A lezione di felicità
Oggi, a settanta anni di distanza, le idee di Makiguchi si rivelano di grande attualità, diventando un punto di riferimento per quanti vogliono intraprendere una riflessione sul tema dell’educazione nel mondo contemporaneo.
Questioni centrali della proposta di Makiguchi sono l’idea che la felicità sia lo scopo principale dell’educazione, e la teoria della “creazione di valore”. La felicità individuale è un processo di tutta una vita, non fine a se stesso ma teso al miglioramento e alla trasformazione dei limiti e dei punti morti della persona e della società.
Il libro L’educazione creativa, già tradotto in sei lingue e uscito in Italia per i tipi della Nuova Italia, raccoglie una selezione di scritti dall’opera Il sistema della pedagogia creatrice di valore.
Gli interventi raccolti in questo speciale sono alcuni contributi di esponenti del mondo accademico preparati in occasione della presentazione del libro a Milano– gli altri interventi verrano pubblicati in futuro nella rubrica Educazione – che offrono spunti per rispondere a queste domande.La felicità può essere un valore nel panorama della complessità moderna? Esiste una felicità che vada oltre la realizzazione dei desideri individuali? La felicità è solo una proiezione ideale verso un ipotetico futuro o può essere un valore nel presente? Esiste una felicità collettiva? Quanto spazio ha la felicità nella pedagogia di oggi? Come possono contribuire la scuola e la famiglia a indirizzare la formazione di ragazze e ragazzi verso la felicità?
L'ottimismo dell'educatore
L’ottimismo dell’educatore
di Piero Bertolini professore di Pedagogia all’Università di Bologna
Quando leggiamo un libro su una persona, su un’epoca o su un evento lontano o lontanissimo nel tempo, in genere lo facciamo per due ragioni: perché questo libro ci dà informazioni su qualcosa che noi non conosciamo, di cui siamo curiosi; oppure perché ci dà dei suggerimenti, ci obbliga in un certo senso a riflettere su molte cose che noi stessi pensiamo o facciamo. Bene, credo che il libro di Makiguchi sia interessante e meriti di essere letto con attenzione per entrambi questi motivi. Personalmente io l’ho letto con grande interesse proprio per le ragioni menzionate.
Questo libro ci fa conoscere una realtà per me, come credo per molti di voi, poco nota. L’ambiente culturale giapponese è molto lontano; della storia del Giappone qualcosa si sa, ma pochi al di fuori degli specialisti ne conoscono molti dettagli; perciò è straordinariamente interessante vedere questo ambiente da un punto di vista particolare, come quello di un grande maestro, di un grande pedagogista. Credo infatti che il quadro che traccia Makiguchi rappresenti il suo particolare punto di vista, interessante proprio per questo: perché è autentico.
Ma ho letto il volume L’educazione creativa con grande interesse anche perché l’autore pone una serie di questioni educative e propone alcuni suggerimenti che, possiamo dire, sono quasi universali, certamente attualissimi. Basti pensare al dibattito che oggi ci trova coinvolti: come impostare la nuova scuola e i discorsi pedagogici affinché non siano vuote parole consolatorie e nemmeno discorsi troppo tecnicistici, che chiudono le speranze. Credo che il volume di Makiguchi sia straordinariamente interessante da tale punto di vista e che quindi valga leggerlo con estrema attenzione: cosa che vi invito a fare.
Leggendo questo libro a un certo punto ho pensato: peccato che non l’ho letto molti anni fa perché mi avrebbe aiutato a impostare meglio ciò che in parte avevo intuito. Mi riferisco a una certa vicinanza di sensibilità forse più che a una vicinanza teoretica. Un altro aspetto che mi ha colpito è il suo riferimento all’importanza di occuparsi delle cose di tutti i giorni. A questo proposito vorrei proporvi alcune riflessioni.
Precedente a quella filosofica di scuola fenomenologica, riconosco in me un’altra antica formazione a cui mi sono sempre ispirato, che è stata l’esperienza dello scoutismo.
Forse vi stupirete, ma in realtà vi trovo moltissima somiglianza con Makiguchi, proprio perché Baden Powell, il fondatore dello scoutismo, indicava il fine dell’educazione proprio nella felicità. Egli parlava della capacità della persona di essere felice e faceva consistere la felicità di una persona nella sua capacità di costruire se stessa. Baden Powell diceva: «Guida da solo la tua barca», che significava appunto dare grande peso e forza alla soggettività ma sempre all’interno di un discorso sociale e al limite anche politico.
Trovandomi oggi a Milano non posso fare a meno di ricordare la mia lunga militanza educativa. In questa città, infatti, ho diretto per dieci anni il carcere per minorenni “Beccaria” in tempi molto lontani, dal 1958 al 1968. Esperienza in cui ho cercato in via sperimentale – e se avessi letto questo libro lo avrei fatto anche con maggiore forza e convinzione – di vedere in che modo il bello e la gioia di vivere potessero in qualche modo aiutare quelle persone in difficoltà, persone con una grave sofferenza interiore come erano tutti quei ragazzi. Perché si tratta di ragazzi che in realtà soffrono moltissimo. Con loro ho tentato delle esperienze molto “devianti”, fuori dal normale: ad esempio, li portavo in alta montagna, in uno scenario naturale formidabile, fatto di ghiacciai, di boschi, di passeggiate in alta quota… e mi ricordo benissimo quante volte ragazzini che erano abituati a vivere malissimo si fermavano e mi dicevano: «Direttore! ha visto che bello?». Vi garantisco che quando una persona mi diceva questo a me sembrava di toccare il cielo con un dito, perché erano attimi in cui sembrava di cominciare a fare qualcosa di significativo per loro. Poi naturalmente c’erano tante altre cose che ci costringevano ad allontanarci da posizioni così ottimistiche.
Questo per dire che il pensiero di Makiguchi è sicuramente un pensiero estremamente importante e interessante, che andrebbe riscoperto, come andrebbero riscoperte in maniera nuova le esperienze a cui ho fatto riferimento, perché la pedagogia tende a rincorrere fatti sempre più grandi, troppo grandi.
La pedagogia per un’educazione autentica deve essere qualcosa che si costruisce poco per volta, passo dopo passo, senza l’ansia di raggiungere subito vasti traguardi, ma con grande modestia e grande pazienza. Si scoprono delle cose straordinarie quando, per esempio, si sta con i bambini piccoli o con i ragazzini in modo tranquillo, in modo da non sollecitarli sempre a fare chissà che cosa, avendo quindi l’opportunità di vivere insieme a loro senza pressarli con richieste di prestazioni e con l’ansia di fargli imparare chissà che cosa.
La felicità si può insegnare?
Questa domanda si pone quasi naturalmente leggendo le pagine di Makiguchi che si riferiscono al ruolo centrale che lui assegna alla felicità come finalità ultima dei processi educativi.
Mi sembra una domanda estremamente importante, che qualsiasi educatore dovrebbe porsi. Io non credo però che la felicità si possa insegnare, non credo che si possa parlare di insegnamento della felicità, perlomeno se parliamo di insegnamento in senso tradizionale. Credo piuttosto che si possano invitare gli altri, i nostri educandi, a scoprire l’importanza della felicità per esempio attraverso la testimonianza: e qui preferisco parlare di “testimonianza” piuttosto che di “esempio”, perché l’esempio può essere molto rischioso, mentre la testimonianza è dire «io faccio così e sono riuscito ad avere un po’ di felicità perché ho fatto queste cose, perché ho agito in questo modo, perché ho reagito in questa maniera». Credo quindi che la felicità sia qualcosa, come un sottofondo, che deve caratterizzare il rapporto educativo ma che non deve e non può trasformarsi in un insegnamento in senso specifico. Un autentico educatore è un ottimista. È la sua fiducia negli altri e nella vita ciò che soprattutto trasmette ai ragazzi, al di là degli obiettivi cognitivi che, nella prassi scolastica, quotidianamente si pone.
