Per dire no ai signori della guerra - Intervista a Casha Usmaan Ugas Shacur
Abbiamo incontrato Casha Usmaan Ugas Shacur a Castelnuovo Magra, invitata dal comune nell’ambito del progetto “adotta un popolo”. Casha (leggi Ascia) sta tenendo in Italia incontri e conferenze per far conoscere il progetto SWEA (Shabelle Women Enterpreneur Association – Associazione delle donne imprenditrici di Shebeli), per cercare collaborazione e solidarietà soprattutto da parte di altre donne e per creare quel dialogo necessario per far fronte al fondamentalismo.
«Sono nata in una cittadina a 250 Km da Mogadiscio, nei territori centrali della Somalia, nel 1950. Mio padre era una persona importante perché faceva parte del clan della famiglia regnante, commerciava in materiale edile e in vestiario.
Dopo la nascita di mia figlia, a partire dal 1975, ho iniziato a Mogadiscio un commercio in proprio di import/export, e contemporaneamente ho avviato un’attività di investimento finanziario: ho comprato qualche terreno, ho costruito case che affittavo soprattutto alle ambasciate e ai suoi funzionari.
Negli anni fra il 1988 ed il 1989 la situazione in Somalia divenne esplosiva e la vita era difficile anche per le classi sociali a cui noi appartenevamo. Il figlio di mio marito venne assassinato in un’imboscata nel 1990 solo perché non apparteneva al clan di Siad Barre, il presidente. La situazione era degenerata in guerra civile e il presidente temeva i somali dei clan che lo osteggiavano apertamente. Per paura di alleanze segrete e future faceva trucidare tutti i cittadini di sesso maschile che non appartenevano al suo clan.
Io non ho assistito direttamente a tutto questo, perché non ero in Somalia in quel periodo, ma i membri della mia famiglia erano tutti lì».
Quando è rientrata, quale situazione ha trovato?
Sono tornata nel 1992, dopo la guerra civile. Quello che ho trovato è stato distruzione, macerie, ancora violenza. Mi ritengo però molto fortunata, in fondo le mie proprietà sono state saccheggiate o distrutte “solo” per l’80%! Ma ci sono state famiglie che hanno perso anche undici o dodici figli.
Quando penso a quel periodo non ricordo altro che distruzione, assenza di regole, bestialità. I somali sono sensibili alle emozioni, si vede chiaramente dai dolci tratti dei loro visi gentili. Non era più così, il viso delle persone esprimeva solo bestialità, violenza, durezza. Tutto era diventato improvvisamente brutto. Brutto e senza intelligenza, stupido.
A quel punto cosa ha fatto? Da dove ha ricominciato?
Dal 1992 al 1999 sono sopravvissuta mantenendomi con quello che mi era rimasto, poi nel settembre del ’99 sono stata invitata a una riunione di donne che iniziavano una collaborazione con il COSPE (l’organizzazione non governativa italiana Cooperazione allo Sviluppo Paesi Emergenti). Eravamo circa settanta donne, molte delle quali, pur vivendo vicino a me, le vedevo per la prima volta a causa del fatto che appartenevamo a clan diversi.
Alcune erano commercianti già da prima della guerra, altre lo erano diventate per necessità: durante la guerra civile erano improvvisamente diventate capofamiglia perché i mariti erano impegnati con le bande armate o erano morti.
Queste riunioni sono servite non solo a discutere delle iniziative relative alle nostre attività commerciali, ma soprattutto per “conoscerci” e discutere di noi in quanto donne, esseri umani, a prescindere dal clan di appartenenza.
Mano a mano il numero delle partecipanti aumentava. In nove mesi la discussione ha interessato millecinquecento donne fino a fondare cinque associazioni in diverse città.
Come avete vissuto il problema dei clan di appartenenza?
In Somalia il senso di appartenenza al proprio clan è molto forte: mentre la donna mantiene il clan del proprio padre, i figli acquisiscono il clan del loro padre.
Inizialmente il problema di appartenenza a clan diversi era palpabile nell’aria: le discussioni e il modo di condurle lo lasciavano trasparire.
Alla fine le donne dell’associazione hanno capito che nella guerra sono state quelle che ci hanno rimesso di più: spesso i membri del loro clan hanno ammazzato il loro marito o i loro figli perché di clan diversi.
Il commercio, il tema che ci ha fatto incontrare, è stato il mezzo che ci ha unito permettendoci di parlare, rispettarci e continuare, facendoci esprimere e riflettere sulle nostre visioni, sugli obiettivi e sugli strumenti per raggiungerli, sulle responsabilità dei dirigenti e delle socie. Questo è culminato in un congresso di fondazione, dove con voto segreto abbiamo eletto i nostri organismi dirigenti.
Tutto questo è straordinario se si tiene presente che il popolo somalo ha tenuto libere elezioni una sola volta nella sua storia (nel 1960 in occasione dell’indipendenza, n.d.r.) e che invece il percorso di fondazione delle nostre associazioni è stato un processo democratico, che ha visto nascere e risolvere pacificamente i conflitti che si presentavano fra di noi e che ha visto, alla fine, l’adesione di cinquecento socie che versano all’associazione una percentuale dei loro guadagni.
Anche questo non è cosa da poco se si considera che la Somalia è un paese che è stato abituato dalla comunità internazionale a tendere la mano.
Il nostro punto di forza è stata l’unione, il credere nell’idea e la perseveranza.
È stato risolto il problema dell’appartenenza di clan?
È stato trasformato. Nei cinque congressi di fondazione delle associazioni locali le candidate si sono presentate spontaneamente e sono state scelte con voto segreto. Le donne elette sono risultate essere le più attive e le più competenti. Il risultato di questo processo è stato quello di giungere a un’associazione interregionale a-clanica, senza configurazione di clan. La miglior garanzia è stata proprio quella di interessare diverse regioni e quindi, automaticamente, di non poter favorire un clan in particolare.
Per un paese come il nostro è un avvenimento di portata storica.
È in questa occasione che è stata eletta Presidente della SWEA?
Sin dalla prima votazione ho ricevuto tantissimi voti e la cosa mi ha lasciato meravigliata. Ho chiesto: ma se nemmeno mi conoscete, perché mi votate? La risposta è stata: noi sappiamo quanta passione hai messo finora in questa avventura.
L’impegno che avevo messo nell’associazione di Mogadiscio, a cui avevo dedicato il mio tempo, la mia disponibilità, la mia energia e anche la mia casa per gli uffici, era arrivato fino a loro: le donne, anche se non mi avevano mai visto, mi conoscevano.
Ovviamente le delegate che mi hanno eletta nel 2003 nella carica di presidente della SWEA rappresentano donne che appartengono a clan diversi dal mio. Mi hanno scelta perché donna e commerciante, come loro, e perché hanno avuto fiducia in me e nel mio impegno disinteressato.
Vi sono in Somalia realtà femminili simili alla vostra?
Non esiste in Somalia nulla del genere.
Il risultato del nostro impegno è stato quello di portare in primo piano il valore dell’associazionismo, dei diritti della persona, di un’economia equa e soprattutto, al fine di stabilire la pace su basi solide, il superamento e la trasformazione del conflitto fra clan.
