Questo testo, presentato alla Conferenza mondiale sull’ambiente di Rio de Janeiro 2012 dal titolo “Il futuro che vogliamo”, è rivolto a tutti gli abitanti della Terra che, come vicini di casa, condividono questo pianeta e devono imparare a sviluppare una visione chiara di quale dovrebbe essere il rapporto ideale tra l’umanità e il globo terracqueo.
Questa indispensabile visione diventerà realtà solo se sarà percepita come un impegno individuale da un numero sempre maggiore di persone, riflessa nella vita quotidiana e riconosciuta come una linea guida per impostare nuovi stili di vita. Ogni persona deve sentirsi autorizzata ad agire da protagonista per proteggere la dignità inalienabile della vita e il valore insostituibile di ciò che la circonda, generando onde di cambiamento nelle comunità e nella società intera. Senza questa presa di coscienza non si avrà mai una vera trasformazione.
PER UNA SOCIETA’ GLOBALE SOSTENIBILE
ogni persona è protagonista del cambiamento
di Daisaku Ikeda – 5 giugno 2012
A nome dei membri della Soka Gakkai Internazionale (SGI) presenti in centonovantadue aree e nazioni del mondo, vorrei offrire alcuni pensieri e proposte in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (Rio+20) che si terrà a Rio de Janeiro, in Brasile, dal 20 al 22 giugno.
Ogni anno si perdono cinquantatremila metri quadrati di foresta. In molti paesi le falde freatiche continuano ad abbassarsi, provocando croniche carenze d’acqua, e si stima che quasi il venticinque per cento delle terre emerse del pianeta siano colpite da processi di desertificazione.1.. Queste sono alcune delle questioni urgenti che la Conferenza Rio+20 deve affrontare.
Ma come suggerisce il titolo, Il futuro che vogliamo, la Conferenza rappresenta anche l’impegno a sviluppare una visione chiara di un rapporto ideale tra l’umanità e la Terra. È cruciale riuscire a stabilire una visione radicata nella consapevolezza che siamo dei vicini di casa che condividono questo pianeta; ed è ancora più importante che sempre più persone si sentano ispirate a lavorare per la sua realizzazione, sia individualmente che unite e solidali.
Persino la visione più esaltante diventerà una realtà solo se sostenuta dalla società civile e percepita come una questione di impegno personale da un numero sempre maggiore di persone; deve essere condivisa, riflessa nella vita quotidiana e saldamente riconosciuta come linea guida per delineare stili di vita all’interno della società.
Perché il dibattito sui temi chiave della Conferenza – l’economia verde (green economy) nel contesto di uno sviluppo sostenibile e dell’eliminazione della povertà; il quadro istituzionale per uno sviluppo sostenibile – sia significativo e produttivo, sarà essenziale concentrarsi sulle persone e la loro vita quotidiana. Spero quindi che le deliberazioni della Conferenza si fondino sulla determinazione di rendere le persone capaci di diventare agenti di cambiamento, assicurandosi un loro impegno concreto e duraturo. Il futuro che vogliamo può essere realizzato solo quando c’è la profonda comprensione personale del fatto che siamo noi che dobbiamo porlo in essere.
In questa proposta vorrei concentrarmi sul tipo di empowerment che fa scaturire quel potenziale davvero illimitato che tutti noi possediamo. È importante che ogni individuo sia incoraggiato a nutrire un senso di leadership capace di generare onde di cambiamento in seno alle nostre comunità e società. Solo allora potremo realizzare l’obiettivo di una società globale sostenibile in cui sia riconosciuta suprema importanza alla dignità innata della vita.
A misura umana
Helen Clark, amministratrice del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNPD, United Nations Development Programme), ha rilasciato questa efficace dichiarazione sul significato della Conferenza: «La sostenibilità non è esclusivamente o anche solo principalmente una questione ambientale. […] Riguarda fondamentalmente il modo in cui scegliamo di vivere la nostra vita, con la consapevolezza che tutto quello che facciamo ha conseguenze per i sette miliardi di noi viventi di oggi così come per gli altri milioni che seguiranno nei secoli a venire».2.
Oggi vi sono diffusi appelli perché si cambi modello di riferimento, passando dalla ricerca della ricchezza materiale alla sostenibilità. Per realizzare ciò dovremo senz’altro rivedere e modificare le attuali politiche economiche e ambientali, ma non sarà sufficiente: è necessario interrogarci sulla vera natura della civiltà umana, dall’organizzazione delle nostre società al modo in cui conduciamo la nostra vita quotidiana.
Dico questo non per negare il fatto, incontrovertibile, che molte organizzazioni sociali continueranno a dare priorità alla crescita economica. Ma credo sia necessario che tutte le società riesaminino gli obiettivi e le logiche che guidano la crescita e divengano chiaramente consapevoli che le priorità sono altre. Spero che la Conferenza Rio+20 stimoli una profonda e seria riflessione su tali questioni.
Il devastante terremoto che ha colpito il Giappone nel marzo dell’anno scorso ha messo a nudo queste problematiche. Ha dimostrato, non solo ai giapponesi ma a tutto il mondo, l’incapacità di una società ai massimi livelli di sviluppo economico e sociale di contenere i danni provocati da questa catastrofe naturale. Nel disastro nucleare di Fukushima le conseguenze non previste del progresso scientifico e tecnologico sono state sotto gli occhi di tutti: nel gran numero di persone costrette ad abbandonare le loro case, nella portata, grave e non ancora attenuata, della contaminazione radioattiva, negli effetti a lungo termine, a oggi sconosciuti, sulla salute della popolazione.
Perdita di vite umane, offesa alla dignità, distruzione della natura e dell’ecologia della comunità: questi sono gli atroci risultati prodotti non solo dai disastri naturali, ma dai conflitti armati e dal degrado ambientale. Nel caso del mutamento climatico, ad esempio, nessun luogo può essere considerato del tutto privo di rischio a lungo termine; l’impatto verrà avvertito da tutti gli attuali abitanti della Terra e anche dalle generazioni future.
In questo senso, spostare l’orientamento della civiltà umana nella direzione della sostenibilità richiede che le problematiche coinvolte siano considerate su una scala autenticamente umana, all’interno del contesto e delle esperienze della vita quotidiana.
È qui che dobbiamo percepire tutto il peso della dignità inalienabile della vita, e riflettere su cosa sia davvero importante per noi e cosa dobbiamo tutti insieme proteggere.
Ecco perché è inaccettabile considerare la ricerca della sostenibilità semplicemente come una questione di adattamento delle politiche allo scopo di trovare un equilibrio migliore tra imperativi economici ed ecologici. Al contrario, la sostenibilità deve essere intesa come una sfida e un’impresa che richiede l’impegno di tutte le persone. Nella sua essenza, la sostenibilità è l’opera di costruzione di una società che riconosca la massima priorità alla dignità della vita: la dignità di tutti i membri delle presenti e future generazioni e della biosfera che ci sostiene.
La ricerca del possibile
Qui mi torna in mente il ricordo di Aurelio Peccei (1908-84), che fondando il Club di Roma contribuì alla creazione della Conferenza delle Nazioni Unite del 1972, antesignana della Conferenza Rio+20. Nel dialogo che pubblicammo nel 1984 egli dichiarò: «Abbagliati dal nostro potere, noi facciamo ciò che possiamo, non ciò che dovremmo fare, e perseveriamo in questa condotta senza demordere, senza prendere in considerazione qualsiasi “si deve” e “non si deve”, ignorando perfino quei limiti etico-morali che dovremmo reputare inerenti alla nostra nuova condizione».3.