Anzi direi di più: un autentico educatore non può che essere ottimista, anche se naturalmente non intendo un ottimismo vago, puramente emotivo, sentimentale. Agli insegnanti, agli educatori dico sempre: «Se non siete ottimisti cambiate mestiere!» perché l’ottimismo vuol dire avere fiducia negli altri e in particolare avere fiducia nel bambino, nel ragazzo. Se un educatore è ottimista è portato ad aiutare il bambino a essere anche lui ottimista, cioè a essere orientato verso un modo di vivere che lo veda attivo, consapevole di poter intervenire nella realtà per trasformarla, per trasformarla in qualcosa di migliore.
La forza della compassione
Tale universalismo etico è basato sull’autorità di coloro che soffrono. Benché questa autorità sia un’autorità “debole”, riguarda la reciprocità e l’intersoggettività dell’etica che diviene espressione del divieto di ridurre l’essere umano a esperimento biotecnico in un processo di omologazione. È anche divieto di permettere che l’essere umano scompaia nei sistemi vuoti di umanità dell’economia, della tecnica e della sua industria dell’informazione e della cultura.
Parlando di “educazione alla felicità”, quindi, intendo rivolgere l’attenzione a una particolare ontologia della profezia che si concretizza e diviene progetto (di felicità, di gioia). Intravedo tale progetto collegato all’educazione alla compassione, intesa come immedesimazione nel dolore altrui.
Educare alla felicità è, quindi, educare alla responsabilità universale rispetto al dolore universale, al dolore nel mondo. In tale senso, educare alla felicità attraverso la compassione significa creare un progetto di mondo nuovo (gioioso) nell’area della globalizzazione.
Il peccato consiste nel rifiuto di partecipare alla sofferenza dell’altro. Rifiuto che si identifica nel narcisismo latente della creatura inteso come «ripiegamento del cuore su se stesso» ( S. Agostino).
Analizzerò questa problematica prendendo in considerazione tre grandi temi: due caratteristiche dell’era della post-modernità che viviamo, la globalizzazione e la frantumazione, e una loro conseguenza, che è la sofferenza universale.
Globalizzazione e frantumazione
Il tempo e lo spazio che noi abitiamo e che definiamo come “post-modernità” si caratterizza attraverso due realtà tra loro opposte: la globalizzazione e la frantumazione. Ambedue queste realtà dischiudono i grandi temi della universalità e della complessità a riguardo del sé. Come è possibile conciliare i valori universali della dignità e della libertà della persona con il progresso scientifico e tecnologico della modernità? È il tema del rapporto scienza-valori nella società complessa.
La globalizzazione economica, lo sviluppo del Sud del mondo, la governabilità del pianeta, le trasmigrazioni dei popoli, la diffusione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, ecc. sono alcuni dei grandi problemi della post-modernità. Economia, tecnologia, informatica e telematica, nomadismo, rappresentano un universo globalizzante costituito dal convergere di popoli, religioni e culture diverse che abitano uno spazio globale governato dalle stesse leggi economiche, dagli stessi ritmi, dalle stesse regole. Ma a questo spazio globale non corrisponde, purtroppo, una comunità globale. La post-modernità si caratterizza anche per la mancata integrazione degli individui, dei popoli e dei ceti sociali, producendo disagio, malessere e conflitti profondi.
Uno scenario mondiale contrassegnato da profondi e rapidi processi di globalizzazione e di frantumazione, le cui conseguenze presentano l’incognita della imprevedibilità circa l’assetto futuro dell’umanità, non può che presentarsi carico di incertezze e di pericoli per la sopravvivenza pacifica del genere umano su questa Terra. Infatti si possono da subito riscontrare alcuni risultati della globalizzazione e della frantumazione, come la sempre più diffusa assenza di regole e di ordine generata dal progresso esorbitante, e spesso incontrollato, della tecnica a scapito di altri campi delle intenzionalità e dei valori etici della realtà umana. Insieme a questo fenomeno si presenta quello della omologazione, e insieme facilitano stati depressivi e di dipendenza dalle mode correnti. Ma è ben presente anche una eccessiva spinta alla individualità e a egoismi narcisistici che facilitano paure non verificate e coesioni difensive irrazionali. Tutto ciò è fonte di profonda sofferenza, di autentici universi di dolore, come bene hanno messo in luce le scienze antropologiche, soprattutto dopo la scoperta del mondo interno dell’inconscio.
La sofferenza, così come il richiamo alla felicità, è veramente universale ed è contrassegnata dalla fragilità intrinseca della persona nel poterla e nel saperla gestire.
Il progresso della scienza e della tecnologia ha messo a nudo gli aspetti più fragili della persona e ha svelato un’attenzione crescente ai mali dello spirito, ponendo in primo piano le solitudini, gli isolamenti, le varie segregazioni, le sconfitte e gli insuccessi morali, ma anche e soprattutto le carenze nelle relazioni umane; ciò concretizza nelle persone la grande infelicità che è il retaggio e la caratteristica di questa nostra società spesso senza volto e senza anima. Infelicità e scontentezza che si ripropongono come ferite narcisistiche insopportabili ogni volta che una persona si trova a dover vivere l’insuccesso nella aspra competizione e concorrenza alle quali è costretta per sopravvivere. Anche i successi e le soluzioni nel campo economico e politico di mali sociali producono lo scarto di nuovi gruppi umani emarginati e creano nuovi problemi. Strutture senza volto umano, burocratizzate e ingessate in rigide regole formali e incentrate unicamente sulla propria autogenerazione e automantenimento finiscono per svilire le competenze umane e le stesse attività, inducendo senso di oppressione e di rivolta o di stanchezza depressiva nelle persone in servizio. Le stesse attività di pensiero spesso possono produrre infelicità, sia in chi produce cultura, sia in chi la utilizza. Infatti la problematicità accesa nei diversi settori della vita quotidiana dalla ricerca scientifica e tecnologica, ma anche dalle scienze del pensiero e dell’arte, può talvolta sradicare da certezze comode molte persone e lasciarle però indifese di fronte allo scetticismo e al relativismo incombenti e talvolta intrinseci alla stessa cultura appresa. Queste persone vengono sollecitate, più di altre, a porre rimedio alla loro infelicità o abbandonandosi al mondo dell’effimero, oppure rifugiandosi in movimenti che gestiscono alienazioni attraverso la neutralizzazione dei pesi della coscienza e della libertà.L’alternativa della compassione
A questo punto conviene chiederci se mai esiste un pensiero, anche sociale e politico, oltre che morale ed etico, che indichi una strada da percorrere per il sollievo dall’infelicità e dal dolore in alternativa alle strade indicate dai mezzi di comunicazione di massa o dagli spot pubblicitari.
Il teologo Johann Baptist Metz intravede nella compassione una possibile strada da indicare e da percorrere nel senso sopra indicato.
La compassione, intesa nella etimologia del “soffrire insieme”, della compartecipazione alla sofferenza altrui, per il teologo tedesco rappresenta intrinsecamente una via contro la sofferenza universale perché contiene in sé tre scopi fondamentali:
– è ispirazione per una nuova politica di pace tra i popoli
– è fondamento per una nuova politica del riconoscimento (esclusi, oppressi, ecc.)
– rafforza la memoria umanizzata (contro il pragmatismo della libertà moderna e la sua smemoratezza).
Credo di intravedere in questa proposta del teologo di Munster una analogia profonda con il tema della riparazione delle ferite narcisistiche inflitte alla struttura dell’io nel campo della psicologia dinamica. Sono molti e approfonditi oramai gli studi della psicologianel settore della formazione della struttura della mente, della struttura psichica a livello arcaico e del profondo. Personalmente me ne occupo da anni e con grandissimo piacere accolgo la proposta, per me innovativa e interessante, che anche la ricerca in campo teologico prenda in considerazione e sviluppi questa idea relativa alla compassione. La ricerca teologica e quella psicologica del profondo possono lavorare insieme su questo terreno fecondo e carico di prospettive positive, non solo al loro interno ma anche per le scienze che governano la politica, l’amministrazione del bene comune, la società dei servizi…
In campo teologico la compassione può prendere il nome di perdono, empatia, simpatia, carità, solidarietà, ed è già profezia.
In campo psicologico la compassione prende il nome di riparazione ed è anch’essa profezia.