Quindi il commercio, motivo iniziale dei nostri incontri, è stato utilizzato per operare una trasformazione di genere, quello femminile, all’interno della società somala. Tutto questo è stato possibile perché ci siamo rese conto, attraverso l’incontro/confronto, della nostra forza, delle nostre possibilità, del nostro peso umano e sociale. Abbiamo preso coscienza delle nostre potenzialità. Abbiamo capito che ognuna di noi può agire per il cambiamento della condizione della donna in Somalia e per il cambiamento dell’intero paese.
Cosa offre materialmente la SWEA alle donne?
La SWEA si muove sia per le donne imprenditrici socie che per quelle non socie. Occorre dire che in Europa la parola imprenditrice indica una donna in carriera. In Somalia ovviamente non è così. Si intende chiunque abbia un’attività commerciale o artigiana: da piccoli lavori di sartoria, preparazione di cibi per il mercato, commercio di frutta e verdura ad attività in cui vi può essere qualche dipendente.
Per le nostre socie imprenditrici, o che vogliono divenire tali, la SWEA fornisce assistenza legale, consulenza logistica (informazioni sui prezzi e sulle condizioni di trasporto), consulenza economica (quali investimenti sono favorevoli, come sviluppare una programmazione di affari), consulenza finanziaria, un database informatico; aiuta a individuare i bisogni, offre, attraverso le associazioni locali, la possibilità di comunicare fra di loro, effettuare joint-venture; offre, ancora, collaborazioni con imprese all’estero. Ma effettua anche formazione alla professione, colmando la lacuna dell’inesistente sistema scolastico e universitario del nostro paese. Abbiamo anche piccoli corsi per le donne analfabete e una forma di microcredito di gruppo. Su base volontaria e solidaristica alcune delle donne, magari di una determinata zona, mettono insieme una quota fissa dei loro guadagni e con questa sostengono le necessità di una di loro o di una loro conoscente che attraversa un momento di particolare difficoltà, ad esempio per mandare a scuola i figli.
Come vi fate conoscere?
Per pubblicizzare la nascita della SWEA abbiamo preparato un’opera teatrale che mette in scena il ruolo delle donne nella guerra civile, dove spesso sono state capofamiglia, e tutto il percorso fino ad arrivare all’associazione interregionale, soffermandoci su quali erano state le difficoltà passate e quelle attuali. Preparare questo ha avuto anche un’importanza didattica, basti pensare che la lingua somala è stata impiegata nella sua forma scritta solo dal 1972 e non è quindi di patrimonio collettivo.
Cosa l’ha spinta ad impegnarsi per tutto questo?
Soprattutto mi sono resa conto che per continuare a crescere personalmente, per poter continuare il commercioe guadagnare, io e le altre dovevamo contribuire alla pace del nostro paese: noi insieme dovevamo e potevamo dire “NO” ai signori della guerra e smettere di farci usare.
Quindi l’associazione SWEA è arrivata a maturare anche l’obiettivo della pacificazione sociale. Vogliamo rendere Mogadiscio, e tutte le città della Somalia interessate dalla guerra, dei posti sicuri. Negli ultimi quattro mesi abbiamo iniziato a spendere tutto il nostro impegno verso questo obiettivo.
Mogadiscio ha quarantadue “barriere” posizionate dai signori della guerra, dove i ragazzi riscuotono il pedaggio su merci e mezzi per il loro attraversamento: ognuna di queste barriere può riscuotere mille dollari al giorno.
Nel giro di due mesi, io e le altre donne dell’associazione di Mogadiscio, aiutate da donne intellettuali e da altre della società civile, per un totale di sessanta donne coinvolte, siamo riuscite a eliminare quaranta barriere, sistemando 2500 ragazzi che vi erano impegnati, e che prima erano armati, in due zone appositamente attrezzate da noi vicino alla città, ex campi militari. Avremmo voluto sistemare in queste aree un numero di ragazzi ben superiore, ma i soldi che avevamo non ci hanno permesso di fare di più.
Tutte le donne imprenditrici di Mogadiscio hanno contribuito al raggiungimento di questo obiettivo: chi ha dato tutti i suoi risparmi, chi una parte dei suoi incassi giornalieri, chi un materasso, chi del cibo. Tutte hanno dato il loro tempo e il loro apporto al successo dell’iniziativa donando secondo la loro possibilità.
Nei due campi i ragazzi frequentano corsi di studio, ricevono regolarmente i pasti, assistenza sanitaria e una piccola paga. Poiché rappresentano una parte dei ragazzi armati della città, l’obiettivo è quello di usarli come forze di pace nonviolente per disarmare tutti gli altri.
Dalla nostra iniziativa è partita una gara di solidarietà e sostegno: molti soldi sono arrivati dai somali che vivono all’estero. È la prima volta che inviano soldi per motivi diversi dal fomentare lotte fra clan.
Questa iniziativa, per la prima volta dopo quindici anni, ha accomunato persone di diversa appartenenza sociale e di clan.
Il nostro nuovo obiettivo è disarmare tutti i ragazzi somali e lasciare gli uomini adulti senza nessuno da usare per combattere.
Avete anche altri obiettivi per il futuro?
Come associazione abbiamo l’obiettivo di favorire la nascita di altre associazioni di imprenditrici in zone della Somalia dove queste ancora non esistono e diventare associazione nazionale. Intendiamo raggiungere anche tutte quelle donne che non hanno accesso al credito. Sono molte quelle che, a causa della guerra o dell’analfabetismo, versano in condizioni di estrema miseria: occorre perciò consolidare il sistema del credito a iniziative imprenditoriali.
È necessario dare forza, organizzare e incentivare gli interessi del mondo economico femminile del nostro paese che può prosperare solo se si afferma la pace, in opposizione e contrasto agli interessi dei signori della guerra e di quegli imprenditori loro alleati che si sono arricchiti grazie alla mancanza di qualsiasi legge, del traffico di armi, della droga, di persone, e, va detto, degli aiuti internazionali (cibo e medicine).
Per questo stiamo ulteriormente affinando il nostro codice etico: sostenere solo chi attua iniziative pulite.
Vogliamo, inoltre, fare da ponte a iniziative con l’esterno: la Somalia è isolata da ormai quindici anni. A questo proposito la nostra azione diventa ancora più significativa in considerazione della forte penetrazione, nel nostro paese, del fondamentalismo islamico che tradizionalmente relega le donne a posizioni di sudditanza e inferiorità, negando sistematicamente loro i diritti. La Somalia è un paese a maggioranza musulmana, dove la donna ha sempre goduto di rispetto e libertà, non è mai stata considerata inferiore o, peggio, una minaccia.
Con le nostre forze e le nostre risorse siamo arrivate fino a questo punto, ora abbiamo bisogno di essere presenti nei luoghi dove si prendono le decisioni. Questa è la lezione che abbiamo appreso: dobbiamo partecipare al processo democratico del nostro paese.
Se dovesse mandare un messaggio alle donne italiane, cosa direbbe?
Innanzitutto vorrei dire che per l’incarico e il lavoro che faccio, io mi muovo con una scorta armata. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, la morte mi potrebbe giungere anche per mano di una persona della mia scorta. Inoltre la situazione che ha vissuto la Somalia non potrebbe mai concretizzarsi in Italia.