Rimasi colpito da questa dichiarazione, specialmente perché contiene un’eco profonda della consapevolezza espressa dal presidente fondatore della Soka Gakkai, Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), nella sua opera del 1903, La geografia della vita umana. Egli delinea un analogo profilo delle condizioni che prevalevano agli inizi del XX secolo, quando il perseguimento incondizionato del possibile produsse un ordine globale in cui i forti facevano preda dei deboli senza quasi pensare alle conseguenze: «[Le grandi potenze] sono sempre alla ricerca di nuove opportunità di profitto, in altre parole di qualunque occasione da poter sfruttare per ottenere un appoggio economico o un vantaggio politico. Proprio come nell’atmosfera le zone di alta pressione confluiscono in quelle di bassa pressione, un fenomeno analogo si può osservare nelle relazioni internazionali di potere».4.
Sono passati quasi centodieci anni da quando Makiguchi scrisse quelle parole; quanto sono cambiate le cose da allora?
La civiltà contemporanea continua a farsi irretire da una ricerca amorale del possibile, spesso non ostacolata da remore etiche: lo si può osservare nella incessante corsa competitiva agli armamenti, portata avanti per intimidire gli altri e per incrementare il proprio prestigio, come anche nella competizione economica globale condotta nella totale indifferenza verso il problema della povertà, con il conseguente aumento delle disparità di reddito.
La spirale del desiderio – in cui ambizioni e impulsi sulle prime considerati sotto controllo aumentano via via che vengono soddisfatti, fino a sfuggire totalmente dalla nostra padronanza – è al centro di molte delle questioni critiche che il nostro mondo ha di fronte: la priorità data alla crescita economica che conduce al degrado ecologico, le crisi finanziarie ed economiche causate da una febbre speculativa, l’estrema disumanità delle armi nucleari…
L’incidente alla centrale nucleare di Fukushima è derivato da un disastro naturale, certo. Esso dimostra però anche quanto grandi siano i rischi connessi alla decisione di affidarsi all’energia prodotta attraverso reazioni nucleari controllate, rischi che sono stati messi in ombra da una fede incondizionata nella superiorità e nella sicurezza dell’industria nucleare giapponese.
Allo stesso tempo la ricerca del possibile è stato un impulso importante verso lo sviluppo, che ha portato al soddisfacimento di bisogni essenziali come il cibo, il vestiario e la casa, al miglioramento della salute e della qualità della vita e al forte incremento della mobilità di persone e di beni grazie ai progressi nei trasporti e nelle tecnologie della comunicazione.
Makiguchi non negava i benefici di questo tipo di ricerca, e in effetti notò acutamente l’efficacia di una competizione positiva in termini di affinamento e perfezionamento delle capacità delle persone e della liberazione della loro energia. «Laddove la competizione è forte e vigorosa troviamo progresso e sviluppo; ma se viene ostacolata, per fattori naturali o umani, troviamo stagnazione, immobilità e involuzione».5.
Il suo principale interesse, tuttavia, si focalizzava sulla necessità di allontanarsi da quel tipo di competizione militare, politica ed economica in cui il beneficio viene ricercato per se stessi senza pensare ai sacrifici imposti agli altri. Egli invocava una nuova forma di competizione, che definì “umanitaria”, in cui «si protegge, si amplia e si fa progredire la vita degli altri mentre si agisce per se stessi» e «si servono gli interessi degli altri mentre si trae vantaggio in prima persona».6.
Makiguchi stava perseguendo una trasformazione qualitativa della natura della competizione, in modo che le energie del desiderio – l’impulso a fare qualcosa per la propria situazione attuale – fossero orientate verso fini di valore superiore, apportando felicità a se stessi e agli altri.
Il Buddismo descrive così questa trasformazione nelle profondità della coscienza: bruciare «la legna dei desideri terreni, facendo sorgere il fuoco della saggezza della bodhi o Illuminazione».7. Invece di permettere che la rabbia o il dolore che proviamo per la nostra attuale situazione trovino sfogo in azioni che danneggiano o sviliscono gli altri, dobbiamo allargare e nobilitare quei sentimenti affinché diventino motivo di azione per contrastare le piaghe e le minacce sociali che portano sofferenza a noi e agli altri. Il Buddismo insegna che una simile trasformazione ci mette in grado di vivere esistenze che illuminano la società con le qualità del coraggio e della speranza.
Se dovessimo tradurre la visione di Makiguchi e la sua risonanza con la filosofia buddista nei termini della realtà contemporanea, assisteremmo alla trasformazione della competizione militare in una gara tra le nazioni nell’impiegare le proprie capacità non solo per la sicurezza nazionale ma anche per la “sicurezza umana”, in settori quali il controllo della diffusione di malattie infettive e la prevenzione e riduzione dei disastri. Ecco perché un tipo di competizione che stimoli a impegnarsi per affrontare e superare minacce condivise porterà un auspicabile beneficio reciproco a tutte le nazioni.
Similmente, la competizione politica può essere trasformata da una lotta per l’egemonia basata sul “potere duro” (hard power8.) a una competizione basata sul “potere morbido” (soft power9.) per sviluppare proposte politiche creative, guadagnandosi così il rispetto delle altre nazioni. Un esempio di ciò fu la potente solidarietà tra organizzazioni non governative (ONG) e governi lungimiranti che unirono i loro sforzi per far nascere i trattati multilaterali che misero al bando le mine antipersona e le munizioni a grappolo. Questo risultato fu possibile sia grazie alla pressione sulle varie nazioni affinché dessero priorità all’imperativo umanitario rispetto alla ricerca di ciò che era tecnologicamente e militarmente possibile, sia per il supporto all’iniziativa costruito all’interno della comunità internazionale.
Si potrebbe dire che l’invito a fondare una economia verde nel contesto dello sviluppo sostenibile e dell’eliminazione della povertà – uno dei temi generali della Conferenza Rio+20 – corrisponda a uno spostamento della competizione economica verso modalità in cui «si servono gli interessi degli altri mentre si trae vantaggio in prima persona».
È sempre più diffusa la volontà di sostenere la creazione di un sistema in cui le nazioni possano condividere le loro best practices (pratiche migliori), sviluppare capacità tecnologica e sostenere altre nazioni nell’applicazione di quelle tecnologie. Ciò è visto come un mezzo essenziale per arrivare a una transizione globale verso quel tipo di economia verde caratterizzata da basse emissioni di carbonio e dall’uso efficiente delle risorse. Spero vivamente che la Conferenza porti ad accordi su un sistema di questo tipo, in cui le nazioni con un’esperienza all’avanguardia in questi settori possano agire secondo il principio della competizione umanitaria. Lo stesso principio può essere, e io spero ardentemente che sia, risolutamente applicato lungo l’asse temporale, secondo la formulazione di “beneficiare e servire agli interessi del futuro traendo vantaggio dal presente”.
Per molte persone l’idea di sostenibilità evoca immagini di vincoli di varia natura imposti agli individui e alle società. Ma un simile approccio miope non porterà a quella trasformazione a cascata che è qui richiesta. Anche se le risorse fisiche sono limitate il potenziale umano è infinito, così come la nostra capacità di creare valore. Al cuore del concetto di sostenibilità, a mio parere, c’è il senso di una lotta, una competizione orientata a generare valore positivo e a condividerlo con il mondo e con il futuro.
In parole semplici, l’impegno di persone, comunità e società orientato ad arrecare beneficio agli altri porta in primo piano i nostri aspetti più positivi e creativi. Similmente, il più profondo miglioramento della nostra condizione presente si realizza quando ci impegniamo per un futuro migliore. È grazie a questi ripetuti sforzi, in costante riferimento a noi e agli altri, al presente e al futuro, che possiamo proteggere l’inalienabile dignità reciproca e lavorare per costruire un mondo in cui tutte le persone possano vivere in pace e felicità.
La chiave qui è il nostro senso di responsabilità verso coloro con cui condividiamo il pianeta e il nostro senso di responsabilità verso il futuro.
