dei “culti distruttivi”.
L’altra “accusa”, incredibile quanto falsa, presentata come “prova” del fatto che la Soka Gakkai fa propaganda diffondendo menzogne, sarebbe quella di “inviare continuamente newsletter dal suo quartier generale”, un’affermazione senza significato, mentre quella successiva, in cui l’autrice afferma che i successi e i riconoscimenti ricevuti dalla Soka Gakkai non esistono, anzi “in realtà,̀ la maggior parte delle persone non ne ha mai nemmeno sentito parlare” (Aitken 2018a, 1), è totalmente fuori dalla realtà. La falsità di questa notizia si confuta molto semplicemente, attingendo ai dati raccolti dai sociologi, che hanno realizzato molti studi sulla Soka Gakkai. Uno degli studi più recenti è quello di PierLuigi Zoccatelli, il quale ha raccolto i dati sulla crescita dei membri della Soka Gakkai in Italia – passati da 31.876 nel 2003 a 75.440 nel 2015 – e in Europa, dove da 38.070 nel 1997 arrivano a circa 120.000 nel 2014. Un altro dato, riferito ancora all’Italia, che smentisce ulteriormente l’affermazione che “la maggior parte delle persone non ne ha mai nemmeno sentito parlare”, è che il nostro è il Paese che presenta la crescita più consistente di membri rispetto a tutti gli altri Paesi del continente. Se poi si guarda ai dati del Giappone, la notizia si rivela ancora più macroscopicamente falsa, poiché in quel Paese la Soka Gakkai conta circa 10 milioni di fedeli (Zoccatelli 2015; Machacek e Wilson 2001; Seager 2006; Metraux 2010).
Nell’articolo di Aitken anche Daisaku Ikeda è accusato di mentire quando afferma:
Non abbiamo mai ricevuto una tale alluvione di complimenti e congratulazioni dai nostri amici, sostenitori e figure di spicco in tutto il mondo (Aitken 2018a, 2).
L’autrice prima si chiede chi siano gli estimatori del movimento a cui allude Ikeda, e poi conclude: “Non lo sapremo mai, probabilmente perché́ non esistono” (Aitken 2018a, 2). Il grado di falsità di questa affermazione è evidente: sono, infatti, innumerevoli le attività che hanno reso la Soka Gakkai molto conosciuta in tutto il mondo, dove i suoi membri sono impegnati in ogni ambito della società. La Soka Gakkai giapponese, per esempio, ha fondato università, musei, scuole, e prestigiosi centri culturali, e molti suoi membri si sono distinti nei campi della scienza, dell’economia, dello sport e dell’educazione.
Per quanto riguarda l’Italia, nel bilancio sociale 2016, pubblicato dall’IBISG, sono elencate tutte le attività e le iniziative che mettono la Soka Gakkai in primo piano, nella società, per la difesa e la promozione dei diritti umani e la pace nel mondo (IBISG 2016). Per fare un solo esempio, tratto dal documento, si può citare la promozione del Comitato Senzatomica, che dal 2011 è attivo per l’abolizione delle armi nucleari. Questa iniziativa è stata portata all’attenzione delle istituzioni italiane e mondiali anche grazie a una mostra itinerante che, nel 2017, è stata presentata a Bruxelles, assieme ai partner di Rete Italiana per il Disarmo, per il workshop organizzato da ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) e PAX. Senzatomica ha partecipato attivamente, come rappresentante della società civile italiana ai negoziati presso la sede delle Nazioni Unite. Solo questa mostra ha avuto 324.210 visitatori. Inoltre,
la Soka Gakkai Internazionale è una ONG (Organizzazione Non Governativa) registrata presso numerosi dipartimenti dell’ONU: il Consiglio economico e sociale (ECOSOC), l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) e il Dipartimento di Pubblica Informazione (IBISG 2016, 20).
Sulla base di queste informazioni, verificabili da chiunque, c’è da chiedersi chi, in realtà, stia facendo “propaganda” e “falsificando le informazioni”.
6 — Controllo del pensiero
Questa forma di controllo, secondo Hassan, si manifesterebbe attraverso l’uso di un linguaggio specifico e la coartazione di qualsiasi manifestazione di pensiero critico o l’espressione di dubbi sulla “setta” o il suo leader, spingendo i membri a sentirsi costantemente in opposizione al mondo esterno, in una visione dicotomica secondo la quale tutto il bene sarebbe nel gruppo e tutto il male al di fuori di esso (Hassan 1988, 61-63). Nell’articolo di Aitken si afferma che la Soka Gakkai utilizzerebbe proprio queste strategie:
Il potere che la macchina di propaganda della SGI esercita sui membri di astenersi dal dire o dal pensare a qualcosa di negativo sull’organizzazione è così forte che persino l’idea di fare una innocente ricerca su internet di opinioni “alternative” sul [sic] SGI è sufficiente a riempirli di paura (Aitken 2018a, 2).