Quindi le donne italiane non hanno, da questo punto di vista, nulla di cui lamentarsi sul serio. Ciononostante spesso possono sentirsi impotenti o sconfitte. A queste dico che anche quando tutto sembra perduto, è la mia esperienza, ci si può alzare, combattere e vincere.
Buddismo e Società n.113 – novembre dicembre 2005
Democrazia e globalizzazione: il ruolo della società civile - Intervista a Majid Tehranian
All’Università delle Hawaii, Tehranian è stato presidente del Dipartimento di Comunicazione e fondatore e direttore dell’Istituto Spark M. Matsunaga per la pace.
Ha promosso e diretto il Seminario per la pace nel Pacifico e la serie televisiva “Dialog on Peace”.
Ha ricevuto molti premi da parte di università, istituti di ricerca e associazioni per la pace.
Si definiva un «nomade globale esiliato in paradiso», dove naviga su Internet e sull’oceano Pacifico.
Pacifista attivissimo, professore di Comunicazione internazionale all’Università delle Hawaii, Majid Tehranian era direttore dell’Istituto Toda per la pace e la ricerca politica, il centro studi della Soka Gakkai Internazionale fondato da Daisaku Ikeda nel 1996.
Persiano di religione musulmana, si definiva un cittadino del mondo e fondava il suo sentimento di interrelazione con ogni essere umano sulla tradizione sufi, una corrente dell’Islam nata nella sua terra d’origine, l’Asia centrale, punto d’incontro di tutte le grandi religioni universali.
Grande amico del presidente Ikeda, con il quale ha scritto un libro di dialoghi lo descrive come un pioniere del dialogo e come un moderno «bodhisattva, che ha raggiunto un tale livello di libertà spirituale che gli permette di diffondere in tutto il mondo la sua missione di pace e di compassione».
L’intervista è stata fatta a Firenze alla fine del marzo 2002: si diradavano i bombardamenti in Afghanistan e infuriava il conflitto tra Israele e Palestina.
In seguito all’attacco alle torri gemelle, lei pensa che sia necessario dare inizio a un profondo dialogo con il mondo arabo?
In questo contesto, il termine “mondo arabo” non è appropriato. Dovremmo parlare invece di “mondo islamico”, che indica un’entità più ampia e complessa. Una realtà che comprende un miliardo e duecentomila persone tra arabi musulmani, indiani, pakistani, turchi, persiani, indonesiani… La maggior parte dei musulmani vive al di fuori del mondo arabo.
Per avere un dialogo significativo con gli esponenti di un gruppo religioso prima di tutto dobbiamo riuscire a comprenderli. Dobbiamo ascoltarli attentamente e conoscerli approfonditamente. Il mondo islamico è estremamente variegato, composto da differenti paesi, culture, generazioni, classi sociali e ideologie. È un’illusione credere che sia omogeneo e monolitico.
Può raccontarci il suo incontro con il Buddismo?
Fu nel 1992, durante un viaggio lungo la Via della seta. Partii da Honolulu e viaggiai attraverso il Giappone, la Cina, il Khazakistan, il Tajikistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Azarbaijan e l’Iran. Nel tredicesimo secolo Marco Polo aveva viaggiato nella direzione opposta, da Roma a Pechino.
La Via della seta era l’arteria principale degli scambi culturali e commerciali tra l’Europa e l’Asia: per secoli, lungo questa strada, si è svolto un autentico dialogo tra la civiltà europea e quella asiatica che ha prodotto, proprio nella regione dell’Asia centrale, una sintesi di molte culture e tradizioni.
Per primi gli iraniani conquistarono la regione e le diedero il nome di Iyrana, che significa “terra degli ariani”. Poi, nel IV secolo a.C., arrivarono i greci, guidati da Alessandro Magno, che occuparono l’Asia centrale per i due secoli seguenti. La dinastia Kushan (di provenienza nomade), che regnò dal II secolo a.C. al III secolo d.C., portò il Buddismo mahayana nell’Asia centrale. Bamyan, la grande pianura circondata dalle montagne nelle vicinanze di Kabul, divenne un importante luogo d’incontro per i buddisti. Qui si ergevano le grandi statue del Budda – la più alta arrivava a cinquantatré metri – distrutte dai talebani l’anno scorso. La città di Bokhara, in Uzbekistan, era originariamente un tempio buddista, che è proprio ciò che significa il suo nome.
Quindi, nel “crogiolo” dell’Asia centrale prese forma una sintesi di varie religioni e civiltà. Dopo la conquista da parte dell’Islam qui nacque il Sufismo, una tradizione della religione musulmana che ricorda il Buddismo per il suo senso mistico e per il suo accento sulla spiritualità interiore.
Fu in quell’occasione che conobbe Daisaku Ikeda?
Sì, quando andai a Tokyo nel 1992. L’incontro doveva durare mezz’ora, ma noi parlammo per più di tre ore proprio della Via della seta e del suo ruolo nel dialogo tra Buddismo e Islam. Rimasi veramente sorpreso della sua conoscenza della cultura di quest’area.
Parlammo di Rumi, il grande poeta sufi del XIII secolo, che diceva:
«Che far dunque o musulmani,
ch’io me stesso non conosco.
Non giudeo sono, né cristiano,
né son ghebro o musulmano.
…
Il mio luogo è l’oltrespazio,
il mio sogno è il senzasegno,
non è anima, non corpo:
solo sono dell’Amato»
(Jaalal ed-Din Rumi, Poesie mistiche, Bur, 1980, trad. A. Bausani, p. 63).
Questo spirito universale, espresso dal Buddismo e dal Sufismo, è particolarmente incarnato nella Soka Gakkai. Trovai in Ikeda molte affinità con Rumi, Hafez e altri poeti e filosofi sufi. Li conosceva tutti, e ciò mi rese così felice che subito dopo l’incontro composi una poesia per lui. Parafrasando Rumi, che dice: «Ci sono molti turchi che parlano turco, ma non si capiscono. Ma ci sono molti indù e turchi che parlano lingue diverse ma parlano il linguaggio del cuore, e si comprendono reciprocamente…», io scrissi a Ikeda: «Noi parliamo il linguaggio del cuore, voi siete giapponese, io sono persiano, voi siete buddista, io musulmano, ma andiamo avanti insieme, ci comprendiamo…». Così ebbe inizio la nostra amicizia e collaborazione.
Cosa pensa della figura di Daisaku Ikeda come pensatore e come messaggero di pace?
Ikeda sensei (Tehranian, nel corso di tutta l’intervista, parlando del presidente della Soka Gakkai Internazionale ha sempre usato l’appellativo giapponese sensei, che significa “maestro”, ndr), prima di chiunque altro io conosca, è stato un pioniere del dialogo tra le civiltà. Ha incontrato più di mille e cinquecento leader in tutto il mondo e in ogni dialogo ha cercato di dimostrare l’unità essenziale delle tradizioni spirituali. Credo che questo sia proprio ciò di cui il mondo ha bisogno ora. Ikeda non è un vago filosofo che si esprime solo attraverso concetti astratti, è anche un uomo estremamente pratico e nelle sue annuali Proposte di pace dà indicazioni molto concrete. Una tale combinazione di spiritualità e praticità è veramente unica. Sono molto felice che non sia un politico, perché la politica corrompe, c’è di mezzo il potere.