Radicati nella comunità locale
Di fronte alla notizia di eventi terribili in diverse zone del mondo o di minacce spaventose all’ecologia globale, molte persone provano sofferenza e sentono l’impulso di fare qualcosa; ma esposte a un incessante flusso di informazioni del genere è probabile che arrivino anche a provare un senso di impotenza sempre più profondo.
Arthur e Joan Kleinman, autori di una ricerca in antropologia culturale alla Harvard University, analizzano così le insidie della nostra società contemporanea dell’informazione: «La sensazione, dominante nella nostra epoca, che i problemi complessi non possono essere né compresi né risolti, aggravata dalla massiccia globalizzazione di immagini di sofferenza, lavora in noi fino a provocare stanchezza morale, sfinimento dell’empatia e disperazione politica».10.
Per evitare di essere sommersi da questi sentimenti è fondamentale avere salde radici, trovare una prospettiva da cui poter percepire l’impatto delle proprie azioni e sentire che si stanno compiendo progressi concreti nella trasformazione della realtà. Questo, secondo la mia opinione, è il ruolo della comunità locale. Il senso di responsabilità verso il mondo o il futuro non è un sentimento che si può sviluppare dalla sera alla mattina, in totale distacco dalla realtà della vita quotidiana. Se non riusciamo a svilupparlo all’interno delle nostre relazioni più strette e dell’ambiente a noi circostante, non possiamo sperare di farlo in relazione all’intero pianeta o al futuro lontano.
La parola “responsabilità” indica l’abilità o capacità di rispondere. È grazie al continuo impegno nel rafforzare e modellare la nostra capacità di reagire alle realtà in evoluzione della nostra comunità che si sviluppa il senso di responsabilità verso tutti quelli con cui dividiamo il pianeta e verso le future generazioni.
Il film A Quiet Revolution (Una rivoluzione tranquilla), di cui la SGI ha sostenuto la produzione e che fu proiettato per la prima volta al Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile (WSSD – World Summit on Sustainable Development) nel 2002 a Johannesburg, in Sudafrica, è incentrato sulle attività svolte da cittadini comuni in tutto il mondo che illustrano questo principio. Prodotto dal Consiglio della Terra (Earth Council) in cooperazione con il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP, United Nations Development Programme) e il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP, United Nations Environmental Programme), il film racconta l’impegno delle popolazioni nel proteggere le loro comunità, i figli e il futuro. Ritrae gli abitanti del villaggio di Neemi nel Rajasthan, in India, che riprendono le antiche tradizioni legate alla raccolta dell’acqua piovana; mostra la popolazione della Slovacchia che contrasta l’inquinamento chimico nel lago Zemplinska Sirava e descrive le attività del Movimento della Cintura Verde, in Kenya, che combatte la desertificazione piantando alberi.
A oggi la SGI ha organizzato proiezioni di questo film in più di cinquantacinque aree e nazioni, per promuovere il messaggio che ogni singola persona ha il potere di cambiare il mondo.
Spinta all’ azione
Il Movimento della Cintura Verde descritto in A Quiet Revolution fu avviato dalla dottoressa Wangari Maathai (1940-2011), attivista ambientale keniana. Esso illustra come un movimento formato da persone legate alla comunità sia in grado di sviluppare in ogni individuo un senso di responsabilità verso il futuro.
Il mio incontro con la dottoressa Maathai, che purtroppo ci ha lasciato lo scorso anno, avvenne nel febbraio del 2005. Ricordo con affetto il sorriso avvolgente, luminoso come il sole, che mi regalò quando le proposi di piantare un fico nei giardini dell’Università Soka in America in onore dei suoi numerosi anni di impegno e conquiste.
Nella sua comunità di origine il fico era simbolo di insostituibile dignità e valore. In realtà fu proprio un episodio legato a un fico a spingerla a dedicarsi a un movimento di rimboschimento. Una volta, al ritorno in Kenya dagli Stati Uniti dove stava studiando scienze biologiche, fece visita alla sua famiglia a Nyeri e rimase scossa nel vedere come l’ambiente naturale intorno alla sua casa in pochi anni avesse subito un radicale cambiamento. Interessati sempre di più al profitto, gli agricoltori stavano tagliando le foreste per piantare prodotti agricoli. La dottoressa Maathai scoprì che nel frattempo era stato abbattuto persino il fico che sua madre le aveva insegnato a venerare come sacro.
Osservò poi che le frane erano diventate più frequenti nella regione e che di conseguenza le fonti di acqua potabile pulita cominciavano a scarseggiare. Venne inoltre a sapere che molte donne keniane lottavano ogni giorno con problemi causati dal degrado ambientale.
Convinta che «le soluzioni a gran parte dei nostri problemi devono venire da noi»,11. lanciò nella sua comunità locale quello che sarebbe diventato il Movimento della Cintura Verde. Questo movimento, che la dottoressa Maathai descrisse come «una conferma della capacità dei singoli di cambiare il corso della storia ambientale»,12. illustra tre punti di importanza cruciale.
Il primo è l’impegno costante nell’assicurarsi che tutti i partecipanti siano sinceramente convinti della validità di ciò che stanno facendo e che, man mano che il movimento si sviluppa e cresce, siano in grado di mantenere un palpabile senso di realizzazione. La dottoressa Maathai teneva seminari nelle comunità dove il movimento era attivo e incoraggiava le persone a identificare i problemi che avevano di fronte. Chiedeva quale fosse secondo loro la fonte dei problemi, e molti se la prendevano con il governo. Pur riconoscendo che spesso era così, lei sottolineava che nulla sarebbe cambiato finché le persone avessero attribuito tutta la responsabilità al governo.
Diceva loro: «È la vostra terra. La possedete, ma non ve ne prendete cura. Lasciate che il suolo subisca l’erosione, quando potreste fare qualcosa al riguardo. Potreste piantare degli alberi».13.
Le persone che piantavano alberi talvolta dicevano: «Non voglio piantare quest’albero, perché non crescerà abbastanza in fretta». La dottoressa Maathai ricordava allora che gli alberi di cui le persone stavano godendo i frutti oggi non erano stati piantati da loro, ma da quelli che li avevano preceduti. Allo stesso modo ora era necessario piantare alberi che avrebbero portato beneficio alla comunità del futuro: «Come in una semina, grazie al sole, alla buona terra e a una pioggia abbondante le radici del nostro futuro affonderanno nel terreno e un tetto di speranza raggiungerà il cielo».14.
Per quanto l’obiettivo possa essere nobile, le persone non si sentono spinte all’azione se non sono completamente convinte del suo valore. È lo sforzo sincero nell’impegnarsi con le persone, nel rispondere loro con attenzione, nell’aiutarle a chiarire ogni loro dubbio che alimenta tale convinzione.
Il Movimento della Cintura Verde è stato in grado di coinvolgere sempre più persone non solo grazie a questo processo di costante dialogo ma anche perché i suoi risultati tangibili hanno dato a ogni partecipante un concreto senso di realizzazione. Penso che qui si possa trovare il fattore più potente che ha messo in grado le persone di partecipare al movimento; la gioia e l’orgoglio derivati dalla consapevolezza che le loro azioni stavano contribuendo all’effettivo cambiamento le hanno liberate da un senso di impotente rassegnazione.
Come dichiarò Wangari Maathai nel discorso di accettazione del premio Nobel per la Pace: «Piantare alberi è semplice, accessibile e garantisce risultati rapidi e di successo in un arco di tempo ragionevole. Ciò incoraggia l’interesse e l’impegno. E così, insieme, abbiamo piantato più di trenta milioni di alberi che forniscono combustibile, cibo, riparo e reddito per sostenere l’istruzione dei nostri figli e le esigenze delle famiglie. L’attività crea anche impiego e migliora terreni e bacini».15.
Il secondo punto che vorrei rilevare è che il Movimento della Cintura Verde ha dato potere a ogni individuo, ispirando nelle persone un senso più ampio di missione e tirando fuori il loro infinito potenziale innato.