Non è qui il luogo per dilungarmi in un approfondimento delle funzioni della riparazione nel settore psicologico. Il problema di fondo è il seguente: a quali dolori e a quali sofferenze ci si impegna a rispondere con una compassione anche sociale e politica?
Educare alla felicità, in quest’ottica, può significare l’impegno a creare una nuova sensibilità per il dolore altrui, contro l’egoismo narcisistico, proiettati verso una fratellanza universale. Può significare il calarsi nella memoria dell’umanità attraverso l’impegno nel denunciare responsabilità inevase, solidarietà negate, ecc.
I giovani sono in grado di fare tutto ciò, anche in vista della salvaguardia del loro futuro.
Nonostante il grande sviluppo scientifico e tecnologico che caratterizza quest’epoca, vi è una profonda fragilità dell’individuo, un’infelicità diffusa. Se i giovani vogliono creare un futuro di pace devono far crescere la compassione, che è capacità di immedesimarsi nel dolore altrui, andando oltre le differenze. È la compassione che può ispirare una politica di pace tra i popoli.
Educare alla felicità significa educare alla compassione.
La felicità sicuramente non si insegna, ma si vive. La si vive e la si apprende appunto vivendo. Io ho parlato di compassione nell’ottica del com-patire, del patire insieme, della condivisione della sofferenza, e ho parlato di riparazione. In psicologia riparazione significa capacità di sopportazione del conflitto personale rispetto al concedere all’altro di “morire”, ossia di essere diverso da noi, diverso dall’immagine ideale che ci diamo dell’altro per effetto delle nostre proiezioni narcisistiche. Agostino dice che chi insegna alla madre la sua maternità, il sentimento di maternità, è il figlio, quindi sarebbe errato pensare che educare alla felicità sia un educare degli adulti verso i giovani. Primi probabilmente a educarsi alla felicità sono proprio coloro che devono riparare, in termini educativi o terapeutici: imparare a riparare nell’ottica dell’interiorizzazione e della conoscenza della propria capacità di felicità attraverso la capacità di sopportazione del conflitto, nel permettere che l’altro muoia.
Stranamente, il figlio insegna alla madre la propria maternità, e la madre non può riparare il figlio, non può educare il figlio se non permettendo che il figlio muoia. Lo educa attraverso questo atto di amore generoso, forte quindi di felicità, che permette l’instaurarsi di uno spazio psicologico-dialettico dove può esprimersi la diversità. Quindi occorre sfatare l’idea di una felicità che si insegna: la felicità si condivide e si condivide attraverso questo grande sforzo, questa grande capacità di permettere di vivere il conflitto legato alla morte dell’altro, che in pratica si traduce nel concetto espresso da Natoli (p. 23): non è attraverso processi di sazietà che si educa alla felicità, ma attraverso la capacità di sopportazione dei conflitti che instaurano degli spazi dialettici di diversità, dove è permessa la crescita vicendevole e anche la relazione vera.
Il bello delle piccole cose
Il libro di Makiguchi è per più versi straordinario, perché ci sottopone un punto di vista orientale inusuale, per il rapporto con la prassi, con l’azione, che ricorre assai di frequente. Ma trovo provocatoria la domanda: “Educare alla felicità?” (che era il titolo del convegno di Milano durante il quale è stato presentato il libro L’educazione creativa, ndr). Sottolineo che accanto alla dizione c’è un punto interrogativo, perché potremmo anche concludere che è meglio non educare affatto alla felicità. La tentazione, soprattutto oggi quando ci vengono fatte promesse di felicità con degli smile straordinari alle pareti, è dire che occorre forse qualche meditazione in più e qualche attenzione in meno a queste promesse di felicità ammannite ovunque; ci vorrebbe semmai una cauta criticità.
Ma la provocazione di questo libro giunge soprattutto nel richiamo forte a questioni di valore, che non coincidono con l’immagine più comune che il neofita ha della cultura buddista.
Educare alla felicità? È giusto che sia posto con questa accezione interrogativa perché talvolta credo che si debba rinunciare alla felicità immediata per perseguire vie più modeste, più silenti. Di questi tempi, potremmo accontentarci di educare almeno a un po’ di gioia, educare ad almeno un po’ di serenità, sperimentando la vita, sperimentando i momenti drammatici dell’esistenza, dimenticandoci dell’esistenza della felicità come la intende anche Makiguchi.
L’estetica cura la sofferenza
Un dubbio che mi resta è se sia giusto muovere verso un’educazione alla felicità o non piuttosto agire ponendo problemi, impensierendo, prestando una maggiore attenzione alle menti con le quali noi lavoriamo. Per questo volevo soffermarmi su un aspetto che forse è stato un po’ sottaciuto fino ad ora. Verso la metà di questo libro si parla di valore estetico. Quindi la via della felicità passa anche attraverso la bellezza, attraverso quell’attenzione per un bello che diventa anche, secondo un’antica tradizione greca, possibilità di bene. Procediamo verso una concezione estetica che mette al centro, dice l’autore, dei necessari oggetti estetici, quelli della nostra quotidianità e del nostro essere anche più minuscolo, più legato agli eventi meno importanti e autorevoli. Mi riferisco a un passo interessante dove, recuperando ancora una concezione molto occidentale, viene messa in luce la dimensione drammatica come fonte di bellezza, la drammaticità e la tensione come possibilità di bellezza e quindi di felicità: «Anche se non c’è precisa coscienza del piacere sensoriale, il valore estetico rappresenta comunque un sollievo dalla sofferenza. Distraendosi, sostituendo la gioia alla tristezza, le persone alleviano le fatiche della vita quotidiana» (p. 72). Ecco, questo è il Makiguchi che mi è piaciuto di più, perché non solo si avvicina allo stereotipo del Buddismo che io ho, da assoluto principiante o iniziando, ma anche perché mi ha consentito di ritrovare nella mia libreria un altro “trasgressore” che visse nello stesso periodo di Makiguchi: Junichiro Tanizaki, con il suo straordinario Libro d’ombra.
Tanizaki nasce nel 1886 e muore nel 1965; si imbatte nella censura spietata, la stessa che conosce anche Makiguchi, in quanto autore per più versi ritenuto amorale. Ad esempio nel suo primo romanzo, che risale al 1910, si invaghisce perdutamente dei piedi candidi di una fanciulla, e tutto questo viene ovviamente stigmatizzato. Nel 1943, l’anno in cui Makiguchi finì in carcere per morirvi l’anno successivo, Tanizaki viene estromesso dal mondo letterario.
Perché porto questo riferimento? Perché con Tanizaki troviamo una versione di quella estetizzazione che io non ritengo un danno della nostra vita, della nostra vita privata, delle nostre storie, delle nostre vicende umane fatte di quotidianità; perché mette in luce, contro l’esuberanza dello spirito della luce – che è tipicamente occidentale – il movimento della penombra, delle sfumature, delle delicatezze. Tanizaki scrive per esempio un passaggio molto bello in questo Libro d’ombra, laddove ci ricorda che i Budda venivano e vengono tuttora ricoperti di lamine dorate perché è nell’ombra del tempio che noi possiamo cogliere queste luci fioche al bagliore delle candele.
Il libro mi ha aiutato a entrare anche in un altro frammento del pensiero di Makiguchi. Nel libro La vita mistero prezioso di Daisaku Ikeda viene riportato un brano tratto da Geography of Human Life, dove compare un Makiguchi inedito, che parla di montagne, di «piante che risvegliano il sentimento estetico che è in noi, addolciscono – speriamo – le nostre tendenze criminali, ci inducono alla poesia e in tal modo educano i nostri cuori e le nostre menti» (p. 36). Riporto un solo brano per mostrare quanto questo lavoro sia interessante letto parallelamente al testo di cui stiamo parlando. Il brano è dedicato alla luce: «Sebbene niente io sappia di architettura mi azzarderò a sostenere che la bellezza delle grandi cattedrali occidentali è legata allo slancio dei tetti che sembrano trafiggere il cielo con pinnacoli acuminati, all’opposto nei templi buddisti del nostro paese, nere tegole riparano l’intero edificio che sembra abbia scelto di accucciarsi sotto la loro ombra densa e protettiva. L’imposizione dei nostri tetti è simile all’apertura di un parasole: marca sul terreno un perimetro d’ombra di cui riserviamo il dominio, là aggiusteremo poi la nostra casa».