A questo proposito vorrei considerare la scelta di Gandhi all’epoca dell’indipendenza dell’India. È stato forse l’uomo più popolare del paese in tutta la sua storia e sarebbe potuto facilmente diventare il capo del nuovo Stato indipendente. Ma respinse quell’offerta, pur essendo fortemente coinvolto in temi politici come la pace tra indù e musulmani. Rifiutò saggiamente ogni posizione ufficiale nell’India indipendente continuando a essere una guida spirituale, un ruolo che gli costò l’altissimo prezzo della vita.
In politica non si può fare la voce forte, bisogna fare ogni tipo di compromesso anche con la violenza, che caratterizza la lotta per il potere a livello mondiale. Gandhi invece mantenne sempre una voce autentica per la causa della nonviolenza.
Tornando a Ikeda, credo che sia davvero una persona unica. È ben preparato culturalmente e spiritualmente per guardare al futuro, al lontano futuro, fra due o trecento anni. E dice: «In questa società globale dobbiamo sviluppare istituzioni globali e abbiamo bisogno di cittadini globali».
È appena uscito un libro, edito dalla SGI, dal titolo Cittadini del mondo. Questa è la caratteristica principale dei membri del vostro movimento, pionieri di tale atteggiamento globale. Nel mondo attuale la cittadinanza locale o nazionale è una condizione necessaria ma non sufficiente. Dobbiamo sentirci leali cittadini italiani, persiani o egiziani e contemporaneamente cittadini del mondo.
Lei ritiene che una religione debba avere anche un impegno civile?
Sì. Ma in tutte le religioni si trovano tendenze contraddittorie. Da un lato vi sono alcuni che dicono: «Voglio salvare me stesso» e, nel caso ad esempio di alcune tradizioni buddiste, i seguaci vanno in cima a una montagna, diventano monaci, meditano per raggiungere il nirvana soli con se stessi. L’altra tendenza è sentirsi depositari dell’unica verità e quindi voler convertire tutti, anche prendendo il potere. Questo accade tra i cristiani, i buddisti, i musulmani, i confuciani. In tutte le religioni si trovano queste due tendenze opposte, che possiamo definire rispettivamente ascetismo e militanza.
In alcuni paesi il clero ha conquistato il potere o ha provato a farlo. Voi in Italia avete avuto per esempio Savonarola, che per alcuni mesi governò Firenze con il pugno di ferro. Bruciò libri, uccise persone, perché voleva che la città diventasse rapidamente cristiana e pura. Questa tendenza, presente in tutte le religioni, io la definisco “l’illusione della purezza”. Niente è puro in questo mondo, tutti noi siamo impuri, imprigionati in questo corpo, abbiamo necessità, dolori, sofferenze, invecchiamo. Tutto ciò è normale, per gli esseri viventi.
Ci si deve liberare da questa costrizione, uscire da questa scatola che è il nostro corpo e considerare noi stessi in connessione con il resto dell’umanità, con i nostri figli, i giovani, le persone di altri paesi. Se non riusciamo a uscire da questa prigione non possiamo superare la sofferenza e ottenere la libertà spirituale, che si raggiunge attraverso un impegno compassionevole nel mondo. Saadi, poeta sufi del XIII secolo, diceva: «La devozione non è altro che servire la gente; la devozione non è un tappeto da preghiera, una ciotola per l’elemosina, o un rosario».
Io credo che l’atteggiamento più saggio sia la Via di mezzo: mantenere una sfera interiore spirituale non corrotta dalla politica, dal denaro, dalle molte tentazioni mondane, e contemporaneamente essere coinvolti e impegnarsi nella realtà sociale.
Ikeda sensei è una specie di bodhisattva: ha raggiunto un tale livello di libertà spirituale che gli permette di diffondere in tutto il mondo la sua missione di pace e di compassione.
Il mio caro amico David Chapel, professore all’Università delle Hawaii, sostiene che la Soka Gakkai pratica e insegna un Buddismo impegnato. Mi sembra una buona definizione. Vorrei che esistesse anche un Islam impegnato, e non i Mullha che conquistano il potere. Tutto ciò è terribile per loro, per l’Islam, per la popolazione. C’è tanta spiritualità nell’Islam. Una genuina spiritualità può moderare le tendenze estremistiche e correggere la politica.
Da questo punto di vista penso che il Buddismo impegnato promosso dalla SGI sia un modello per quel tipo di “politica” religiosa adatta al nostro mondo.
Lei è un economista politico. Cosa pensa della relazione economia-globalizzazione?
È una questione molto complicata. Vorrei partire dalla mia esperienza personale.
Da giovane ero socialista e credevo che per realizzare la giustizia sociale fosse necessaria un’economia regolata, per distribuire il reddito nazionale in maniera più equa senza l’enorme divario tra ricchi e poveri.
Poi feci il mio viaggio lungo la Via della seta. La Cina nel 1992 aveva già introdotto elementi di mercato nella sua economia nazionale: era una realtà dinamica, dove l’economia stava crescendo in fretta, del 9 per cento all’anno. Poi andai in Asia centrale, che era ancora sotto l’influenza del regime sovietico – il crollo dell’Unione Sovietica era avvenuto nel 1991 – e il sistema economico era centralizzato e controllato dal governo: vidi un’economia stagnante, i negozi statali erano deserti e vi si vendeva merce di pessima qualità. Prevaleva un senso di depressione economica e sociale. Ma nei dintorni di Ashkabad, la capitale del Turkmenistan, visitai un cosiddetto mercato all’aperto, affollato da migliaia di persone. Era un bazar tradizionale sopravvissuto a settant’anni di centralismo sovietico. Vi si vendeva di tutto: gioielli, vestiti, pecore, bestiame, pezzi meccanici, tappeti e così via. Era vitale, attivo, colorato. Capii allora che il libero mercato è un’assoluta necessità per l’economia. È possibile fermare il mercato e creare programmi economici fantasma, giganteschi piani per decidere come, cosa e per chi le persone devono produrre. Ma, come ha dimostrato l’esperienza sovietica, le conseguenze sono disastrose. In Asia centrale l’unico posto in cui funzionava l’economia era quel vecchio bazar.
Continuando il mio viaggio arrivai in Iran. Il mercato era ancora attivo. Mangiai del buon cibo, soggiornai in un albergo confortevole, visitai negozi pieni di beni di buona qualità.
E così ripensai alle mie convinzioni giovanili. Una società ideale deve avere un mercato fiorente. Il mercato però opera sulla base dell’interesse egoistico e talvolta dell’avidità. Per questo è così dinamico, ma lasciato solo ai suoi ingranaggi distruggerà se stesso. Fu l’assenza di regole che portò alla crisi del capitalismo mondiale nel 1929.
Il mercato ha bisogno della regolamentazione del governo. Ma i governi sono anche organizzazioni di gruppi di interesse. Lasciati a se stessi possono diventare oppressori e profittatori.
Chi può correggere la corruzione? Persone come me e voi, le associazioni volontarie come l’SGI, le chiese, le moschee, i sindacati e i partiti politici. Tutto questo insieme è definito società civile. Il buon governo è spesso il risultato di controlli incrociati ed equilibri tra quattro attori: lo Stato (il governo), il mercato, la società civile e una rete di comunicazione (i media) che li collega tutti.
Questo implica un alto livello di coscienza democratica?