Vi è la tendenza a considerare il movimento semplicemente in base al numero di alberi che sono stati piantati. Il suo significato più ampio, tuttavia, si trova nell’empowerment delle persone, come testimoniato dalla convinzione della dottoressa Maathai che il suo lavoro non si limitasse al piantare gli alberi: era un movimento che voleva ispirare le persone ad assumersi la responsabilità della loro vita e dell’ambiente, della governance e del futuro. Quando si rese conto che non stava lavorando solo per se stessa ma per qualcosa di più grande, si sentì più forte.
Grazie al fatto che le persone piantavano e curavano gli alberi con le loro mani, il movimento portò i partecipanti, le donne delle aree rurali in particolare, a capire che stava a loro scegliere tra mantenere e rigenerare l’ambiente o permettere che la sua distruzione continuasse.
In seguito arrivarono a comprendere, attraverso le costanti opportunità di apprendimento e sviluppo della consapevolezza fornite dal movimento, che i loro sforzi per piantare gli alberi e impedire il disboscamento delle foreste erano parte di una missione più grande per la costruzione di una società che desse valore alla democrazia e alla coscienza sociale e osservasse il principio di legalità, i diritti umani e i diritti delle donne.
Le donne delle aree rurali, che all’inizio si recavano dalla dottoressa Maathai per ottenere combustibile e acqua potabile, acquisirono sicurezza via via che accumulavano esperienza. Iniziarono a esercitare una leadership nelle loro comunità, assumendo alla fine la responsabilità di progetti a livello comunitario come la gestione di vivai di alberi, la raccolta dell’acqua piovana e la protezione delle risorse alimentari.
L’esperienza del passaggio dall’empowerment alla leadership vissuta da queste donne ricorda il sensazionale risveglio che esprime l’essenza del Buddismo, così come è descritto nel Sutra del Loto: la trasformazione da individui che cercano la salvezza personale in individui che agiscono per aiutare gli altri a liberarsi dalla sofferenza.
Il Buddismo insegna che i mezzi per superare radicalmente la nostra sofferenza non esistono al di fuori di noi. Attraverso il processo di risveglio e di piena manifestazione del nostro illimitato potenziale innato ci trasformiamo in un modo che ci permette di condurre altre persone alla felicità e alla sicurezza. Questa grande trasformazione interiore ci mette in grado di fare della nostra stessa sofferenza un trampolino per migliorare la società.
In questo contesto è interessante citare l’esempio di una donna di nome Srimala che compare nel canone buddista. Il suo voto viene così formulato: «Se vedrò persone sole, persone che sono state incarcerate ingiustamente e hanno perso la loro libertà, persone che stanno soffrendo per malattia, disastro o povertà, non le abbandonerò. Porterò loro conforto spirituale e materiale».16. Si tramanda che Srimala abbia vissuto tenendo fede al suo voto dedicando la propria vita ad aiutare le persone sofferenti.
Quando la dottoressa Maathai dichiarò: «Siamo chiamati ad assistere la Terra per curarne le ferite»,17. le sue parole riflettevano una vita dedicata a un voto di questo genere.
Quando si ha un simile impegno, le azioni non si fondano sulla paura di sanzioni legali o sul desiderio di trarre vantaggi personali o ricompense economiche. Si rimane determinati nonostante le avversità e ci si rifiuta di contare sul fatto che siano gli altri ad agire. Ciò che conta è avanzare con fermezza per realizzare la propria missione, per quanto possa essere difficile. La dottoressa Maathai disse che si sentiva stimolata nel vedere l’enormità del compito che la attendeva.
Questo tipo di empowerment radicato nella comunità innesca coraggio e saggezza negli individui, ispirandoli ad agire e a esercitare leadership per migliorare la loro situazione. Quando questo approccio alla vita si fa più interiorizzato e solido le persone possono lavorare insieme e progredire verso la realizzazione del loro voto o missione individuale, per quanto possa essere piccolo ogni singolo passo. Credo che questo processo possa fungere da base per costruire un movimento popolare in espansione che ricerchi la sostenibilità su scala globale.
Il terzo punto che vorrei toccare è lo sforzo intrapreso dalla dottoressa Maathai per assicurare la continuazione del movimento grazie all’importanza data all’incoraggiamento e all’educazione delle giovani generazioni.
Rispondendo a una domanda sul fatto che parlava delle sue iniziative usando sempre il “noi” invece di “io”, la dottoressa Maathai diede una risposta memorabile: «Sono ben consapevole del fatto che non puoi farcela da sola. È un lavoro di squadra. Se lo fai da sola corri il rischio che, quando non ci sarai più, nessun altro lo farà».18.
Anche se è possibile che un individuo dia inizio a un movimento da solo, la realizzazione di ogni grande obiettivo richiede molti anni e la cooperazione di un grande numero di persone. Questa è l’essenza di ogni grande impresa.
La questione di come trasmettere lo spirito di un movimento da una generazione all’altra è spesso emersa come nodo cruciale nel corso delle mie discussioni con diverse figure di calibro internazionale impegnate nello sforzo di risolvere problemi globali. Tra loro ricordo Sir Joseph Rotblat (1908-2005) che in qualità di fondatore del Movimento Pugwash19. (Pugwash Conferences on Science and World Affairs) dedicò la sua vita all’abolizione delle armi nucleari e della guerra.
Rotblat aveva già lavorato instancabilmente, sin dai primi giorni della guerra fredda, per costruire una solidarietà spirituale tra gli scienziati che superasse i confini nazionali, quando diede il suo supporto alla formazione dell’organizzazione International Student/Young Pugwash (ISYP) per una generazione più giovane di scienziati, inaugurata nel 1979. A quel tempo aveva circa settant’anni, ma i suoi occhi erano saldamente fissi sul futuro.
Quando il 9 luglio del 1955 fu pubblicato il manifesto Russell-Einstein che metteva in guardia dai pericoli delle armi nucleari, il dottor Rotblat era il più giovane dei firmatari. Chissà quali pensieri devono avergli attraversato la mente nelle fasi successive della sua vita mentre osservava il flusso di giovani scienziati adottare la promessa: «Non userò la mia istruzione per alcuno scopo inteso a danneggiare gli esseri umani o l’ambiente».20.
Era il 5 giugno 1977 quando Wangari Maathai diede inizio al Movimento della Cintura Verde e insieme a un gruppo di sostenitrici piantò diversi alberi nel parco di Kamukunji alla periferia di Nairobi. Da quel giorno il movimento si è diffuso in tutto il Kenya e in numerose nazioni africane, arrivando a piantare quaranta milioni di alberi nel continente. Dal 2006 quando, in partnership con la UNEP e altre organizzazioni, lanciò l’appello per una campagna globale di rimboschimento, sono stati piantati in tutto il pianeta oltre dodici miliardi e mezzo di alberi. La gente di tutto il mondo ha accolto con tristezza la notizia della morte di Wangari Maathai nel settembre dell’anno scorso, ma il numero di alberi piantati continua a crescere.
Non si tratta di un miracolo, tutt’altro. Ciò è stato possibile grazie alla forte determinazione della dottoressa Maathai e di altri che decisero di fare qualcosa per la crisi che si stava allargando intorno a loro. La loro determinazione si guadagnò un ampio sostegno toccando il cuore di innumerevoli persone ed esortandole ad agire.
C’è molto da imparare dall’attivismo di Wangari Maathai mentre ci uniamo insieme nel tentativo di creare una società globale sostenibile.
Nuovi obiettivi
Ora vorrei fare alcune proposte specifiche per la Conferenza Rio+20, concentrandomi su tre grandi aree:
1. Formulare una serie di obiettivi condivisi per un futuro sostenibile. Questi dovrebbero fornire una visione globale verso cui l’umanità può tendere e fungere da norme che guidino le azioni dei singoli individui che condividono questo pianeta.