Quest’affermazione perentoria è “suffragata” da tre citazioni del tutto inaccurate ed estrapolate dal loro contesto – come di consueto –, riferite a tre autori appartenenti a tre epoche diverse della storia del buddhismo: Nichiren Daishonin, Daisaku Ikeda e Shakyamuni (563-483 a.C.?). Nella prima citazione ci sarebbe la conferma che “Nichiren ha usato molto linguaggio combattivo e SGI ha seguito l’esempio”. Si tratta di una citazione di ventidue parole:
Ha detto: “Il buddismo si occupa principalmente della vittoria o della sconfitta, mentre l’autorità secolare si basa sul principio della ricompensa e della punizione” (da “L’eroe del mondo”, WND I: 102, pp. 835-841).
La citazione si trova all’interno di un discorso espresso in sette pagine di cui, tuttavia, il lettore non sa nulla: le ventidue parole citate, potrebbero, se lette nel loro contesto, avere un significato completamente diverso da quello che è loro attribuito.
La seconda citazione è di Ikeda, questa volta non corredata da alcun riferimento:
Il buddismo si preoccupa di vincere. Quando combattiamo un nemico potente, trionferremo [sic] o saremo sconfitti – non c’è una via di mezzo. Combattere contro le funzioni negative della vita è parte integrante del buddismo. È attraverso la vittoria in questa lotta che diventiamo Budda (Aitken 2018a, 2).
Secondo l’autrice quest’affermazione di Ikeda sarebbe molto diversa da quanto avrebbe detto Shakyamuni:
Interessante quanto questo sia diverso dal buddismo del fondatore della filosofia, Shakyamuni: “Vincere genera ostilità̀. Perdendo, ci si sdraia nel dolore. Il calmo si sdraia con facilità, dopo ave [sic] messo la vittoria e la perdita da parte” (Dhammapada, 15) (Aitken 2018a, 2).
In questo caso, la distorsione e falsificazione delle informazioni, oltre che nella scelta opinabile di paragonare tre testi di persone vissute in epoche e contesti totalmente diversi, riguardano soprattutto il contenuto, poiché sono messi sullo stesso piano due concetti diversi per esprimere i quali i due autori, Shakyamuni e Daisaku Ikeda, usano la stessa parola: “vittoria”. Tuttavia, quando parla di “vittoria”, Ikeda intende qualcosa di totalmente diverso rispetto a quello che l’autrice vuole far intendere: non solo Ikeda non spinge i membri della Soka Gakkai a opporsi al mondo esterno, ma esorta a fare esattamente l’opposto, cioè affrontare la lotta più difficile, che è quella contro sé stessi. È questa la battaglia che i membri della Soka Gakkai devono vincere.
7 — Controllo emotivo
Secondo Hassan, il controllo emotivo consiste nella manipolazione delle emozioni dei seguaci attraverso l’induzione di fobie – come la paura di perdere la salvezza eterna una volta lasciato il gruppo – e il senso di colpa, nonché in una forma d’indottrinamento che arriva a ridefinire le emozioni positive e negative e a influire sulle relazioni interpersonali allo scopo di separare l’adepto dalle persone alle quali è legato (Hassan 1988, 63-65). Anche questo tipo di controllo, come gli altri, sarebbe messo in atto nella Soka Gakkai: “La letteratura di SGI è piena di ammonimenti ai credenti per non abbandonare la loro fede” (Aitken 2018a, 2). È evidente che questa accusa non ha nulla a che fare con quanto dice Hassan, a proposito del controllo delle emozioni, e si tratta, comunque, di un’“accusa” che potrebbe essere diretta contro qualsiasi organizzazione religiosa.