È il mondo dell’intimità, il mondo delle penombre, che non ritengo debba costituire motivo di senso di colpa, perché qui vedo invece, in una accezione tra l’altro profondamente fenomenologica, un bisogno di cimentarci oggi con le grandi sfide che l’autore giapponese ci ripropone,ma anche con una pedagogia delle piccole cose, con la pedagogia dei momenti più interiori e intimi. La pedagogia deve insegnare i grandi motivi ideali di Makiguchi attraverso l’osservazione, la tolleranza, l’avvicinamento al mondo con mitezza, la fragilità, attraverso lo sviluppo di riflessioni lunghe e pazienti che contrastano invece con una pedagogia, oggi esorbitante, fatta di oggetti che continuamente sfuggono, di oggetti che vengono sezionati, classificati, sminuzzati e poi trasformati in testi di apprendimento per i ragazzi.
Ecco quindi che recuperare il punto di vista fenomenologico – e Makiguchi mi sembra senz’altro vicino a questa scuola – significa intraprendere vie di prudenza, di scetticismo, di ironia, di memoria, queste nostre piccole cose che non sono il famoso salotto di Donna Felicita di gozzaniana memoria, ma che costituiscono oggi un tessuto dal quale ripartire, ricostruire i momenti dell’educazione, e non soltanto nelle aule sempre più spoglie, un tessuto da avvicinare con modalità di osservazione diversa, guidando i giovani, ma anche, soprattutto, spingendoci in profondità a scoprire che non c’è possibilità di educazione alla felicità se questa non passa attraverso la via della riscoperta, dell’elaborazione faticosa, pesante, atroce anche, del dolore e della sofferenza.
Ecco, credo che tutto questo noi dobbiamo insegnarlo. Che poi il risultato sia almeno un po’ di gioia, un po’ di serenità, penso possa bastarci.
Per attraversare la vita
Credo comunque che sia bene evitare che si enfatizzi un possibile itinerario, magari un curriculum di insegnamenti della felicità, perché questo verrebbe immediatamente raccolto da chi promette felicità a tutto spiano. D’altro canto, può darsi che il prossimo Ministro dell’Istruzione diffonda dei test per verificare se il bambino è felice se beve Coca Cola, se mangia hamburger, se picchia il proprio compagno per primeggiare. Quindi bisogna essere molto cauti e prudenti in questo momento.
Non credo che si possa insegnare la felicità ma credo che si possa insegnare a chi insegna, a chi educa, ad attraversare la vita. Noi non stiamo insegnando più ad attraversare la vita. Attraversare la vita significa attraversare la memoria, attraversare quanto costituisce fonte di dolore e di sofferenza, e attingere agli effetti di quel po’ di serenità che possiamo raggiungere attraverso la vita; significa insegnare l’arte della coscienza e insegnare – arte che non tramonta mai – a filosofare.
Come ha scritto Epicuro all’inizio della Lettera a Meneceo: «Non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per occuparsi della salute dell’anima. Devono invece fare filosofia sia i giovani che i vecchi; i primi perché siano allo stesso tempo giovani e maturi nell’affrontare il futuro, i secondi perché invecchiando si mantengano giovani nel piacevole ricordo del passato». Non so se questa è felicità, ma certamente può convincerci!
Imparare a creare
Se aveste chiesto a un greco del V-VI secolo a.C. o anche più avanti, fino al II, cosa vuol dire pedagogia… non avrebbe saputo rispondere: non esisteva neanche la parola. Esisteva però paideia. E la paideia non era una disciplina: era il realizzarsi completo della vita, della vita dei singoli, della vita della polis. La paideia era personale ed era, fondamentalmente, politica, era compito della città. Quindi la paideia come capacità di realizzare il bene, o di produrre valore nei termini di Makiguchi, era la stessa cosa. La società doveva trarre da sé e dai suoi membri tutte le potenzialità esistenti in essi. Era quindi presente la dimensione del collettivo, la dimensione olistica. Tutti temi che noi troviamo nel libro di Tsunesaburo Makiguchi che, come è stato detto, è una cronaca, un testo di appunti, una raccolta di pensieri, la registrazione di una pratica, di una condotta, di un’esperienza. Difatti l’autore è stato soprattutto un maestro e quindi ha trasmesso nello scritto quello che andava facendo. Per questo il libro ha la vitalità di un’esperienza, e non è proprio un libro di un autore che pensa astrattamente e separatamente dalla sua prassi.
L’educazione è vista come un’impresa generale, che la società deve produrre nel suo complesso, e questo è stato particolarmente significativo al tempo di Makiguchi, di fronte a un sistema politico che voleva esso stesso forgiare la società. Questo è un aspetto importante: a quell’epoca in Giappone il sistema formativo non era un sistema privato. Era verticale ma potente, pubblico, noi diremmo di educazione nazionale. C’era un elemento collettivo. Era una formazione collettiva, politica, ma imposta. Vigevano sistemi pedagogici di indottrinamento, coattivi, dove in sostanza veniva meno la soggettività. Perciò questo libro si colloca in una dimensione molto particolare: è orientale, ma allo stesso tempo non lo è. Direi che John Dewey, nella formazione di Makiguchi, è più importante di Budda. Non a caso il nostro autore scopre il Buddismo dopo i cinquant’anni, ma il suo vero background è la tradizione politico-individuale e sociale occidentale. La crescita dell’individuo è la crescita della comunità. La società deve concorrere allo sviluppo della soggettività.
Questa posizione coincide con la libertà dei moderni, che è eversiva rispetto a un sistema di rivoluzione dall’alto che tutto aveva presente tranne la libertà delle soggettività, e che al contrario intendeva piegare le soggettività agli interessi di un patriottismo fondamentalmente guidato dall’alto. Una cosa che, per altro verso, è piuttosto ricorrente nelle politiche totalitarie occidentali. Non a caso Dewey e la tradizione di soggettivismo libertario sono stati nell’occidente fortemente antitetici rispetto alle situazioni di indottrinamento che veniva dall’alto.
Felicità e realizzazione di sé
Ma torniamo al nostro autore.
La felicità, che cos’è? La felicità è la capacità di “produrre valore”, dice Makiguchi. In termini più antichi la felicità coincide con la realizzazione di sé, che è la perfectio boni di cui parlava la tradizione medievale. Bonum est diffusivum sui, il bene tende a diffondersi, tende a espandersi, tende a crescere. E questo è più che mai vero nell’individuo: l’essere umano si realizza, ma anche tutti gli altri enti naturali, allo stesso modo in cui un albero fiorisce. Cos’è la fioritura di un albero se non la realizzazione di sé, la fecondità? Fecondità ha una radice indoeuropea, fe, da cui viene fuori femina, in quanto generante, ferax, della terra carica di frutta, che i latini chiamavano anche felix – la terra ubertosa è una terra felix; da cui deriva filius, in quanto allattato, da cui deriva fecunditas.
Quindi la felicità è la realizzazione, caratterizzata molto dall’espansione dell’abbondanza. Da questo punto di vista direi che Makiguchi ha ragione quando parla di una felicità intesa come autovalorizzazione dei soggetti: la pedagogia deve sviluppare nei ragazzi, e in generale in coloro che educa, la dimensione creativa. Questo approccio – che appartiene a tutte le tradizioni di scuola attiva che scaturiscono dalla tradizione di Dewey – è estremamente soggettivista: al centro c’è il soggetto, c’è il bambino, il ragazzo, l’individuo, il quale non deve apprendere qualcosa, ma deve apprendere a creare, e quindi non deve essere riempito, ma deve essere sollecitato. Deve essere reso protagonista. Oggi comunemente si dice una cosa molto antica: che la vera pedagogia non deve insegnare qualcosa, ma deve insegnare ad apprendere, deve fornire abilità. Evidentemente, qui fornire abilità vuol dire non insegnare metodi ma insegnare a fare qualche cosa, mentre con il metodo non si impara niente. Bisogna imparare a fare qualcosa, piccola, e cominciando a fare le cose poi si impara a fare, come era tipico nel grande artigianato rinascimentale, quando si andava “a bottega”. Raffaello andava da Correggio, che non gli insegnava il metodo della pittura ma gli diceva «prendi il pennello e dipingi, tira fuori».