2. Istituire una nuova organizzazione internazionale partendo dalla fusione delle agenzie dell’ONU nei settori dell’ambiente e dello sviluppo. Così si potranno meglio promuovere gli sforzi per una società globale sostenibile centrati sulla collaborazione con i diversi settori della società civile.
3. Raccomandare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la creazione di una struttura educativa che favorisca la sostenibilità. Tale iniziativa svilupperà la consapevolezza dei singoli individui e metterà in grado le persone di passare dall’empowerment alla leadership all’interno delle loro rispettive comunità.
Riguardo alla prima proposta, è vitale che ogni nuova serie di obiettivi, oltre a portare avanti lo spirito degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG – Millennium Development Goals) delle Nazioni Unite per alleviare le sofferenze delle persone costrette a vivere in condizioni difficili e degradanti, funga da catalizzatore per promuovere un cambiamento positivo tra le persone per costruire una società globale sostenibile.
Gli MDG, stabiliti ufficialmente durante il Millennium Summit del 2000, furono innovatori rispetto al precedente impegno internazionale concentrato sul miglioramento degli indicatori macroeconomici. Gli MDG misero infatti l’accento sul miglioramento delle condizioni degli individui e diedero chiari obiettivi numerici entro precisi intervalli di tempo, come il dimezzamento della percentuale delle persone che vivono con meno di un dollaro al giorno entro il 2015.
A oggi ci si aspetta che la percentuale delle persone che vivono in estrema povertà sia scesa sotto il quindici per cento, superando ampiamente l’obiettivo iniziale, mentre i paesi più poveri hanno fatto progressi significativi verso l’obiettivo di fornire un’istruzione primaria a livello globale, e un miliardo e ottocentomila persone hanno avuto accesso all’acqua potabile.21.
Ma persino questi importanti miglioramenti non è detto che siano stati avvertiti da coloro che vivono in estrema povertà o da chi è socialmente svantaggiato per sesso, età, disabilità, condizione di minoranza, ecc. È vitale che queste disuguaglianze vengano affrontate con attenzione e urgenza, più di quanto sia stato fatto fino a oggi.
Sempre più persone stanno richiedendo un nuovo accordo che copra il periodo successivo al 2015. La relazione del Gruppo di alto livello sulla sostenibilità globale (High Level Panel on Global Sustainability) istituito dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon sottolinea il bisogno di stabilire obiettivi di sviluppo sostenibile per raggiungere tale fine.
La relazione suggerisce che nella determinazione del contesto per la formulazione di tali obiettivi si dovrebbero includere sfide per tutti i paesi e non solo per le nazioni in via di sviluppo, incorporare una serie di questioni cruciali non del tutto coperte dai MDG come il cambiamento climatico, la biodiversità, la riduzione del rischio di disastro e la relativa capacità di ripresa, e coinvolgere tutti i soggetti interessati (stakeholders) allo sviluppo sostenibile, incluse le comunità locali, la società civile e il settore privato, come anche i governi.22.
Lo scorso gennaio, nella mia annuale Proposta di pace pubblicata per celebrare l’anniversario della fondazione della SGI, ho suggerito che negli accordi raggiunti alla Conferenza Rio+20 fosse inclusa la creazione di un gruppo di lavoro per la deliberazione del contenuto di questi nuovi obiettivi.
Oltre agli aspetti indicati in precedenza, credo che il processo di creazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile dovrebbe essere permeato da due elementi: l’impegno a sviluppare una visione globale ampia e l’attenzione verso la comunità locale.
Per quanto riguarda il primo, al centro dei nuovi obiettivi dovrebbe esserci un impegno lungimirante per il benessere di tutta l’umanità e della comunità globale. Una simile visione può incoraggiare altre società e individui a sfidarsi in una competizione umanitaria per dare il contributo più significativo.
Anche a questo proposito, i concetti chiave includono quelli a cui ho già fatto riferimento in precedenza: sicurezza umana, potere morbido ed economia verde.
L’articolo 26 della Carta delle Nazioni Unite dichiara il seguente obiettivo: «[Al fine di] promuovere la creazione e il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale con il minimo dispendio di risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti…». I benefici per la sicurezza umana legati al disarmo toccano tutti gli Stati, e qualunque progresso in questo campo sarebbe di grandissimo vantaggio non solo per i governi ma per tutte le persone che vivono oggi sulla Terra e per le future generazioni.
Similmente, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2012 come Anno internazionale dell’energia sostenibile per tutti. Se gli Stati con una storia di successi in questo campo riuscissero a ingaggiare una competizione positiva per la diffusione di tali tecnologie, contribuirebbero a creare un’infrastruttura attraverso la quale le società che lottano contro la povertà potrebbero proteggere l’esistenza, il sostentamento e la dignità delle loro popolazioni senza gravare ulteriormente sull’ambiente. Ciò ridurrebbe notevolmente il peso sull’ecosfera globale anche nel futuro. Una simile formula potrebbe essere applicata alla transizione verso una società a zero sprechi grazie alla promozione delle “3 R”: Riduzione, Riutilizzo e Riciclo.
Ho la sensazione che qualunque nuova serie di obiettivi dovrebbe includere traguardi che incoraggino fortemente la competizione umanitaria, in precedenza definita come azione che “serve gli interessi degli altri portando vantaggio a se stessi” e “serve gli interessi del futuro portando vantaggio al presente”.
Il secondo elemento è l’attenzione alla comunità in quanto luogo in cui agire. Ciò permetterà a molte persone di sentire concretamente fino a che punto le loro azioni stanno dando origine a un cambiamento positivo contribuendo a un futuro sostenibile.
Gli MDG si interessavano soprattutto della riduzione dell’impatto negativo sulle persone e sulle società, cercando dei modi per alleviare la sofferenza provocata dalla povertà ed eliminare la minaccia all’esistenza e alla dignità delle persone. Erano anche molto centrati sul ruolo e l’impegno degli Stati, ad esempio nella promozione dell’istruzione primaria e nell’eliminazione delle discriminazioni di genere nelle opportunità educative. È vitale continuare, e in realtà accelerare, tali sforzi, ma è anche importante fissare obiettivi che generino effetti a catena positivi in tutta la società e che possano essere portati avanti da chiunque nel suo contesto più prossimo.
Esempi dell’impegno “proattivo”23. delle comunità locali potrebbero includere: progetti di rimboschimento o altre iniziative per proteggere l’ecologia locale; attività che mettano al centro i cittadini e formino comunità “resilienti”24. di fronte ai disastri; collegamenti con altre comunità per aumentare la produzione e il consumo locale; attività in cooperazione per fare della riduzione degli sprechi e del riciclaggio una parte connaturata alla vita della gente; stimoli all’introduzione di fonti di energia rinnovabile in modi appropriati a ogni luogo, riducendo così l’impronta ecologica.
Le autorità e le comunità locali sono centrali in questo processo, e le città hanno un ruolo chiave. Anche se non occupano più del due per cento della totalità dell’area terrestre del pianeta, le città sono responsabili del consumo di circa il settantacinque per cento delle risorse della Terra e di una proporzione equivalente di sostanze inquinanti rilasciate nell’atmosfera, nei fiumi, nei laghi e negli oceani del pianeta.25. L’osservazione che le azioni e le politiche delle città del mondo determineranno il destino della Terra è pienamente giustificata.
Spero quindi che i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile includano scopi relativi alle città, con una serie di indici specifici. Ciò potrebbe essere collegato a un sistema che migliori la capacità delle città di condividere le conoscenze tecniche, le best practices e i progressi annuali verso il raggiungimento di tali obiettivi.
