Cosa comprare per cambiare direzione
Intervista a Leonardo Becchetti, economista
di Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi
E cosa dice l’economista? Cosa può fare il singolo individuo per trasformare nella direzione della “creazione di valore” in senso umanistico una realtà che apparentemente lo sovrasta e ne segna il destino seguendo regole astratte e difficili da capire? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Becchetti, professore ordinario di Economia Politica all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Comitato etico di Banca Etica. Tra i suoi temi di ricerca la finanza e la microfinanza, il commercio equo e solidale, la responsabilità sociale d’impresa e l’economia della felicità. È autore di numerosi saggi tra i quali Felicità sostenibile, Il denaro fa la felicità? e il recentissimo Il voto nel portafoglio.
Un concetto del nostro Buddismo, e in particolare della Soka Gakkai, è quello di rivoluzione umana: la focalizzazione sul singolo individuo e sulla sua trasformazione, che ha un effetto generale sulla società. Questo mi fa pensare al principio fondamentale dell’economia dal basso, che è la consapevolezza dei cittadini, la consapevolezza del loro potere quando consumano e risparmiano. Il sistema economico vuole farci credere che i grandi poteri economici condizionano tutto, per cui il cittadino si mette sempre in una posizione di passività: se c’è un problema lo stato interviene e lo risolve. Invece l’economia dal basso parte da un presupposto diverso: il sistema economico dipende in ultima analisi dalle scelte di consumo e di risparmio. Senza consumi le imprese sono scatole vuote e quindi il cittadino ha in mano uno strumento importantissimo, che ho chiamato “voto nel portafoglio” – titolo dell’ultimo libro che ho scritto – che vuol dire: noi possiamo, con le nostre scelte di consumo e risparmio, condizionare i comportamenti delle imprese.
Sembra che l’economia dal basso sia in crescita… Pionieri di questa nuova economia sono state le botteghe del commercio equo, la banca etica e il microcredito, che hanno puntato su un principio rivoluzionario: vendere qualcosa che costa un po’ di più e che però contiene un valore sociale e ambientale, come nel caso del commercio equo l’inclusione di produttori marginalizzati. Secondo il sistema tradizionale l’idea non avrebbe dovuto funzionare, perché il cittadino cerca sempre la cosa che costa di meno: l’homo economicus non avrebbe mai comprato un prodotto così. In realtà la storia ha dimostrato che questi prodotti hanno piano piano conquistato il mercato, grazie al “voto con il portafoglio” dei cittadini, per cui le altre imprese hanno cominciato a fare lo stesso. In questo i pionieri hanno avuto anche un ruolo conoscitivo: hanno fatto comprendere al resto del mercato che esiste una quota potenziale di consumatori che cerca nei prodotti anche un valore sociale e ambientale, e che ha una soddisfazione particolare nel consumare in questo modo e nel risparmiare in questo modo. Tutto ciò ha innescato un meccanismo di cambiamento del sistema economico. Oggi tantissime imprese fanno commercio equo e solidale.
Ma come si fa ad allargare questo tipo di mercato? Io ritengo che se il sessanta per cento dei cittadini ragionasse in questo modo i problemi si potrebbero risolvere. Per questo mi arrabbio con chi si lamenta: invece di lamentarsi dovrebbe aprire gli occhi e ragionare in questo modo. E ciò non vale solo per cittadini ma, a maggior ragione, per le istituzioni più attente ai problemi sociali, come i sindacati. Il fatto è che sulla carta già si sa che, a parità di prezzo, il sessanta per cento dei cittadini europei preferisce un prodotto con un contenuto sociale e ambientale piuttosto che un prodotto che non lo ha. Ipotizzando però che uno trovi sullo scaffale entrambi i prodotti e possa sapere esattamente cosa contengono. In realtà ciò non succede. C’è un problema di distribuzione e un problema di asimmetria informativa. Come si risolvono questi problemi? Migliorando le certificazioni, i marchi sul contenuto sociale dei prodotti ma soprattutto, e questa è una cosa che propongo da tempo, con una legge sull’obbligatorietà del rating sociale dei prodotti [un criterio per indicare quanto un’impresa è socialmente responsabile nei confronti dei dipendenti, dei fornitori, dell’ambiente, ecc., n.d.r.]. In breve il rating sociale fornirebbe al consumatore la capacità di guardare se si può fidare o no di un’azienda.