Delle due citazioni riportate, come negli altri casi “a sproposito”, senza riferimenti bibliografici e fuori da ogni contesto, non è possibile nemmeno fare una confutazione. È invece opportuno segnalare un ulteriore elemento che fa di questa fake news un vero “capolavoro” di falsità: l’offesa personale rivolta a Daisaku Ikeda, di cui è citata una poesia, definita dall’autrice “una delle sue molte poesie esecrabili”. Daisaku Ikeda ha ricevuto centinaia di riconoscimenti e premi, tra i quali: il Premio per la Pace delle Nazioni Unite, il premio dell’Alto commissariato per i rifugiati, la medaglia di Grande ufficiale delle Arti e Lettere del Ministero della cultura francese, della croce onoraria delle scienze e delle Arti del ministero dell’educazione austriaco, l’Anello dottorale dall’Università di Bologna Alma Mater, il riconoscimento di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana dal presidente Carlo Azeglio Ciampi (1920-2016) – attribuito a personalità di rilievo del mondo letterario, artistico, sociale e umanitario –, e altre (Ciaramella 2007, 61-63). L’affermazione che le sue poesie sarebbero “esecrabili” trasforma le falsità presenti nell’articolo in ingiurie, tanto che verrebbe da attribuirgli proprio la qualifica di “esecrabile”.
Della stessa portata sono anche altre riflessioni della stessa autrice, pubblicate nella pagina facebook dell’AIVS, dove la Aitken afferma che i dirigenti della Soka Gakkai sono dei “ciarlatani” e degli “imbecilli”, e che il mantra recitato due volte al giorno non è altro che “una serie di sillabe su un pezzo di carta”. Inoltre, invita chi legge a rivolgere un pensiero a quelle povere persone sfortunate che hanno ricevuto la cosiddetta “guida” da parte di persone che ricoprono posizioni di responsabilità all’interno della Soka. Questi ciarlatani, che pensano di essere in qualche modo qualificati per dare consigli alle persone, molti dei quali sono in un profondo stato di crisi, devono essere fermati. Non sono professionisti medici; non sono consiglieri; sono degli imbecilli che borbottano una serie di sillabe su un pezzo di carta. Come osano! (Kathy Aitken, ex SGI-UK e ora Socia AIVS) (Aitken 2018b).
Dopo avere descritto la sua delusione e la sua uscita dal movimento, la Aitken, come accade in un certo numero di resoconti di ex-membri, usa toni ed espressioni gravemente offensive verso milioni di fedeli che recitano quotidianamente Daimoku, il rito fondamentale dinanzi all’oggetto di culto (Gohonzon), che ognuno custodisce nella propria casa. Questo atteggiamento verbalmente aggressivo, tuttavia, non appartiene alla maggioranza degli ex- membri del movimento, i quali cessano di recitare e di frequentare le riunioni senza diventare “nemici” o diffondere notizie false sul movimento che hanno lasciato. Ho potuto verificare questa differenza di atteggiamento intervistando alcuni ex-membri della Soka Gakkai, che – nonostante la fuoriuscita – avevano ancora buoni rapporti con il gruppo oppure semplicemente avevano, nel frattempo, dato inizio ad altre esperienze, lasciandosi serenamente alle spalle la loro fede buddhista, senza rimpianti e senza rancori.
Questa fake news ha una degna conclusione, con la quale l’autrice mette il sigillo finale alla sua articolata falsificazione, finalizzata a disegnare un’immagine criminogena della Soka Gakkai, del tutto immaginaria e, come si è visto, priva di qualsiasi fondamento. L’articolo si conclude con una citazione tratta dal libro Seductive Poison di Deborah Layton (Layton 1998), una sopravvissuta al massacro del Tempio del Popolo verificatosi nella Guyana nel 1978. Nel brano citato Layton descrive alcuni elementi che, sulla base della sua esperienza, aiuterebbero a capire se il gruppo a cui una persona si è affiliata è una “setta”. Tali elementi, richiamano, almeno in parte, le quattro forme di controllo mentale elaborate da Hassan. L’esperienza della Layton, secondo l’autrice dell’articolo, riassume perfettamente il tipo di dilemma che può incontrare qualcuno sfortunato abbastanza da essere invischiato nel [sic] SGI (Aitken 2018a, 2).
Questo riferimento alla tragedia del Tempio del Popolo è un vero e proprio “cavallo di battaglia” utilizzato molto spesso nelle fake news create e diffuse dal movimento antisette: ogni volta, come in questo caso, che un determinato gruppo religioso è incluso nella lista dei “culti distruttivi”, dopo avere enumerato i “crimini” o “abusi” che si verificherebbero al suo interno, è chiamata in causa, come metro di paragone, la tragedia del Tempio del Popolo.