Le tradizionali negoziazioni intergovernative probabilmente saranno inadeguate al compito di formulare obiettivi che si colleghino direttamente ai modelli di vita della gente. Spero quindi fortemente che, oltre ad assicurare la piena partecipazione di rappresentanti della società civile nel processo decisionale, la Conferenza Rio+20 si sforzi di sviluppare obiettivi che possano essere assunti in prima persona dai singoli individui e spingano alla cooperazione per essere realizzati.
Il quadro istituzionale
Uno dei temi chiave della Conferenza Rio+20 è il quadro istituzionale in vista di uno sviluppo sostenibile.
Dietro l’adozione di questo tema si cela la preoccupazione di numerosi governi per il ritmo lento degli sforzi delle Nazioni Unite nel settore della sostenibilità, per la duplicazione e la frammentazione delle attività delle relative agenzie, per la mancanza di fondi e per l’inadeguatezza del coordinamento.
Anche se naturalmente è vitale che tali questioni siano affrontate in fretta, credo che una riforma istituzionale non possa limitarsi a queste aree. Spero invece che il dibattito miri alla creazione di una nuova organizzazione internazionale in grado di rispondere alle realtà del XXI secolo e di fungere da modello pionieristico per il sistema delle Nazioni Unite.
In concreto, vorrei suggerire la costituzione di una “organizzazione globale per lo sviluppo sostenibile” derivata da una coraggiosa e qualitativa trasformazione dell’attuale sistema secondo le seguenti linee:
– il consolidamento di importanti sezioni e agenzie, incluse UNDP e UNEP;
– la partecipazione di tutti i governi interessati alle decisioni relative all’operatività della nuova organizzazione;
– un rapporto totalmente collaborativo con la società civile;
– la partecipazione attiva e il coinvolgimento dei giovani.
Una ragione a sostegno del consolidamento delle istituzioni è l’importanza dell’inclusività, dimostrata dal fatto che l’espressione “sviluppo inclusivo e sostenibile” era in cima alla lista di otto specifiche aree di azione per il 2011 decise dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.26.
Un approccio che classifica i problemi globali secondo la natura della minaccia può essere positivo per apportare un efficace miglioramento in un’area specifica. Ma, alla luce della crescente complessità e della natura interrelata delle crisi, un simile approccio non riuscirà ad alleviare alla radice la sofferenza delle persone e ad assicurare l’accesso ai necessari beni sociali. Dobbiamo sviluppare la capacità istituzionale di implementare risposte di vasta portata che diano priorità ai bisogni reali ed espressi della gente e costruiscano la base per un’esistenza dignitosa.
Poi, riguardo alla necessità di un processo decisionale che sia aperto alla partecipazione di tutti i governi, al momento sia l’UNDP sia l’UNEP sono strutturati in modo tale che solo gli Stati membri dei rispettivi consigli direttivi hanno l’ultima parola nelle decisioni. Tuttavia, alla luce dell’importanza dello sviluppo sostenibile e dell’ampia gamma di questioni e settori coinvolti, io credo che dobbiamo fare in modo che tutti gli Stati che lo desiderano possano partecipare alle decisioni.
Oggi la società internazionale ha di fronte la sfida di sviluppare modalità efficaci di azione condivisa: la costituzione di una salda base istituzionale contribuirebbe molto al progresso di questa causa. L’impegno riformatore dovrebbe essere guidato dall’obiettivo di costituire strutture istituzionali che consentano un impegno collaborativo con la società civile e siano un punto di raccordo che permetta a tutte le persone di assumere un ruolo di leadership per il futuro del pianeta.
Il tipo di riforma istituzionale che ho in mente dovrebbe proseguire, allargare e cristallizzare i numerosi sforzi che sono stati compiuti negli anni a partire dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano (Stoccolma, 1972), la prima conferenza internazionale su questioni ambientali globali.
La Conferenza di Stoccolma fu degna di nota anche per aver organizzato, in parallelo alle discussioni intergovernative, un forum di ONG costituito da rappresentanti della società civile e per il fatto che furono raccolti appelli affinché i governi includessero rappresentanti delle ONG nelle loro delegazioni. Fu un passo importante verso la considerazione delle voci della società civile – «Noi i popoli…», dalla Carta delle Nazioni Unite – nelle attività di un’organizzazione caratterizzata dalla forte tendenza a fungere principalmente da assemblea di Stati sovrani.
Ciò segnò l’inizio di una posizione di apertura verso la partecipazione attiva della società civile, che arrivò a caratterizzare una serie di conferenze mondiali organizzate dalle Nazioni Unite nel corso degli anni ’70 e ’80 su sfide globali come la sovrappopolazione e le risorse alimentari.
Il Summit della Terra di Rio del 1992 prese le mosse da questa tradizione e la portò avanti in maniera radicale. Oltre a essere la prima conferenza delle Nazioni Unite convocata sotto forma di summit, fu strutturata per facilitare la partecipazione di un vasto gruppo di attori provenienti da diversi ambiti come la scienza e l’industria, e di ONG prive di status consultivo ufficiale presso le Nazioni Unite.
Se la Conferenza di Stoccolma vide la partecipazione di due soli capi di governo, a Rio erano presenti in novantaquattro. Inoltre, con un numero totale quattro volte maggiore di ONG partecipanti, molte delle quali impegnate in attività di base in paesi in via di sviluppo, il Summit della Terra rappresentò un importante progresso quantitativo e qualitativo rispetto alla conferenza precedente. Inoltre, a partire da allora, un numero crescente di Stati iniziò a includere rappresentanti delle ONG nelle loro delegazioni per le conferenze internazionali.
L’ambientalista tedesco Ernst Ulrich von Weizsäcker, con cui al momento sto portando avanti un dialogo a puntate, ha suggerito che il Summit della Terra ebbe successo in quanto “enorme impresa”,27. ottenendo il coinvolgimento di una grande rappresentanza della popolazione mondiale: «Senza quello slancio e quella pressione pubblica sarebbe stato facile per alcuni governi affidare tutto alla routine diplomatica e quindi far fallire la conferenza, un risultato quasi assicurato dal grande divario tra nord e sud sulle questioni fondamentali».28.
Partendo da questa sofferta storia di successi, la Conferenza Rio+20 dovrebbe essere considerata un’opportunità di porre la collaborazione tra le Nazioni Unite e la società civile al centro di qualunque ristrutturazione istituzionale.
Un modello concreto di tale collaborazione si può osservare nell’Organizzazione Internazionale del lavoro (ILO – International Labour Organization), che adotta un sistema di gestione a tre composto dai rappresentanti di governi, di aziende e dei lavoratori. Qualunque nuova organizzazione dovrebbe prendere in considerazione varianti di questo sistema, come ad esempio un insieme a quattro che assicurerebbe la partecipazione dell’intera gamma di attori della società civile e sarebbe composto da governi, ONG, aziende e istituzioni accademiche e di ricerca.
Attualmente le Nazioni Unite includono programmi come il Global Compact (accordo globale) per l’industria e gli affari e l’Academic Impact (Impatto accademico) per le università e altre istituzioni di istruzione superiore, che permettono a questi importanti attori di fungere da partner nel sostegno delle attività dell’ONU. Entrambi possono essere considerati imprese proattive attraverso le quali attori diversi perseguono lo stessoimperativo etico: “Cosa dovremmo fare”. In questo senso condividono l’orientamento che sto proponendo in relazione alla creazione di una nuova serie di obiettivi, come discusso in precedenza, che facciano emergere il valore positivo della comunità locale e della società e generino un cambiamento su scala globale.
La prima bozza del documento emesso in anticipo dalla Conferenza Rio+20 sottolinea che «un prerequisito fondamentale per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile è un’ampia partecipazione pubblica nel processo decisionale».29. La creazione di un solido quadro istituzionale in questo campo, basato sul principio della facilitazione della collaborazione tra le Nazioni Unite e la società civile, fornirà un precedente e un esempio pratico per la creazione di istituzioni simili atte ad affrontare altri problemi globali.