E le aziende dovrebbero imparare a considerare questo come un tornaconto positivo. Devo dire che l’hanno già capito. Il numero delle pubblicità etiche si è diffuso in maniera incredibile.
Quello che lei chiama “autointeresse lungimirante”. Esatto. Le aziende hanno capito il peso di questo mercato e cercano di attrarre i consumatori. Il cittadino deve capire che questo è anche un suo interesse. Nel campo ambientale è chiarissimo: prima si parlava delle generazioni future, adesso è evidente che la sostenibilità ambientale è un nostro interesse attuale. Dal punto di vista sociale è in realtà molto chiaro che tutti i problemi di oggi nascono dalle disuguaglianze. La crisi finanziaria nasce dalla disuguaglianza tra le classi alte e basse, che hanno subito una forte erosione del potere d’acquisto, e anche gli effetti non positivi per i nostri lavoratori dovuti alla globalizzazione nascono da disuguaglianze. Finché ci saranno persone diseredate disposte a lavorare a salari bassissimi ciò sarà una minaccia al nostro benessere, provocherà immigrazioni clandestine… Quindi bisogna lavorare per questo equilibrio. Questo io lo chiamo autointeresse lungimirante. C’è poi il punto di vista della felicità individuale. Noi economisti della felicità pensiamo che l’essere umano non sia un homo economicus ma una “persona”, che è in relazione con le altre e lì cerca una sua armonia. È evidente come un consumo di questo tipo vada molto di più in direzione della soddisfazione della persona. Vari studi psicologici dimostrano come gli atti di consumo solidale siano associati a una maggiore soddisfazione perché sono gesti che creano una relazione invece di distruggerla.
Lei parla di spiriti animali e spiriti solidali. John Maynard Keynes dice che ciò che spinge un imprenditore a lanciarsi in un’impresa, un’attività molto rischiosa, è lo spirito animale, il desiderio di guadagno. Io aggiungerei che c’è anche il desiderio di affermazione, di creazione. Quando parlo di spirito solidale intendo dire che non sempre chi crea un’azienda lo fa con lo scopo di creare più profitti possibile. Se pensiamo alla storia delle imprese sociali, in particolare alla storia di Muhammad Yunus [premio Nobel per la Pace 2006, ideatore del microcredito e fondatore della Grameen Bank, n.d.r.], vediamo che anche gli spiriti solidali possono portare a queste cose. Penso anche alla nascita di Banca etica. Uno può decidere di dare vita a un’azienda perché crede che così può migliorare la società. Può creare uno strumento che sia al servizio della persona e della società, e trarre piacere da questo.
Oltre a cosa e come comprare, in che modo un singolo può indirizzare i potenti ad andare verso un altro tipo di società? Io credo che questo sia un punto molto importante. Oggi come oggi se si vuole realizzare qualcosa dal punto di vista politico si deve ottenere la maggioranza, mentre il voto con il portafoglio non ha bisogno di maggioranza, perché anche quote di mercato piccole sono appetibili per altre imprese che vogliono conquistarle. Un altro problema del voto politico è che in un programma elettorale alcune cose ci piacciono e altre no, mentre il voto con il portafoglio è uno strumento più preciso. Oggi l’egemonia è del mercato, del consumo, quindi bisogna usare gli stessi strumenti che usa il mercato: il consumo è lo strumento più efficace per poter cambiare le cose. Non funziona più lo scollamento tra reale e ideale, bisogna entrare nella realtà, incarnarsi nella realtà e mettere i valori lì dentro. Io dico che bisogna dare un mercato ai valori, bisogna dare un contenuto valoriale alle scelte che facciamo.