Per comprendere l’uso, del tutto fraudolento, dell’esperienza di un ex-membro del Tempio del Popolo come termine di paragone con quello che potrebbe avvenire a un membro della Soka Gakkai, è necessario dare alcuni brevi cenni di storia del Tempio del Popolo, mentre per una disamina più ampia, si rimanda al contributo di Rebecca Moore (Moore 2009). Il Tempio del Popolo era una comunità che dagli Stati Uniti si era trasferita in Guyana, dove aveva fondato la città di Jonestown, il cui credo combinava diverse idee di tipo sociale e religioso, tra le quali il pentecostalismo, il socialismo, il comunismo e l’utopismo, guidata da Jim Jones (1931-1978), un pastore dei Discepoli di Cristo. Il 18 novembre 1978, al termine della visita alla comunità da parte di un membro del Congresso americano, Leo Ryan (1925-1978), quest’ultimo, tre giornalisti e un adepto vennero assassinati. Subito dopo, oltre 900 residenti e seguaci del leader Jim Jones, morirono per avere bevuto, volontariamente o forzatamente, del cianuro diluito in una bevanda.
Il caso di Jonestown è utilizzato spesso nelle fake news costruite dal movimento antisette come esempio dell’esistenza del lavaggio del cervello e di leader carismatici che riducono mentalmente in schiavitù i loro seguaci. In realtà anche in questo caso l’esame delle cause della tragedia si è rivelato molto più complesso, come afferma Rebecca Moore, forse la maggiore specialista accademica del Tempio del Popolo. Ella riferisce che le indagini psicologiche e sociologiche effettuate prima e dopo la tragedia, per verificare l’attendibilità di queste ipotesi, le hanno entrambe escluse perché prive di fondamento (Moore 2012).
Questi pochi cenni sulla tragedia di Jonestown sono sufficienti a mostrare l’evidente falsità e faziosità della similitudine che Aitken fa tra l’esperienza di una persona che aveva fatto parte di un movimento con le caratteristiche totalitarie del Tempio del Popolo, guidato da un leader squilibrato, violento, mentalmente disturbato e dipendente da stupefacenti, e quella di milioni di membri – o ex- membri – di un’organizzazione come la Soka Gakkai, impegnata da sempre nella difesa dei diritti umani, della pace, del dialogo e della fratellanza tra i popoli, guidata da un leader come Daisaku Ikeda, di cui non è necessario ricordare ancora le qualità, i meriti e le attività culturali e sociali, di cui si è accennato in precedenza.
Conclusione: Un altro modo di vedere
Desidero concludere questo contributo con un brano tratto da un saggio di Daisaku Ikeda, particolarmente adatto a terminare, con una riflessione propositiva, questa disamina delle affermazioni false, e talora deliranti, delle numerose citazioni falsificate, illogiche e tendenziose utilizzate per costruire la fake news “Perché la Soka Gakkai è una setta (secondo i criteri di Steven Hassan)”.
In uno dei suoi discorsi Daisaku Ikeda illustra, con semplicità e profondità, quali sono le radici del pregiudizio e come quest’ultimo sia la causa di innumerevoli conflitti, che talora sfociano in guerre sanguinose:
La crescita e lo sviluppo dei media ha in realtà accresciuto il pericolo del proliferare di stereotipi e di immagini manipolate. Siamo tutti esposti a questo rischio. È vitale che tutti noi ci poniamo alcune domande importanti: accetto senza alcuna critica le immagini che mi sono mostrate?; credo ciecamente ai fatti rappresentati senza prima esaminarli?; mi sto involontariamente lasciando condizionare dai pregiudizi?; riesco veramente a cogliere la realtà delle cose?; sono stato sul posto?; ho incontrato le persone coinvolte?; ho ascoltato ciò che hanno da dire?; mi sto facendo deviare da voci incontrollate e tendenziose? Credo che questo tipo di dialogo interiore sia di fondamentale importanza, perché le persone coscienti, pur mantenendo pregiudizi inconsci, possono interagire con gente di altre culture più facilmente di coloro che sono convinti di non avere pregiudizi. Quando smettiamo di guardare noi stessi, quando non ci poniamo più domande, diventiamo arroganti e dogmatici. Il nostro interagire diventa una via a senso unico, non riusciamo ad ascoltare gli altri e il vero dialogo è perciò impossibile. Il tipo di dialogo che può portare alla pace deve iniziare con un aperto e onesto dialogo con noi stessi (Ikeda 2009, 7).
Riferimenti
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