Dunque l’elemento fondamentale è insegnare tecniche non al fine di far apprendere una tecnica ma perché attraverso la tecnica il soggetto diventi realizzativo. C’è un antico frammento di Anassagora che nel V secolo a. C. dice chegli esseri umani sono animali intelligenti perché hanno le mani. La posizione di Makiguchi è proprio questa: la felicità è realizzare. Qui c’è un altro tema su cui il libro è ricco di suggerimenti. Cosa vuol dire felicità del realizzare? La felicità del realizzare non è una felicità meramente fruitiva, come quella di chi è felice perché mangia dolci. Alla fine gli viene l’indigestione. È una felicità attiva, cioè legata al dolore della creazione. Immagine esemplare di questa felicità è il parto: perché una felicità in cui il soggetto crea esige il travaglio. La felicità come soddisfazione non è felicità ma seduzione, è impoverimento, eccesso di cura e non cura del soggetto, un eccesso di custodia dove il soggetto non diventa mai attivo, non diventa mai protagonista, non rischia, non si spende perché è sempre protetto e aiutato. Invece la gioia della creazione esige il dolore dello sforzo. Sembrerebbe Nietzsche in certi passaggi. La gioia della creazione: questa è la felicità.
Nella società e nella storia
In genere le passioni sono indefinibili, tutte però sono descrivibili; anche se la descrizione, come insegna la filologia, esige l’affresco, il dettaglio. Vorrei aggiungere un’ultima annotazione: se come ho indicato prima la felicità è un movimento di realizzazione di sé, la realizzazione di sé non può avvenire se non nella comunità, nel collettivo.
Crescere abolendo il mondo, divorandolo, vuol dire far crescere il deserto, come per la lupa dantesca. Invece la felicità si realizza fondamentalmente nella corrispondenza: i tedeschi hanno una parola per esprimere questo, stimmung, l’intonazione. L’iconografia della felicità è il locus amenus, con gli animali, le fiere, gli alberi… cioè la corrispondenza tra gli elementi.
Nel movimento verso l’interiorità si lavora sul soggetto perché il soggetto si perda, cioè si senta parte di un contesto allargato, per lo stesso motivo per cui la ricchezza non sta nel possesso ma nel dono, perché chi possiede vuole sempre più possedere e quindi si sente povero. L’esito del possesso è la psicologia dell’avarizia; invece chi dà, anche se ha poco, si arricchisce. Da questo punto di vista la felicità non è insegnabile come un contenuto.
La felicità si associa alle condotte, ai comportamenti, ma anche alle idee, perché non bisogna mai separare gli esseri umani e le loro vite dalle epoche storiche: non esiste una felicità assoluta ma si è felici nel tempo in cui si è collocati, con il sistema delle credenze e delle relazioni che caratterizza quel tempo. Intendo dire che un lavoro sulla felicità esige un’analisi molto più accurata e molto più attenta di quanto non si faccia nel luogo comune dei venditori di sazietà. La sazietà non è la felicità.
Educazione e spiritualità
Ritengo fondamentale che l’educazione venga di nuovo finalizzata al suo obiettivo principale, la felicità degli studenti. […] Anche se le scuole dovrebbero essere luoghi ideali in cui vivere e imparare con gioia, ultimamente in Giappone sono aumentati episodi di prepotenza e altre forme di violenza fisica e psicologica. […] Condizioni aberranti sono diventate la norma. I bambini sono il microcosmo dei tempi e come tali rispecchiano il futuro della società. Fino a quando questi specchi resteranno appannati e oscurati, non vedremo per loro un futuro di speranza.
Mentre il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito alcune misure per rimediare alla situazione, ritengo della massima urgenza stabilire un’etica di assoluta intolleranza di fronte alla violenza, non solo nelle scuole ma in tutta la società.Porre fine alla violenza
L’educatore giapponese Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), primo presidente della Soka Gakkai, lamentava la condizione educativa dei ragazzi della sua epoca, fortemente influenzata dalla marcia verso l’espansione imperiale. Makiguchi nutriva il profondo desiderio di risolvere i problemi che facevano soffrire dieci milioni di bambini e ragazzi, sottoposti alle pressioni di una società in subbuglio, ed era determinato a far sì che il peso di questi problemi non gravasse sulla generazione successiva. Da questa intenzione è nata la sua opera principale sull’educazione, Soka kyoikugaku taikei (Il sistema della pedagogia creatrice di valore), pubblicata oltre settanta anni fa, nel 1930. Al centro della sua formulazione di soka, o “creazione di valore”, vi è il principio che l’educazione dovrebbe dare a tutti i bambini l’opportunità di sviluppare senza limiti la loro potenzialità e di vivere vite appagate e non perturbate dalle influenze distruttive della società. Questo principio continua a essere ancor oggi la forza trainante delle scuole Soka.
Dobbiamo porre fine alla tragedia della violenza nelle scuole, che induce i ragazzi a distruggere essi stessi i semi preziosi delle loro potenzialità. Quando visito le scuole Soka a Tokyo e nel Kansai, parlo direttamente con gli studenti, dicendo chiaramente che la prepotenza e la violenza sono sempre sbagliate, e li incoraggio a lavorare insieme per eliminare questi mali sociali.
Naturalmente non dico niente di nuovo. La maggior parte delle persone adulte ha il buon senso di considerare “il rifiuto della violenza” uno dei principi fondamentali della società civilizzata, ma purtroppo, ultimamente, sembra che questa non sia più considerata una norma di comportamento sociale. […]
Se vogliamo porre fine alla violenza nelle scuole abbiamo bisogno soprattutto di coraggio – di quel tipo di coraggio che non ci farà né cedere né rimanere passivi di fronte al male. Quando mostriamo questo tipo di coraggio, la prepotenza e tutte le altre forme di violenza vengono inevitabilmente respinte. […]Avversione al bene, avversione al male
La filosofa e scrittrice religiosa Simone Weil (1909-43) osservò acutamente che per gli scrittori della sua epoca «le parole che contenevano riferimenti al bene e al male» erano state «declassate, specialmente quelle relative al bene» (p. 288). Anche adesso, le parole che indicano il bene – non solo coraggio, ma anche impegno, pazienza, amore e speranza – sono spesso ascoltate con cinismo e indifferenza. Il nostro è un clima sociale nel quale la gente ha forse paura di essere giudicata dagli altri ed esita perfino a pronunciare tali parole. Ma se non affrontiamo con coraggio tale cinismo e tale indifferenza, non saremo capaci di dare risposte forti ed efficaci.
Questo nascosto malessere sociale e spirituale si è diffuso rapidamente negli ultimi anni. Recentemente, durante un noto programma televisivo giapponese, è stata posta la domanda: «Perché è sbagliato uccidere le persone?». […] Questi fatti indicano esattamente dove sta il problema: quando vengono messi in discussione persino i princìpi e le virtù da sempre espressi e sostenuti dalle maggiori religioni del mondo, come la proibizione di togliere la vita a un essere umano, si può facilmente immaginare l’atteggiamento che prevale di fronte a comportamenti coercitivi e violenti come la prepotenza. Dobbiamo renderci conto che il cinismo e l’indifferenza corrodono la società alle radici e sono potenzialmente più pericolosi di qualsiasi atto malvagio individuale.
Due uomini illustri con i quali ho pubblicato una serie di dialoghi, il famoso scrittore russo per bambini Albert A. Likhanov e Norman Cousins, conosciuto come “la coscienza dell’America”, condividono entrambi questo punto di vista. Hanno sostenuto con fermezza che l’indifferenza e il cinismo di fronte al male sono più pericolosi dello stesso male, perché rivelano una mancanza di coinvolgimento passionale verso la vita, un isolamento e un distacco dalla realtà.