L’ultimo punto che vorrei discutere in relazione alla riforma istituzionale riguarda il coinvolgimento attivo dei giovani, gli esponenti della generazione nascente. Nell’autunno scorso l’UNEP si è riunito in una conferenza in cui mille e quattrocento bambini e giovani di centodiciotto paesi si sono incontrati in Indonesia e hanno adottato la Dichiarazione di Bandung,30. esprimendo la loro determinazione ad agire. «Il futuro del nostro pianeta – il nostro futuro – è a rischio […] Non possiamo aspettare un’altra generazione, un Rio+40, prima di agire»31.
Dobbiamo dare vita il prima possibile a un nucleo che sappia attrarre e concentrare la passione e l’energia dei giovani, espresse in questa dichiarazione, affinché possano indirizzare il futuro dell’umanità in una direzione nuova e di maggiore speranza. Vorrei invocare la creazione di un “comitato delle future generazioni” in qualità di forum in cui rappresentanti dei giovani di tutto il mondo possano valutare nuove strade per un futuro sostenibile e consigliare la nuova organizzazione per la sostenibilità nei suoi piani e nelle sue politiche annuali. Questo potrebbe inoltre servire come punto focale per rafforzare le reti di azione dei giovani su scala globale.
I giovani non solo possiedono il forte desiderio di trasformare il mondo, ma hanno la capacità innata di farlo su scala ampia e crescente. Il grado con cui le Nazioni Unite riusciranno ad attingere all’enorme potenziale dei giovani avrà un impatto determinante sul futuro dell’umanità.
Spero che la riforma istituzionale in questo campo sia guidata dai principi che ho qui delineato. E confido che i rappresentanti dei governi riuniti in questa conferenza siano ispirati da un senso di responsabilità verso il futuro e prendano in considerazione riforme radicali raggiungendo accordi che si guadagneranno il rispetto e la gratitudine delle prossime generazioni.
Educare all’ empowerment
L’ultimo punto di cui vorrei parlare riguarda la costituzione di una struttura educativa che promuova la sostenibilità, al fine di sviluppare consapevolezza tra le persone e metterle in grado di passare dall’empowerment alla leadership all’interno delle loro rispettive comunità. Inoltre, ciò incoraggerebbe gli individui ad agire da protagonisti e a proteggere come un tesoro la dignità inalienabile di tutte le persone e il valore insostituibile di tutto ciò che ci circonda.
Concretamente vorrei proporre che la Conferenza suggerisca all’Assemblea Generale dell’ONU l’avvio di un “programma educativo per una società globale sostenibile” a partire dal 2015 che prosegua il lavoro del Decennio delle Nazioni Unite per l’educazione a uno sviluppo sostenibile (2005-2014).
Dieci anni fa, sostenendo l’idea di un tale Decennio al Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg, sottolineai l’importanza di un aumento globale della consapevolezza che comprendesse tre stadi: apprendere, riflettere e acquisire capacità.
Sin dall’avvio del Decennio, nel 2005, scuole e ONG hanno investito molte risorse creative nella ricerca e nel miglioramento di mezzi e tecniche per incrementare la consapevolezza della gente e, come risultato, si è avuto il desiderabile progresso nella capacità di incoraggiare all’apprendimento e alla riflessione. Ma se a ciò non seguirà l’empowerment e, successivamente, l’esercizio della leadership, non si avrà una vera trasformazione.
Io raccomando quindi che ogni quadro istituzionale successivo al Decennio sia concentrato su questo obiettivo: sviluppare le capacità di un grande numero di persone, che possono essere autentici agenti del cambiamento in grado di diffondere onde di speranza ovunque si rechino.
La mostra Semi del cambiamento: la Carta della Terra e il potenziale umano, creata dalla SGI e dall’Iniziativa della Carta della Terra, lanciata al Summit di Johannesburg e da allora esposta in ventisette aree e nazioni del mondo, e la sua versione rinnovata Semi di speranza: visioni di sostenibilità, passi verso il cambiamento, inaugurata nel 2010, sono state entrambe sviluppate con l’intento che fossero qualcosa di più di un semplice veicolo di informazione, ma piuttosto funzioni catalizzatrici per incoraggiare le persone ad agire e a esercitare la leadership.
È un obiettivo tutt’altro che facile ma, come ha dimostrato Wangari Maathai nel corso della sua esistenza, la chiave per proseguire in questa sfida sta nell’impegno educativo radicato nella comunità locale. Condivido pienamente la sua convinzione, espressa in maniera memorabile in queste parole: «L’educazione, se significa qualcosa, non dovrebbe allontanare gli esseri umani dalla Terra, ma instillare in loro un rispetto anche maggiore per essa, perché le persone istruite sono nella posizione di comprendere cosa stiamo perdendo».32.
In un libro pubblicato cento anni fa anche il presidente fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi, che dedicò la sua vita alla ricerca e alla pratica dell’educazione umanistica, raccomandò che l’educazione fosse radicata nella realtà vitale della comunità locale. Sostenendo l’idea che le persone non esistono separate dalla loro terra e che non si può fare alcun ragionamento se non si tiene conto di questa relazione, Makiguchi richiese l’istituzione di un programma di studi incentrati sulla comunità che riunisse e unificasse tutte le disclipline accademiche – in quello che oggi verrebbe chiamato un programma di materie obbligatorie – e trattasse l’ambiente umano e naturale della comunità locale come un libro di testo vivente.
Il suo obiettivo non era semplicemente far acquisire ai bambini una conoscenza generica delle relazioni geografiche tra le montagne e i fiumi, o una comprensione delle connessioni ecologiche tra gli esseri viventi che popolano oceani e foreste, e neppure di sviluppare una generale comprensione della natura.
Egli non mostrava interesse nel far apprendere «il tipo di fatti isolati che tendono a costituire i corsi in storia naturale e che possono essere riportati a nostro piacimento».33. Piuttosto, considerava obiettivo del suo programma educativo il fatto di aiutare bambini e bambine a «conquistare una chiara consapevolezza delle forze complesse e multisfaccettate che operano all’interno del regno naturale e umano nell’ambito della comunità locale nonché delle relazioni che modellano il processo con cui ci sviluppiamo e cresciamo: metterli in grado di osservare la miriade di fenomeni della natura e dell’umanità che li circondano e diventare così esperti nelle sottili e meravigliose relazioni reciproche che riguardano tutti loro».34.
Egli cercò di incoraggiare i bambini e le bambine a sviluppare, nella loro quotidianità, una sensibilità verso i legami indissolubili tra le persone e la terra, ad alimentare un apprezzamento per le modalità visibili e invisibili con cui la comunità locale rende possibile la nostra esistenza, invitandoli a uno stile di vita in cui questo senso di apprezzamento desse origine a un’azione concreta.
In un lavoro precedente (1903), La geografia della vita umana, Makiguchi scrisse: «Le nobili qualità umane della compassione, benevolenza, amicizia, gentilezza, coscienziosità e semplicità non possono trovare nutrimento al di fuori del contesto della comunità locale».35.
Riguardo alla comunità locale scrisse anche: «La conoscenza e le virtù di cui gli allievi necessiteranno quando in seguito si attiveranno nella società più ampia sono tutte presenti in nuce in questo microcosmo. Se osserviamo scrupolosamente la realtà che ci circonda, possiamo stabilire i principi che in seguito saranno necessari per comprendere il mondo».36.
Makiguchi vedeva la comunità locale come il luogo in cui i vari principi con cui la società e il mondo operano si uniscono in una forma direttamente osservabile. Il suo programma di studi incentrati sulla comunità era basato su questa consapevolezza fondamentale. Attraverso di essa, egli cercava di infondere nei bambini le dottrine essenziali di uno stile di vita basato sulla collaborazione: lavorare per il bene della società locale e nazionale e dell’umanità nel suo insieme, sulla base di un senso di mutua interdipendenza della vita nella sua globalità sviluppato attraverso le interazioni dei bambini con la comunità locale.