Il sistema democratico si è evoluto da una democrazia liberale che metteva l’accento sulla libertà individuale e di impresa a una democrazia sociale che sottolineava l’eguaglianza e la giustizia, a una democrazia comunitaria che fa appello all’autodeterminazione di gruppi culturali, fino a quella che potremmo chiamare democrazia diretta e che viene realizzata attraverso Internet. La democrazia non è un punto d’arrivo ma un viaggio, un viaggio infinito. Nel momento in cui pensiamo di aver raggiunto la perfetta democrazia noi l’abbiamo persa. Nulla in questo mondo è perfetto e, come disse Winston Churchill, la democrazia è la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre che sono già state provate.
La democrazia richiede una vigilanza costante da parte dei cittadini impegnati. Guardiamo al mondo. Laddove c’è un monopolio governativo l’economia è stagnante. Dove il mercato controlla il potere i ricchi si arricchiscono e i poveri si impoveriscono. E dove il potere è frammentato tra gruppi etnici e religiosi in lotta c’è il caos. Ma dove c’è equilibrio tra queste forze si verifica una ragionevole crescita economica e una relativa giustizia sociale. Questa è la condizione alla quale dovremmo puntare.
Quali sono i paesi che hanno raggiunto questo tipo di equilibrio?
Credo che i paesi scandinavi si avvicinino a questo modello. Gli Stati Uniti si sono mossi verso la supremazia del mercato: c’è sempre meno democrazia e sempre più dominio dei gruppi economici. Oggi gli USA sono il paese con più disuguaglianza sociale tra tutti i paesi industrializzati. Le ultime statistiche dell’Istituto di Economia politica mostrano che l’1 per cento della popolazione possiede il 38 per cento della ricchezza del paese. Un quinto della popolazione possiede l’83 per cento, lasciando gli altri quattro quinti a dividersi soltanto il 17 per cento.
La middle class americana è stretta dal basso dai ceti più poveri emergenti e dall’alto da una piccola e ricca oligarchia. Ma noi sappiamo che la spina dorsale di ogni sistema democratico è la classe media, e l’attuale tendenza statunitense non depone a favore del futuro della democrazia in quel paese. La società americana era più equilibrata nell’immediato dopoguerra, ma l’ideologia liberista che si è affermata a partire dalla presidenza Reagan ha spostato l’equilibrio del potere a favore delle multinazionali. Le elezioni americane non sono più un confronto aperto ma sono determinate da chi può spendere di più in propaganda politica. E i politici che traggono beneficio da questo sistema si rifiutano di riformarlo.
A Cuba e nella Corea del Nord domina il governo, con conseguenze disastrose per la crescita economica. La Russia ha provato a introdurre le forze di mercato nella sua economia che però, senza le necessarie istituzioni legali è scivolata nel capitalismo mafioso. Se non c’è una regolamentazione normativa e le istituzioni socio-culturali che la applicano, si sviluppa un capitalismo mafioso o “familiare-amichevole”. Marcos nelle Filippine e Suharto in Indonesia avevano messo a capo delle aziende amici o membri della famiglia. In Iran i Mullha controllano circa il 40 per cento del patrimonio del paese. C’è quindi un ristretto gruppo che domina il governo e il mercato.
Il sistema migliore è quello in cui le istituzioni della società civile sono pienamente sviluppate per correggere il mercato e il governo, con un sistema mediatico libero e pluralista che rafforza la trasparenza e la responsabilità. La democrazia è un processo dinamico che necessita vigilanza, correzione e nutrimento costanti.
Come nasce l’economia globale?
Anch’io mi sono fatto questa domanda. A partire dal 1980 Reagan e la Thatcher hanno introdotto una nuova politica economica definita da tre parole chiave: deregulation neoliberista, privatizzazione e decentralizzazione.
Durante il ventennio passato, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per primi, e poi gradualmente il resto del mondo capitalista, sono entrati in un periodo di storia economica nel quale è diminuito il ruolo dei governi ed è aumentato il peso delle aziende nell’economia globale. Tutto ciò ha prodotto un’accelerazione della crescita economica che ha portato alla globalizzazione dei mercati, soprattutto nei settori della finanza e delle alte tecnologie. Alcuni hanno definito questo nuovo assetto economico “capitalismo digitale”, perché le tecnologie informatiche giocano un ruolo fondamentale in questo processo, avendo connesso i mercati del mondo in tempo reale per la prima volta nella storia dell’umanità.
C’era stato un periodo di globalizzazione tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, durante il quale un gran numero di persone emigrò dall’Europa verso il nord e il sud America. Ingenti somme di capitale furono investite nelle colonie e il commercio mondiale ebbe una rapida espansione, per certi versi maggiore di adesso. Il movimento di popolazioni fu superiore allora rispetto ai nostri giorni.
Ma l’attuale era dell’economia globale è caratterizzata da una trasformazione tecnologica che ha reso molto più facile il trasferimento di capitale. Premendo un bottone si possono trasferire trilioni di dollari al di fuori dei confini nazionali. La comunicazione globale è stata facilitata dai satelliti, i computer, Internet, il World Wide Web.
Questo tipo di globalizzazione è certamente unico nella storia umana e ha già portato notevoli conseguenze. La prima è che le istituzioni economiche si sono mosse e si muovono più velocemente delle istituzioni politiche e culturali. Ci sono all’incirca mille multinazionali che controllano l’economia globale. Nove grandi gruppi, ad esempio, controllano tutto il sistema mediatico: l’editoria, la radio, la televisione, il via cavo, i computer, i satelliti, la musica e le industrie sportive… In ogni tipo di attività industriale, da quelle farmaceutiche a quelle siderurgiche, ai cantieri navali, alle aziende di telecomunicazioni, alle fabbriche di automobili, c’è un oligopolio di aziende, nove, dieci, dodici, che controllano l’intera produzione mondiale. Si sono mosse velocemente, mentre le istituzioni politiche e la società civile sono notevolmente indietro.
Si è creato un grande squilibrio con conseguenze molto gravi per la distribuzione del reddito. Tutti gli indici mostrano che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In alcune regioni dell’Africa sub-sahariana c’è addirittura una regressione: l’aspettativa di vita, la mortalità infantile e il reddito pro capite sono inferiori a dieci o venti anni fa. Ed è aumentato il livello di disagio. L’AIDS, per esempio, sta uccidendo migliaia di persone.
L’11 settembre può essere considerato come l’inizio di una terza guerra mondiale tra ricchi e poveri. Una specie di avvertimento al mondo sul fatto che questo disequilibrio non può protrarsi. È stato un campanello d’allarme: «Svegliati mondo! C’è troppo squilibrio, facciamo qualcosa».
Stiamo entrando in un nuovo stadio della storia mai conosciuto prima. Nel passato la guerra si combatteva tra le nazioni: Germania, Italia e Giappone contro Inghilterra e Stati Uniti. Questa volta non è un conflitto tra Afghanistan e Stati Uniti: è una guerra civile globale tra e dentro gli Stati. Al-Qaeda è una rete globale diffusa in più di cento paesi. L’organizzazione di Osama bin Laden è venuta alla luce, ma ci sono altre reti nascoste, quelle della droga, della vendita e della distribuzione di armi, del traffico di donne e bambini.