Con un’espressione apparentemente paradossale Likhanov ci mostra quale danno può provocare l’apatia nell’animo di una persona giovane: «Non aver paura dei tuoi nemici. Il peggio che possono fare è ucciderti. Non avere paura degli amici. Al massimo potrebbero tradirti. Temi quelli a cui non importa, loro non uccidono e non tradiscono, ma il tradimento e l’assassinio esistono grazie al loro silenzioso consenso».
In altre parole, è fingere di non vedere omicidi o tradimenti che fa proliferare tali mali all’infinito. Allo stesso modo, Cousins fa riferimento alla seguente dichiarazione di Robert Louis Stevenson: «Odio il cinismo molto più di quanto odio il diavolo, ma forse i due non sono che la stessa cosa» (pp. 48-49).
Cousins esprime così la profonda preoccupazione che il disfattismo e la poca fiducia in se stessi, tipici di un atteggiamento pessimista, sminuiscano e distruggano valori come l’idealismo, la speranza e la fiducia.
Uno stato vitale controllato dall’apatia e dal cinismo cresce immune dai sentimenti dell’amore, dell’odio, della sofferenza e della gioia e ripiega in uno sterile mondo di alienazione. L’indifferenza verso il male implica un’indifferenza verso il bene. Porta a uno stato di vita deprimente e a uno spazio semantico estraneo al dramma della lotta tra il bene e il male, caratteristica dell’esistenza umana.
I bambini risentono profondamente dell’apatia e del cinismo dilaganti in un mondo adulto privo di valori. È forse per questa ragione che gli adulti si sentono a disagio quando percepiscono nei cuori dei bambini una strana, e al contempo familiare, oscurità.
Il male, come il bene, è un’innegabile realtà. Senza il male non c’è il bene e senza il bene non c’è il male: entrambi esistono e si definiscono grazie alla loro complementarietà. A seconda della risposta o reazione personale, il male può essere trasformato in bene e il bene in male. In questo senso sono entrambi relativi. Bene e male sono dunque definiti in relazione al proprio opposto o “altro”, e il “sé” è definito da questa dinamica.Il sé in assenza dell’altro
Nel Buddismo troviamo i princìpi dell’“unicità di bene e male” (zen’aku funi) e della “neutralità fondamentale della vita nei riguardi del bene e del male” (zen’aku muki) (Nichiren, The Writings). Ad esempio, al Budda storico Shakyamuni (rappresentante del bene) era necessario un avversario, il male, l’“altro”, per ottenere l’Illuminazione e quindi realizzare lo scopo della sua vita. Questi fu suo cugino Devadatta, che cercò prima di sminuirlo e poi di distruggerlo. Non riconoscere e non riconciliare se stessi con un “altro” opposto è il difetto di base di un approccio apatico e cinico alla vita, nel quale esiste solo il sé isolato.
Nella totalità della psiche legata indissolubilmente all’altro si trova un senso più vero e più pieno del sé. Carl Jung (1875-1961) fece una distinzione tra l’ego, che conosce solo il contenuto esterno della psiche, e il sé, che ne conosce anche il contenuto interiore e unifica la razionalità con l’inconscio. Nel mondo dell’apatia e del cinismo troviamo solo un sé isolato che vaga per le superfici della mente conscia – quello a cui Jung si riferisce come ego.
Il sé che non si identifica con l’altro è insensibile al dolore, all’angoscia e alla sofferenza dell’altro. Tende a confinare se stesso nel suo mondo, percependo una minaccia alla minima provocazione ed esplodendo di conseguenza in un comportamento violento, oppure voltandosi dall’altra parte con distacco.
Vorrei azzardare col dire che questa mentalità nel ventesimo secolo ha fornito il terreno al germogliare di ideologie come il fascismo e il bolscevismo.
Più recentemente abbiamo assistito alla nascita della realtà virtuale, che credo possa oscurare l’altro ancora di più. Messo in chiaro questo aspetto, è ovvio che nessuno di noi può starsene in disparte a guardare e pensare che il comportamento problematico dei ragazzi (nei confronti della realtà virtuale) sia responsabilità di qualcun altro.
Nel corso di una nostra discussione, lo studioso per la pace Johan Galtung ha sostenuto che il requisito per avere un “dialogo all’esterno” è il “dialogo interiore”. Se il concetto dell’altro è assente dal sé, non può esservi un vero dialogo.
Un colloquio tra due individui a entrambi i quali manca il senso dell’altro potrebbe apparire un dialogo, ma in realtà è un semplice scambio di dichiarazioni unilaterali. Viene a mancare inevitabilmente la comunicazione. La cosa più dolorosa in questo tipo di spazio semantico – loquace e vuoto allo stesso tempo – è che le parole perdono la loro risonanza e sono alla fine soffocate e senza significato. La morte delle parole significa naturalmente la morte di un aspetto essenziale della nostra umanità – la capacità di linguaggio che ci ha fatto meritare l’appellativo di homo loquens.
La realtà può essere rivelata solo attraverso un dialogo genuino, dove il sé e l’altro trascendono gli stretti limiti dell’ego e interagiscono pienamente. Questo senso globale della realtà esprime una spiritualità umana ricca di vitalità e di immedesimazione.
In un discorso che ho tenuto all’Università di Harvard nel 1991, ho dichiarato che i tempi richiedono l’etica del “potere morbido”, la cui essenza è costituita da una spiritualità motivata interiormente, che deriva dall’introspezione e si manifesta quando l’anima lotta attraverso fasi di sofferenza, conflitto, ambivalenza, riflessione matura e infine risolutezza.
L’anima si rivela soltanto quando arde un intenso scambio tra le persone, come dentro una fucina; è attraverso il dialogo interiore e il dialogo tra il sé e l’altro che il nostro essere si tempra e si raffina. Solo allora possiamo cominciare ad afferrare e manifestare pienamente il fatto di essere vivi, esprimendo una spiritualità universale che abbraccia l’intera specie umana.
Il mondo interiore dell’anima e il sentimeno religioso
Credo che l’eredità spirituale dell’umanità possa essere rintracciata nelle grandi opere della letteratura, che potrebbero essere considerate la quintessenza del sé interiore.
Qui, vorrei riferirmi a Memorie da una casa di morti, un’opera che viene considerata una svolta fondamentale nel pensiero di Fyodor Dostoyevsky.
Il giovane Dostoyevsky era stato condannato a quattro anni di lavori forzati nel freddo pungente della Siberia, come punizione per aver sostenuto presunte idee rivoluzionarie. Nell’opera in questione lo scrittore russo documenta in modo incomparabile le virtù umane che aveva scoperto attraverso la sua terribile esperienza. «La gente comune […] non accusa mai il criminale del crimine che ha commesso, qualunque esso sia. Lo perdona, in considerazione della sentenza a lui data. Si sa bene che la gente comune di tutta la Russia considera il crimine una sfortuna e il criminale uno sfortunato. Queste definizioni sono significative e profonde, pur se istintive e inconsce» (pp. 55-56).
[…] Considerare il crimine una sfortuna e il criminale uno sfortunato riflette un’ampiezza di percezione che è inclusiva dell’altro. Non viene fatta una distinzione tra sé e il criminale: queste espressioni emanano un senso di connessione e immedesimazione. Quando nel mezzo delle avversità rimane forte il senso di immedesimazione nell’altro c’è un fluire rigoglioso della comunicazione. Al contrario, la perdita del senso di connessione tra gli individui indica la rottura della comunicazione nella società. […]
L’arroganza incurante, che sta alla radice di tutti i mali ideologici, presuppone che il sé sia il bene e l’altro il male. Invece il tipo di atteggiamento descritto da Dostoyevsky permette di vedere come una persona, spinta dalle circostanze verso il male, possa anche essere indirizzata verso il bene. Da questa visione scaturisce l’«impulso interiore alla compassione» (p. 7) che Jean Jacques Rousseau considera la base primordiale della società.
Questa compassione naturale è strettamente in risonanza con il concetto della Via del Bodhisattva del Buddismo mahayana, che potrebbe essere riassunto simbolicamente dalle parole del bodhisattva Vimalakirti: «Poiché tutti gli esseri viventi sono malati, anch’io sono malato» (p. 65), o dall’esempio di Gesù di Nazareth, che concentrava più amore e compassione per la “pecorella smarrita” che per tutti gli altri.