Inoltre, Makiguchi non considerava la comunità locale nell’accezione limitata di paese natale o luogo di nascita, ma in quella più ampia di base per la vita attuale: il luogo in cui si cammina e si vive, dove si vede e si sente e si viene sospinti da vari eventi. Makiguchi comprendeva che il nostro senso di appartenenza e di radicamento come membri di una comunità locale è la base di una coscienza di cittadinanza globale: «Sapere che la nostra vita si estende al mondo intero. Il mondo è la nostra casa, e tutte le nazioni in esso contenute sono il campo della nostra azione».37.
Partendo dalle intuizioni di Makiguchi vorrei suggerire – per la definizione di un quadro istituzionale successivo al Decennio per l’educazione allo sviluppo sostenibile – tre caratteristiche di un’educazione basata sulla comunità.
– Non dovrebbe limitarsi a fornire semplicemente la conoscenza dell’ambiente naturale, delle usanze e della storia della comunità locale, ma piuttosto incoraggiare sentimenti di affetto per quella comunità e la determinazione a proteggerla.
– Dovrebbe ispirare un profondo senso di apprezzamento per i modi in cui l’ambiente circostante, incluse le attività produttive ed economiche delle altre persone, migliora la nostra vita personale, e dovrebbe incoraggiare azioni quotidiane basate su quel senso di apprezzamento.
– Dovrebbe mettere in grado le persone di considerare i problemi della comunità locale tenendo presente il bene delle future generazioni e il tipo di società che dobbiamo costruire a loro nome, ponendo ciò al centro del nostro stile di vita.
Questo tipo di educazione non può essere promossa con successo semplicemente attraverso le lezioni in classe, ma richiede un coinvolgimento flessibile e proattivo della comunità locale per creare opportunità di imparare insieme per le persone di ogni generazione o percorso di vita. Ciò trasformerebbe l’intera comunità locale in un luogo di apprendimento permanente in cui le preoccupazioni e le aspirazioni di tutti sono condivise e trasmesse di generazione in generazione.
È anche importante fornire ai bambini e alle bambine regolari opportunità di avere un ruolo attivo nel proteggere l’ambiente locale e migliorare la sostenibilità della comunità. Essi dovrebbero essere in grado di individuare questioni e problemi sfuggiti all’osservazione degli adulti e offrire proposte per risolverli.
Proprio come Wangari Maathai, che riuscì a percepire acutamente la crisi che minacciava la sua comunità in occasione della perdita del fico che aveva custodito come simbolo del suo villaggio sin dall’infanzia, noi dobbiamo imparare a leggere i segnali nei piccoli cambiamenti prima che le minacce si aggravino oltre rimedio. La comunità locale è il luogo in cui le persone possono agire per fermare il danno prima che sia troppo tardi.
Un aspetto delle crisi globali è che esse nascono da spirali distruttive che hanno un impatto su diverse località, acquisendo un impeto apparentemente inarrestabile. Allo stesso tempo, se non sappiamo rispondere con efficacia alle crisi globali non possiamo sperare di proteggere le comunità locali dai pericoli e dalle minacce che incombono su di esse. Questo è il significato della comunità locale: è un luogo dove le persone possono riconoscere nei piccoli cambiamenti i sintomi di problemi più grandi, e inquadrandoli in uno schema dal significato più ampio possono trasformare un senso di angoscia in determinazione e azione. Proteggendo le nostre rispettive comunità e diffondendo il senso di solidarietà tra loro, possiamo affrontare persino le minacce globali più pressanti. E possiamo impegnarci nella paziente costruzione di quel tipo di comunità che aprirà un ampio sentiero verso la società globale sostenibile del futuro.
Contribuire alla trasformazione
Le proposte che ho qui presentato – in relazione agli obiettivi condivisi per la sostenibilità, alle riforme istituzionali e alla promozione di una struttura educativa – derivano dalla mia sensazione che la chiave della nostra sfida stia nello sviluppare individui capaci di farsi agenti di cambiamento che diffondono speranza ovunque si rechino nel corso di tutta la loro vita.
Considerando le prospettive di questa importante Conferenza mi vengono in mente le parole del già citato Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma, nel nostro dialogo: «Esiste in ogni singolo individuo un patrimonio di capacità e di qualità rimasto a tutt’oggi in letargo, ma che può essere finalmente portato alla luce e sfruttato al fine di correggere il processo di deterioramento della condizione umana. […] [Questo potenziale umano] può diventare l’asso nella manica suscettibile di capovolgere la situazione. Le innate risorse vitali, l’intrinseca intelligenza propria a ogni essere umano, dal più facoltoso o dotato di singolari virtù intellettuali al più indigente ed emarginato, costituiscono – ancorché attualmente noi lo si sperperi e se ne faccia un uso malproprio – l’ineguagliabile retaggio della nostra specie».38.
Sono l’educazione e l’apprendimento che renderanno le possibilità illimitate possedute da tutte le persone – «l’ineguagliabile retaggio della nostra specie» – una fonte di energia per affrontare la sfida senza precedenti di costruire una società globale sostenibile. L’apprendimento può avvenire in ogni luogo, dovunque le persone si incontrano; è un qualcosa a cui tutti noi possiamo partecipare. E persino quando i suoi risultati non sono immediatamente visibili, l’educazione sviluppa profonde radici nella società ed esercita un’influenza sempre più positiva nel passaggio da una generazione all’altra. Questa è la ragione per cui gli sforzi della SGI di promuovere la risoluzione dei problemi globali sono sempre concentrati sull’idea dell’empowerment della gente e per la gente.
Come indicano i titoli delle mostre che abbiamo organizzato per stimolare l’interesse e il dialogo riguardo alla ricerca di strade per un futuro sostenibile – Semi del cambiamento e Semi di speranza – noi crediamo fermamente che piantare i semi di una nuova consapevolezza nei cuori delle persone sia il mezzo più efficace per trasformare il mondo. Le scritture buddiste dichiarano: «Persino un singolo seme, quando viene piantato, crescerà e produrrà molti frutti».39.
Nelle nostre attività per proteggere l’integrità ecologica in vari paesi ci siamo sempre concentrati sull’educazione. Quest’anno segna il ventesimo anniversario della fondazione del Centro di conservazione ecologica dell’Amazzonia (AECC, Amazon Ecological Conservation Center) della SGI a Manaus in Brasile. Oltre ai progetti per ripristinare la foresta pluviale tropicale degradata, il Centro promuove anche l’educazione ambientale, attraverso la quale gli abitanti locali imparano a guidare la costruzione di un futuro sostenibile.
Grazie a queste iniziative e altri scambi è stato un onore per me diventare amico di Amadeu Thiago de Mello, uno dei maggiori poeti brasiliani che lavora da anni per proteggere la foresta pluviale amazzonica, “il polmone del mondo”. Vorrei offrire, a chiusura di questa proposta, una poesia estemporanea che il poeta condivise con me quando ci incontrammo a Tokyo nell’aprile del 1997.
Io vivo armato d’amore
per lavorare cantando
alla costruzione del domani.
L’amore dà tutto ciò che ha:
condivido la speranza
e pianto la luce della vita nuova che viene.
Una volta, sulle cime delle Ande incendiate,
tentarono di mettere a tacere
il grido di fratellanza del mio cuore.
Ma io ho attraversato quelle fiamme
e continuo a cantare.
Non ho sentieri nuovi,
ho solo modi nuovi di percorrerli.
Con il dolore dei diseredati,
con i sogni oscuri dei bambini che dormono affamati,
ho imparato che la Terra non è solo mia.
E ho imparato in verità
che la cosa più importante è lavorare
mentre abbiamo ancora vita,
per cambiare ciò che va cambiato,
ognuno a modo suo, ognuno dove si trova.
Note