E dall’altra parte c’è la rete dell’SGI, la rete Bahaii, la rete dei cattolici e la rete globale di Amnesty International. Ovunque io vada incontro persone meravigliose come voi. La nuova civiltà globale ha lati positivi e negativi: ci sono i cittadini del mondo, come voi, e i criminali e i terroristi.
Gli Stati Uniti stanno provando a combattere il terrorismo globale attraverso la loro rete militare e dei servizi segreti, ma questa guerra civile si intensificherà se non prestiamo attenzione alle sue cause profonde. Se invece vi poniamo attenzione, soprattutto alla sempre maggiore separazione tra istituzioni economiche, politiche e culturali, la violenza potrà essere contenuta. Ma se ciò non succede temo che ci troveremo davanti un futuro molto incerto. Le armi di distruzione di massa sono già in troppe mani, non sappiamo chi, dove e come le userà per primo.
La risposta americana fa parte della vecchia logica?
Sì. Gli Stati Uniti hanno agito secondo la vecchia logica. Invece di combattere il terrorismo con un’azione di polizia, il presidente Bush ha lanciato una squillante chiamata alle armi contro determinati Stati, che ha chiamato “asse del male”. Dal mio punto di vista, chiunque attacchi civili innocenti è un criminale che deve essere arrestato e processato. Le udienze devono essere pubbliche affinché tutto il mondoveda in faccia il criminale, come successe a Norimberga, e poiché il terrorismo è un crimine contro l’umanità, la corte dovrebbe essere costituita da giuristi di tutti i paesi. Il Tribunale penale internazionale recentemente istituito a Roma potrebbe essere una sede appropriata per tali processi. Credo che se bin Laden fosse catturato dovrebbe essere portato davanti a questo tipo di corte, e non davanti a un tribunale americano, perché ha commesso un crimine contro l’umanità.
Ma il presidente Bush vive ancora in un’altra epoca della storia, l’era della sovranità nazionale e delle soluzioni nazionali ai problemi globali. Ha identificato tre paesi come i costituenti dell’Asse del male, l’Iran, l’Iraq e la Corea del Nord. Ma questi paesi non sono alleati tra loro in modo dimostrabile. Né sono più malvagi di attuali o passati alleati degli Stati Uniti. Anche alcuni europei hanno detto che l’analisi di Bush è troppo semplicistica. L’esercito britannico si oppone al Primo ministro Blair che vuole aiutare Bush, e anche il Pentagono ha serie obiezioni nei contronti dei piani di attacco all’Iraq.
Secondo me i paesi che hanno una popolazione eterogenea, come gli USA, l’Iraq, l’India, Israele o il Pakistan, hanno bisogno di nemici esterni per unire il proprio popolo. E se non hanno nemici credibili se li inventano.
Bush si sta muovendo in questo modo anche per ragioni di politica interna. Un presidente in guerra contro dei nemici guadagna popolarità ed è difficile da battere alle elezioni. La sua linea ha avuto influenze forti sugli accordi internazionali, con abrogazione del trattato ABM (anti missili balistici) e il rifiuto di ratificare sia gli accordi di Kyoto per il controllo dell’inquinamento che il trattato di Roma sul Tribunale penale internazionale.
Lo shock dell’11 settembre è stato grande. Ma gli americani si riprenderanno presto. Ci sono già molte voci di ragionevolezza tra i repubblicani, i democratici e gli indipendenti che dissentono da tale linea politica.
Qual è la nuova logica, allora? Possono, le istituzioni politiche e sociali, imporre un nuovo modo di concepire la coesistenza tra i popoli?
Queste istituzioni hanno bisogno di tempo, pazienza e dedizione per svilupparsi. Ma una volta create giocano un ruolo vitale nel creare controlli ed equilibri nella società globale.
La SGI, ad esempio, non è stata creata in un giorno. Ha avuto un martire come Makiguchi, le sofferenze di Toda, i duri sforzi di Ikeda e dei suoi collaboratori. Ora è un’organizzazione vitale in tutto il mondo e sta facendo un lavoro meraviglioso. Perché prosperino istituzioni come la SGI è necessaria una grande dedizione, una forte determinazione e dei membri attivi. Un altro esempio è l’Istituto Toda. Fondato da Ikeda sensei, dopo sei anni ha costruito una rete globale di circa quattrocento esperti di pace che collaborano reciprocamente pubblicando libri, articoli e giornali per la causa della pace mondiale.
Organizzazioni intergovernative come le Nazioni Unite, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e il Tribunale penale internazionale (ICC) hanno bisogno di un grande lavoro di negoziati per poter essere istituite. Sfortunatamente ci vuole una grande tragedia per scoprire l’ovvia necessità di una cooperazione globale. Ci sono volute la prima guerra mondiale per istituire la Lega delle nazioni e la seconda guerra mondiale per fondare le Nazioni Unite.
Lasciatemi fare un esempio. In collaborazione con altre istituzioni per la pace, l’Istituto Toda ha iniziato un progetto nel 1998 per portare i governi degli Stati che si affacciano sul Golfo Persico a una tavola rotonda per discutere di una loro cooperazione futura. Questi otto Stati hanno vissuto due guerre sanguinose negli ultimi vent’anni e si trovano frequentemente di fronte all’eventualità di una terza guerra mondiale. Il nostro scopo è che i loro governi arrivino a comprendere che la guerra non conviene. Vogliamo incoraggiarli ad andare avanti insieme e a costituire un sistema di sicurezza regionale. La prima difficoltà che abbiamo dovuto affrontare è particolarmente curiosa: come deve essere chiamata la regione? Golfo Persico? Golfo Arabo? O semplicemente Golfo? Se la avessimo chiamata Golfo Persico gli arabi non sarebbero venuti, ma se la avessimo chiamata Golfo Arabo o semplicemente Golfo non sarebbero venuti i persiani. Così abbiamo deciso di chiamare la regione “Asia occidentale” e abbiamo istituito una Corte internazionale per la sicurezza e la cooperazione in Asia occidentale, che include diplomatici ed esperti degli otto Stati e i rappresentanti dei cinque Stati del Consiglio di sicurezza dell’ONU. La Commissione si è incontrata quattro volte in quattro anni: a Istanbul nel 1999, a Cipro nel 2000 e 2002, a Doha nel 2001. Tra i membri della commissione sono nati fiducia reciproca e familiarità, e abbiamo avuto discussioni aperte e franche sia sui problemi comuni che sulle differenti realtà. Ma non siamo riusciti ad arrivare a una consapevolezza comune della necessità di una tangibile cooperazione regionale.
Ci siamo allora rivolti alla società civile. Al nostro ultimo incontro del marzo 2002 abbiamo lanciato un progetto di ricerca sulla democratizzazione. Noi siamo un’organizzazione non governativa, un istituto di ricerca, quindi possiamo dare il nostro migliore contributo nell’area della ricerca e delle pubblicazioni. Questo è l’approccio delle istituzioni della società civile, ovviamente ciascuna nella propria sfera di attività.
Fino a oggi le organizzazioni della società civile sono state una minoranza. Può il loro lento sviluppo avere una qualche influenza? E il movimento no-global?
La crescita delle organizzazioni non governative (ONG) è stata fenomenale. Secondo la Commissione sul governo globale, nel 1995 ce n’erano trentasettemila. Ora questo dato è sensibilmente cresciuto soprattutto nei paesi meno sviluppati dove la società civile è più debole.