Il tema ricorrente nelle opere successive di Dostoyevsky è la difesa della giustizia di Dio nel creare un mondo dove esistono sia il bene che il male. Tema centrale delle considerazioni di Rousseau sull’educazione è il sentimento religioso indipendente e non limitato dai dogmi e dall’autorità della Chiesa. Sulla base dei sentimenti universali di immedesimazione nell’altro e della spiritualità sembrerebbe in qualche modo svilupparsi un sentimento religioso innato negli esseri umani.
Nel ventesimo secolo, teatro di guerre e distruzione, dalla lotta nonviolenta del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King Jr. emana lo splendore della spiritualità. Gandhi sosteneva che la religione «fornisce una base morale a tutte le altre attività, che altrimenti non la possiederebbero» (p. 63). Ci si potrebbe chiedere come abbiano fatto le loro lotte a diventare movimenti di massa e come mai tanta gente oggi abbracci la nonviolenza. Credo che la risposta risieda in ciò che sta dietro alle parole e alle azioni di questi leader. Ognuno di loro si basava su una forte convinzione religiosa, che gli ha permesso di rimanere impassibile davanti a qualsiasi avversità. […]
Coltivare il sentimento religioso
[…] Il ruolo della religione è inseparabile dall’individuo e dal suo ambiente: la religione deve consentire agli individui di raggiungere i propri scopi personali e allo stesso tempo di contribuire in modo positivo alla società. Se questi due cammini intrecciati divergono, il sentimento religioso si riduce a settarismo, la religione degenera in qualcosa di non umanistico e di antisociale. Qualsiasi movimento religioso che considera il suo ruolo e la sua missione separati dalla società compie, a mio parere, un grave errore. C’è una netta distinzione tra il sentimento religioso di ampio respiro da me qui descritto e l’ottuso settarismo.
Qualsiasi sentimento religioso che non permette agli individui di creare valore o di compiere azioni costruttive nella vita personale e nella società è insidioso e non merita affatto di essere chiamato religioso. Varie forze nel mondo – autoritarismo, soldi, forza bruta – cercano di violare la dignità umana. Il ruolo della Soka Gakkai nella società consiste nel lottare contro queste forze impiegando lo spirito che scaturisce dal profondo della vita (Una pace duratura, p. 218).
Quando nel 1995 la zona di Kobe in Giappone è stata colpita da un devastante terremoto, i membri della Soka Gakkai che abitavano nella regione hanno contribuito in maniera significativa alle operazioni di soccorso, fornendo immediatamente assistenza volontaria alla popolazione colpita. I centri locali della Soka Gakkai hanno funzionato come ricoveri d’emergenza e sono stati offerti cibi caldi. Queste azioni sono state profondamente apprezzate.
Nel settembre 2000 i membri della Soka Gakkai hanno partecipato alle attività di soccorso nelle regioni della costa orientale del Giappone colpite da un’alluvione. Credo che questa condivisione di gioie e sofferenze sia un’espressione naturale di spiritualità e sentimento religioso.
Una sfida fondamentale per le religioni tradizionali, che rappresenta oltretutto una prova della loro capacità di contribuire alla civiltà del ventunesimo secolo, sarà di superare il settarismo, e far sì che la spiritualità e il sentimento religioso diventino patrimonio dell’umanità intera. […]
La costruzione del carattere attraverso la lettura
Credo che il mezzo principale per far fiorire la vita interiore dei bambini sia il contatto con l’arte e la letteratura che avviene attraverso la lettura.
Il primo passo per rinnovare il dialogo, laddove si siano interrotti i legami umani e la comunicazione, è quello di rivitalizzare e infondere di spiritualità le parole che si scrivono e che si dicono. Avvicinarsi ai capolavori della letteratura è il mezzo ideale per raggiungere questo obiettivo, un’attività che non dovrebbe limitarsi alla scuola. Immergersi nel mondo della grande letteratura in giovane età è un’esperienza di valore inestimabile che ho vissuto personalmente, e rappresenta un bene duraturo. […]
In un certo senso, la lettura presenta la somma delle esperienze di vita dell’autore. In Nagai saka (Il lungo pendio), il noto romanziere Shugoro Yamamoto osserva: «La vita è lunga. La destinazione è la stessa sia raggiungendo la cima della montagna con un solo salto sia arrivandoci con costanza passo dopo passo. Invece di compiere il viaggio con un salto solo, scalando la montagna lentamente si ha l’opportunità di ammirare il panorama lungo la via, gli alberi, le piante, le sorgenti. Inoltre, nel compiere con cura e attenzione ogni passo, aumenta la fiducia in se stessi. Tutto ciò diventa fonte di grande forza».
Le sue parole profonde e di grande immaginazione possono essere applicate tranquillamente all’esperienza della lettura. La lettura dei classici è una sfida. Anche quando i testi non sono lunghi, afferrare il loro significato non è così facile come lo è, diciamo, nel caso dei fumetti. Può darsi che un passaggio complesso debba essere letto due o tre volte prima di percepirne il senso. Alcuni concetti possono sfuggire a una comprensione immediata, ma vengono invece afferrati dopo un po’ di tempo.
Questi sforzi sono molto simili a quelli dello scalatore che controlla con attenzione dove appoggia i piedi e, attento a ciò che lo circonda, si avvicina alla cima.
Leggere i riassunti delle grandi opere non rende loro onore. Solo dopo esserci sforzati fino in fondo per afferrare il pieno significato di un libro, questo diventa parte di noi. Leggere da soli seduti al proprio banco ha i suoi meriti, ma il piacere della lettura aumenta quando viene fatta assieme a compagni e insegnanti. È rafforzata dallo scambio di idee, specialmente se si considera la lettura un’abitudine della vita. Gli anni della mia adolescenza, trascorsi tra le macerie del dopoguerra, sono stati arricchiti immensamente dalle letture che facevo assieme ad altri giovani in un circolo del mio quartiere. Anche le letture fatte con il mio maestro Josei Toda sono dei preziosi ricordi, incisi per sempre nella mia vita.
Il mio maestro non si stancava mai di incoraggiarci ad essere dei lettori attivi e non passivi, e di sforzarci di assorbire i libri senza esserne sopraffatti. Era il mio maestro di vita e mi insegnò, attraversoil suo atteggiamento e le sue parole, che il modo in cui ci rapportiamo ai libri è il modo in cui ci rapportiamo alle persone: imbattersi in un buon libro è come incontrare un bravo maestro o un buon amico.
I pericoli della realtà virtuale
Ho una seconda ragione per insistere sull’importanza della lettura. Leggere può proteggere la vita interiore dalle influenze negative di quella che viene chiamata realtà virtuale, che distorce e simula esperienze della vita reale, nella quale invece la gente condivide emozioni vere attraverso il contatto diretto con gli altri e con la natura.
I forti stimoli prodotti dalla realtà virtuale possono far ristagnare l’immaginazione e addormentare le capacità di provare compassione e sofferenza.
Condizionati dalla realtà virtuale, gli individui diventano dei semplici recettori passivi di immagini programmate, mentre il pensiero critico, la facoltà di prendere decisioni, di amare e di immedesimarsi con gli altri – tutte caratteristiche di una spiritualità motivata interiormente – tendono ad atrofizzarsi.
Il filosofo scienziato Albert Jacquard ha fatto la seguente osservazione: «La scienza dell’informazione ha un suo valore fino a quando porta notizie. Tuttavia, fornisce solo informazione inscatolata o surgelata. Non è capace di tirare fuori la creatività, che invece si esprime naturalmente nel corso di un dialogo fatto di parole e di silenzi». (Piccola filosofia, p. 18). Una descrizione della comunicazione disumanizzata davvero appropriata.
La lettura invece ispira l’anima come una brezza ristoratrice. Leggere non è altro che un tenace, intimo dialogo tra l’autore e il lettore. Questa è la ragione per cui definisco il mondo della lettura come una somma di esperienze di vita.