Questo momento storico, così difficile, forse potrebbe essere una chiave di svolta. Ci sono due fattori di speranza, oggi. Uno è l’elezione di Barak Obama, un esempio di azione dal basso e di come un ideale possa spostare voti, soldi, lavoro delle persone. L’altro è il fallimento di un certo modo di fare impresa. L’impresa standard, la banca d’affari tipo Lehman, ha fallito come modello perché era slegata dal territorio e dalle persone e creava rischi enormi per tutto il sistema. In un certo senso anche il paradigma culturale è cambiato, si è rovesciata la prospettiva. Si è capito che il mercato distrugge proprio quei valori di cui ha bisogno: ha distrutto la fiducia e si è visto cosa il crollo della fiducia comporta. Allo stesso tempo si è scoperto che esiste un tipo di economia che quei valori li crea, perché l’economia solidale crea relazioni, senso civico e fiducia e così facendo fa un servizio al mercato. Noi dovremmo valorizzare sempre di più questo tipo di economia basata sul consumo responsabile, che è l’enzima che ci permette di far funzionare tutto il resto dell’organismo, poiché produce cose di cui l’organismo ha bisogno. Questa secondo me è la cosa in più che ci dice oggi la crisi. I cittadini già stanno votando con il portafoglio, già si stanno spostando. Ad esempio le Casse rurali stanno aumentando tantissimo la raccolta, e noi come Banca etica abbiamo avuto in questi ultimi mesi un aumento enorme di gente che sposta i soldi e li porta da noi, perché ha capito che noi siamo una banca reale e non virtuale. Questo vuol dire fiducia. La gente pur di comprare i nostri titoli accetta anche un rendimento più basso, perché sa che dietro questi titoli c’è un valore sociale e ambientale, c’è il finanziamento del microcredito, il finanziamento del fotovoltaico… Qui si vedono i due modelli e il consenso che hanno oggi. La vera difficoltà che abbiamo è la mancanza di visibilità culturale, che non è pari all’importanza di quello che facciamo. Io credo che alla fine, poiché i meccanismi economici funzionano, la battaglia culturale è quella più importante.
Lei dice che il danaro crea assuefazione. Certo. Se ne vuole sempre di più, mentre invece la qualità della vita relazionale ha effetti permanenti sulla felicità. Noi stiamo cercando di spiegare proprio questo, nei nostri ultimi lavori sulla felicità. È un modo per allargare l’orizzonte degli economisti. Vogliamo passare dal concetto di PIL al concetto di “capacità” di cui parla l’economista indiano Amartya Sen. Se io sono libero di scegliere e non ho coercizioni (secondo i criteri dell’economia liberale) ma non ho la capacità di fare perché non ho diritti, non ho denaro, non ho salute, non posso vivere la relazione, questo tipo di libertà non mi serve. Noi quindi pensiamo sempre alla libertà come capacità e questo è più coerentemente legato alla soddisfazione di vita.
Il fondatore della Soka Gakkai, Tsunesaburo Makiguchi, parlava di creazione di valore. Noi economisti della felicità diciamo che dobbiamo creare tre tipi di valori insieme: il valore economico, il valore sociale e il valore ambientale. La sfida di oggi è combinare queste tre cose. Il valore economico serve per risolvere una serie di problemi, come il welfare, però deve essere creato in maniera sempre più efficiente dal punto di vista sociale e ambientale. Non deve distruggere la vita sociale e deve consumare sempre meno risorse naturali. Non dobbiamo distruggere le risorse naturali ma valorizzare le loro capacità produttive. Il problema è che noi consumiamo il capitale naturale, mentre con l’eolico e il fotovoltaico possiamo valorizzarlo e renderlo produttivo. È un concetto totalmente diverso. Dobbiamo andare in questa direzione, abbiamo tanti ostacoli ma li dobbiamo sfidare. Torniamo alla consapevolezza del cittadino, alla vostra parola chiave: alla fine il potere ce l’abbiamo noi.
Da Buddismo e società, N. 132
Economia e felicità
di Wilma Massucco