Nei paesi sviluppati siamo stati testimoni della nascita di un movimento anti-globalizzazione a Seattle nel 1999. Per la prima volta sindacati, movimenti femministi, organizzazioni per la difesa dei diritti umani si sono uniti insieme e hanno cominciato a portare avanti tematiche che all’inizio sembravano astratte e globali, ma che si sono rivelate molto importanti per le politiche locali e nazionali. Temi come l’inquinamento, i diritti umani, l’assetto economico del mondo sono cruciali per tutti noi. Il movimento no-global, a partire da Seattle, ha avuto una certa influenza sui governi. Quanto forte sia stato questo impatto è troppo presto per dirlo, ma certamente alcuni funzionari della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e del WTO ora sanno che c’è un altro punto di vista. Prima di Seattle i loro piani erano piuttosto autoreferenti, ed essi pensavano di riuscire a promuovere un tipo di crescita economica che sarebbe arrivata naturalmente fino alle classi povere. Ma l’economia non è così semplice.
I governi e i gruppi economici fanno i loro interessi particolari. Le organizzazioni della società civile possono giocare un ruolo cruciale, perché possono correggere le loro tendenze eccessive. Quanto profondamente lo vedremo. Dipende.
Normalmente i governi e le multinazionali sono lenti nelle loro risposte. Si tratta di istituzioni convenzionali che pensano sulla base del passato. Spesso avrete udito l’espressione: i generali combattono le vecchie guerre, non le nuove. Anche i politici spesso operano secondo vecchi paradigmi. Questa è la loro natura. Ma le istituzioni della società civile che soffrono le conseguenze di un dominio economico e politico e dello sfruttamento possono protestare. Possono guardare al futuro e proporre alternative. A suo tempo quell’alternativa potrà essere tradotta in realtà.
Nei libri di storia si parla solo di guerre, non c’è traccia di una cultura nonviolenta, e così i bambini imparano che i conflitti si risolvono solo con la violenza. Oggi, accanto agli atteggiamenti guerrafondai, sta crescendo una cultura della nonviolenza. Come possiamo trasmetterla alle nuove generazioni?
C’è stato un tempo nella storia in cui eravamo cannibali. Ci divoravamo l’un l’altro nella credenza che l’unico modo per carpire il potere dei nemici fosse quello di mangiare la loro carne. Ci sono persone oggi che sostengono che l’unico modo per andare avanti è usare la forza.
Ma noi sappiamo che le forze culturali, morali e spirituali hanno contribuito significativamente al progresso umano. Le forze culturali lavorano in tandem con le forze materiali. Noi ci siamo mossi attraverso un’evoluzione materiale dal nomadismo alle civiltà agricole, commerciali, industriali e tecnologiche. In questo processo ci siamo culturalmente evoluti dal cannibalismo, la schiavitù, la servitù della gleba, l’assolutismo, il patriarcato, ai diritti umani universali e ai valori e alle norme democratiche.
Comunque i diritti umani e la democrazia non sono patrimonio universale, viviamo in un mondo disuguale sia materialmente che culturalmente. Per esempio, quando un popolo passa dall’agricoltura all’industria, il commercio e lo scambio diventano via via più importanti. Per questo motivo oggi abbiamo sviluppato una crescente dipendenza internazionale. Gli Stati Uniti e la Cina, ad esempio, necessitano l’uno dell’altro per il loro benessere. Di conseguenza, entrambi i governi sono più attenti nel fare ricorso alla guerra per risolvere le loro dispute.
Il cannibalismo cessò quando era diventato controproducente. Prima dello scambio economico e culturale, la violenza tra le tribù in guerra spesso portava all’annientamento del nemico. Gli scambi ammorbidirono in una certa misura questo modo di fare.
Ci sono molti altri metodi oltre alla violenza, come la negoziazione, il patteggiamento, la mediazione, l’aggiudicazione, l’arbitrato, il dialogo e l’amore. Quando si istituisce un governo costituzionale, cioè un governo di leggi, si decide di parlamentare invece di combattere. Analogamente, a livello internazionale, quando e se noi decidiamo di avere un sistema costituzionale globale invece della legge della giungla, poniamo le basi per risolvere i nostri conflitti innanzitutto attraverso decisioni giurisdizionali. Questo sta già succedendo in una certa misura con la Corte internazionale di giustizia (ICJ) e il WTO. Anche se non abbastanza velocemente.
Nei conflitti umani, l’amore è il metodo più efficace e duraturo per risolvere i conflitti. Se in un conflitto io mostro affetto, considerazione, ti porto un regalo, ti chiedo notizie della famiglia, tu probabilmente mi risponderai a tono, non mi picchierai. Questo è il metodo auspicato da Budda, Gesù, Gandhi, King e Ikeda. Io credo che noi ci stiamo muovendo gradualmente in questa direzione.
Come può questo metodo essere condiviso da un numero crescente di persone?
Noi umani siamo animali culturali. Il nostro comportamento è largamente determinato dai nostri valori, da norme e istituzioni. Possiamo imparare a essere violenti oppure possiamo imparare a ricorrere ad altri metodi di risoluzione dei conflitti. Se viviamo nelle condizioni di una giungla, nei bassifondi, in un campo profughi, o nel caos politico, apprendiamo che possiamo difenderci meglio usando il fucile. Ma se invece viviamo sotto un governo istituzionale sia a livello nazionale che internazionale, e in famiglia, a scuola, nelle strutture religiose e nei luoghi di lavoro ci insegnano che dovremmo usare metodi nonviolenti per la risoluzione dei conflitti, noi ci comporteremo in questo modo.
L’umanità ha fatto una lunga strada sia tecnologica che morale. La Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani sono l’equivalente morale di un grande progresso tecnologico. Comunque abbiamo ancora un lumgo cammino davanti a noi. Ricordiamoci che la pace e la democrazia sono viaggi, non destinazioni. Dobbiamo sforzarci costantemente di raggiungerle senza riposarci sugli allori.
(ha collaborato Francesca Corrao)
Buddismo e Società n.93 – luglio agosto 2002
Da un cronista di guerra un impegno di pace - Intervista a Tiziano Terzani
«Vi premetto che l’unica qualità con cui vorrei andarmene alla fine della vita è la sincerità. Quindi chiedetemi quello che volete, cercherò di essere sincero». Con queste parole ci accoglie Tiziano Terzani – capelli bianchi, barba bianca, tunica da indiano e un inconfondibile accento toscano – nella sua casa sui colli fiorentini dove vive con la moglie Angela, compagna di sempre.
Una casa che testimonia la ricchezza di una vita vissuta fino in fondo. Ci sono libri in tutte le lingue, il letto cinese, il bastone con cui ha scalato il monte Fuji. Ricordi di tanti paesi, di tante guerre, di tante rivoluzioni.
E c’è l’oggi. L’imminente ritorno al “rifugio” himalayano e il viaggio per la pace appena concluso. Un mese e mezzo in giro per l’Italia a presentare il suo libro Lettere contro la guerra, a parlare, discutere, raccontare. Suscitando interrogativi, accendendo speranze, voglia di agire e di reagire.