La lettura offre, sia ai giovani che agli adulti, l’opportunità di staccarsi dalla routine della vita quotidiana e riflettere sul passato e sul futuro. Che sia un libro già letto in precedenza o uno in cui ci si è immersi per la prima volta, sentiamo qualcosa di genuino, come se ogni singola fibra del nostro essere ne percepisce il contenuto. Solo facendo questa esperienza direttamente possiamo trasmetterne il valore ai ragazzi. La verità arriva all’ascoltatore non attraverso parole vuote ma tramite la ricchezza e la profondità del carattere.
Oltre a tutto ciò, l’esperienza della lettura nutre la spontanea curiosità dei bambini. Li incoraggia a riflettere e sviluppa la loro capacità a ricercare soluzioni autonome.
La trasformazione spirituale di Tolstoj
Il mondo della letteratura è ricco di domande, riflessioni e sorprese.
Prendiamo una scena dall’ultimo capitolo di Anna Karenina di Leone Tolstoy, dove il protagonista Levin si chiede: «Chi sono? Dove sono? Perché sono?» (p. 403).
Levin, che si dice impersoni lo stesso Tolstoy, sta cercando la ragione della sua esistenza quando incontra, per caso, un contadino, le cui parole lo trasformano profondamente: «Che volete? Sono due uomini diversi. Uno vive solo per il suo ventre, laddove Focanitc è un vecchio giusto, che vive per la sua anima e teme Dio» (p. 404).
Tolstoj cattura acutamente questa trasformazione, l’apertura di nuovi orizzonti e il fluire di emozioni di Levin. «Vivere per l’anima». Queste semplici parole, dette di getto da un contadino, penetrano nel suo cuore. Camminando lungo la strada, Levin continua il suo soliloquio mentre assapora una nuova sensazione.
«Sentiva nell’anima alcunché di nuovo e l’esaminava con piacere, pur non sapendo ancora cosa fosse» (p. 405).
Sentendosi finalmente soddisfatto di aver trovato la risposta, Levin andò nel bosco e si sdraiò sull’erba. Pensava tra sé:
«Che ho scoperto? Nulla: ho appreso soltanto quel che già conoscevo. Ho compreso quella forza che non sta solo nel passato e che m’ha dato la vita; mi sono liberato dall’inganno e ho riconosciuto il padrone» (p. 407).
Nelle opere di Tolstoy appaiono frequentemente immagini di trasformazioni dall’oscurità alla luce: il punto di partenza è una domanda, che porta al contatto profondo e ispirato di due anime per poi arrivare, attraverso l’introspezione, alla scoperta e alla formazione di un nuovo sé.
In virtù della sua rinnovata spiritualità, Levin comprende la dura e cruda realtà della guerra: esseri umani che si ammazzano tra loro. L’emergente verità trapela nella domanda: «[Il popolo è pronto] non solo a sacrificarsi, ma anche ad uccidere i turchi? Il popolo fa sacrifizi per la sua anima, non per l’omicidio» (p. 421). Questa osservazione mette in dubbio la legittimità del fervore nazionalistico che aveva fatto del sacrificio di sé una nobile impresa durante la guerra con i serbi.
L’eterno comandamento “non uccidere” acquista nuovo significato ed è permeato di un senso di immediatezza, quando invocato da un individuo come Levin che ha vissuto un forte tormento spirituale.
Per me il momento culminante della storia è la scena finale, dove Levin rivela i suoi dubbi: «Se la prova principale della divinità risiede nella rivelazione di quello che è il bene, perché mai, allora, questa rivelazione si limita alla sola chiesa cristiana? Che rapporto ha questa rivelazione con le credenze dei buddisti e dei maomettani, che professano la loro fede e fanno pure il bene?» (p. 426).
«Ebbene, e gli ebrei? E i maomettani, e i confuciani e i buddisti? Che cosa sono? Forse che queste centinaia di milioni di uomini sono privati di quella suprema felicità, senza la quale la vita non ha significato?» (p. 428).
Considero Anna Karenina ineguagliabile nel ritrarre la spiritualità e il sentimento religioso che risiedono in ogni animo umano.
L’arricchimento attraverso le lettura
[…] Alcuni dicono che ci siamo allontanati dai libri. Condivido questa preoccupazione ed è per questo motivo che desidero sottolineare l’importanza di leggere in gioventù. È davvero triste trovare giovani che non hanno provato l’entusiasmo di conoscere bene almeno un classico della letteratura. Spero sempre che i bambini dell’asilo e delle elementari possano avere tante opportunità di apprezzare la letteratura sia a scuola che a casa. Pur se molti bambini leggono per conto proprio, l’esperienza è molto più ricca quando i genitori e gli insegnanti leggono loro ad alta voce.
I bambini sentono il calore delle parole nella voce dei genitori e degli insegnanti, e la loro immaginazione viene stimolata a inventare i paesaggi e le scene drammatiche della storia. La modulazione vocale del lettore aiuta i bambini a sentire e a sviluppare tante emozioni, dalla tristezza alla gioia. Mentre leggono ad alta voce, i genitori e gli insegnanti possono osservare le espressioni dei bambini cambiando tono o facendo pause per capire i loro pensieri. Attraverso queste esperienze cresce il rapporto di fiducia reciproco.
Così come un contadino semina e prega per un generoso raccolto, è importante che gli adulti leggano ai bambini nella speranza che crescano forti e sani, sviluppando il loro potenziale illimitato e realizzando tutti i loro sogni. Ogni fase dello sviluppo di un bambino dipende dal sentirsi rassicurato e fiducioso del fatto che qualcuno crede in lui o in lei.
L’educazione e il futuro
Alcuni programmi promossi dal dipartimento degli educatori della Soka Gakkai offrono un esempio di come potenziare la capacità educativa della società.
Nel 1968 i membri del dipartimento lanciarono un programma di consulenza educativa. Durante i suoi trentadue anni di esercizio questo programma ha offerto servizi volontari di consulenza sull’educazione a circa 280.000 persone. Al momento, ottocento membri del dipartimento educatori svolgono il ruolo di consulenti in ventotto comunità sparse per tutto il Giappone. […]
Nel 1999 è stato lanciato un nuovo programma per sostenere l’educazione nelle famiglie e nella comunità, nel quale un educatore, a stretto contatto con la realtà sociale locale, organizza discussioni informali su questioni relative all’educazione. Questo sistema si espanderà e sarà presente nelle comunità di tutto il Giappone.
Grazie a questi programmi di consulenza tanti bambini hanno riacquistato fiducia in loro stessi e hanno ricominciato da capo.
È molto importante aiutare un bambino che soffre o un genitore che si sente isolato per vari motivi: per questo credo sia necessario integrare la consulenza offerta dalle scuole e dallo Stato. […] Secondo i dati del Programma di consulenza sull’educazione, il 70% dei casi presentati ha a che fare con l’assenteismo o il rifiuto di andare a scuola.
La principale causa dell’abbandono scolastico è la paura della prepotenza.
Di fronte a queste realtà non possiamo rimanere senza fare niente. Se vogliamo risolvere il problema della prepotenza e della violenza, tutta la società deve dimostrare una attenzione maggiore. Abbiamo urgente bisogno di un’etica sociale che non accetti e non condoni la violenza di alcun tipo. Dobbiamo cambiare la tendenza all’indifferenza e al cinismo, che attualmente permeano la società.
La Soka Gakkai è profondamente impegnata a denunciare questi problemi e a cercare delle soluzioni. I suoi sforzi in questo campo rispondono in parte alla sfida generale di creare una società che risponda ai bisogni dell’educazione e, in un’ottica più ampia, si adoperi per stabilire le basi di una cultura di pace.
Ciò che determinerà il futuro non sono solo gli sviluppi politici ed economici, ma soprattutto gli aspetti concreti, come la realizzazione, in ogni fibra del tessuto sociale, di una solida capacità di educare con impegno e responsabilità.
La felicità dei nostri bambini è in un equilibrio precario.
Spinto dall’unico grande desiderio di rendere quello presente il secolo dell’educazione, insieme a persone di ogni parte del mondo desidero impegnarmi per alimentare sempre di più la corrente dell’educazione umanistica.
(La versione originale di questo articolo si trova sul sito della SGI nella sezione dedicata alle “Proposte per l’educazione”, con il titolo Reviving Education: The Brilliance of the Inner Spirit, 9 gennaio 2001)