Terzani conosce la Soka Gakkai, tanti anni fa in Giappone aveva incontrato Daisaku Ikeda. Su un tavolino c’è il suo libro di dialoghi con Michail Gorbaciov. «Ma quanti siete, in Italia? In quasi tutti gli incontri che ho avuto c’era qualcuno che mi parlava dell’impegno della Soka Gakkai per la pace, mi parlava di Ikeda, voleva regalarmi un suo libro. Sono rimasto molto colpito di come il Buddismo sia diffuso qui da noi».
E tanti membri, da tutta Italia, hanno telefonato in redazione chiedendoci di intervistarlo. Un suggerimento che abbiamo seguito…
Come ha deciso di diventare giornalista?
Io sono il primo della mia schiatta che sa leggere e scrivere. Vengo da una famiglia poverissima, i miei primi pantaloni lunghi furono comprati a rate. Mio padre faceva il tagliapietre ma era una persona saggia, coltissima, citava Dante, sapeva il Rigoletto a memoria.
Così ho cominciato a fare il giornalista a sedici anni per guadagnare un po’ di soldi: la domenica, quando i miei amici andavano alle feste da ballo con le ragazzine, correvo con la vespa a seguire le corse ciclistiche o le partite di calcio. Ma al giornalismo vero e proprio sono arrivato che avevo già trent’anni, perché nel frattempo mi ero laureato in Legge e mi ero sposato molto giovane con la mia splendida moglie. Per mantenere la famiglia andai a lavorare all’Olivetti, dove per cinque anni ho fatto l’operaio e ho venduto macchine da scrivere. Poi finalmente, quando avevo 27-28 anni, mi offrirono una borsa di studio che mi permise di andare alla Columbia University a studiare il cinese, con il quale avrei potuto finalmente realizzare il mio sogno: conoscere l’Oriente.
Dopo la laurea tornai in Italia e andai a lavorare al quotidiano Il Giorno, dove feci il praticantato e l’esame da giornalista professionista. Appena avuto il tesserino in tasca chiesi al mio direttore di andare a fare il corrispondente in Asia: era il 1971. Mi rispose di no. Incontrai i direttori dei principali quotidiani, ma nessuno poteva soddisfare la mia richiesta. Allora diedi le dimissioni, e con il denaro della liquidazione di un anno e mezzo di lavoro cominciai a girare per l’Europa con mia moglie e due figli piccoli.
Ho avuto fortuna. Parlavo francese, inglese e tedesco… Ad Amburgo mi presentai al settimanale Der Spiegel dove mi offrirono il primo vero contratto di inviato. Mi garantivano soltanto un piccolo fisso, ma andare in giro per il mondo, cercare di capire cosa succede, era proprio quello che volevo fare da sempre.
Da lì è cominciata la sua avventura, la sua ricerca di capire gli altri?
La vita è una cosa molto strana e meravigliosa, quando la si vive non ci si rende bene conto di come stanno le cose: si è lì, in quel momento. È solo quando si invecchia che ci si guarda indietro e si vede che c’è un filo che collega tutto. Per me questo filo era la curiosità, la curiosità di capire l’altro. La spinta ad andare là dove c’era qualcosa che non era mio, per capire, per rendermi conto.
Tra noi e l’altro c’è una distanza naturale, noi riteniamo altro lui e lui ritiene altri noi. Nelle guerre questo è ancora più evidente, perché le guerre, è ovvio, nascono quando gli uni non capiscono le ragioni degli altri, e gli uni dicono che il male è lì mentre gli altri dicono che il male è qui, e in nome di questo Dio io ammazzo te e in nome di un altro Dio tu ammazzi me. Bin Laden, Bush, ora Sharon…
Il mio istinto è stato sempre quello di capire chi fossero “gli altri”. Nel 1973 ero in Vietnam con gli americani, come tutti gli altri giornalisti. Stavamo al di qua del fronte e gli altri sparavano. Ma io non sentivo questi “altri” come nemici, a me non avevano fatto nulla. E allora passai le linee e trascorsi una settimana con i Vietcong.
Lei è stato tanti anni in Cina.
La Cina è stata la mia grande avventura. È una grande civiltà, per volerla capire bisogna avvicinarcisi quasi camuffandosi.
In tutte le lingue asiatiche “altro” è una parola orribile. Identifica lo straniero, colui che è fuori, colui che viene da fuori e deve rimanere fuori. Se si è già incapsulati all’interno di una parola che rende stranieri, l’unico modo per avvicinarsi a una cultura è fare come il camaleonte, che prende il colore della foglia se è sulla foglia e il colore della sabbia se è sulla sabbia: diventare sempre di più come l’altro.
Io in Cina parlavo cinese, mangiavo cinese, vestivo cinese, mandavo i miei figli alla scuola cinese, viaggiavo insieme alla famiglia con le biciclettine dei cinesi. E nonostante tutto ciò a un certo punto i cinesi mi hanno chiesto: «Ma tu chi sei? Un italiano che lavora per i tedeschi, che parla cinese imparato in America, sei forse della CIA o del KGB?». Dopo l’interrogatorio e un mese agli arresti, arrivò l’espulsione.
E il Giappone?
Devo dire che il Giappone per me è stato difficile, non ci sono entrato davvero dentro, non sono riuscito a imparare bene la lingua, forse ero troppo vecchio. Poi avevo un handicap: venivo dalla Cina. Chi viene dalla Cina ha difficoltà a capire il Giappone e viceversa, perché si tratta di due realtà simili, ma per niente uguali. Forse è a causa dei caratteri della scrittura: sono gli stessi ma vengono pronunciati in modo diverso.
Un’altra grande differenza: il Giappone è la civiltà del dettaglio mentre la Cina non ha dettagli, è la civiltà della grandeur, non c’è mai l’attenzione per le piccole cose. Sono due prospettive molto difficili da conciliare. E poi c’è da dire che io venivo da un’esperienza drammatica, quella di essere stato espulso dalla Cina.
In Giappone ho passato cinque anni belli, ma alla fine credo di poter dire che io e questo paese non ci siamo davvero intesi. In verità, credo che in questa vita non riuscirò a cambiare le cose, ma se avrò un’altra vita come essere umano – a me piacerebbe essere rugiada nella prossima – vorrei provare a fare i conti con il Giappone.
Può raccontarci la sua esperienza indiana?
I primi cinque anni in India li ho passati da giornalista, dietro ai ministri, agli ambasciatori, alle cene, tra i viaggi, la guerra in Kashmir, il conflitto con il Pakistan. Ma poi mi sono accorto che non sapevo nulla di questo paese.
Ero andato lì perché cercavo la dimensione del divino, ormai assente nel mondo occidentale e nella Cina maoista. In India invece ogni gesto ha ancora a che fare con un altro mondo: il salutarsi, o quando le donne prendono una manciata d’acqua e la porgono al sole la mattina… Com’era da noi cinquant’anni fa, ricordo che mia madre si segnava prima di mangiare. Questo mi affascinava. E poi, l’India mi piaceva perché mi pareva l’ultima civiltà asiatica in cui c’era ancora una forza interiore che poteva essere di freno al materialismo occidentale.
Però dopo cinque anni mi resi conto che di tutta questa roba non avevo visto niente, mi tenevano sempre lì a parlare di guerre, di morti in Kashmir, di programmi di sviluppo, di apertura del mercato delle telecomunicazioni, tutte cose da giornalisti…
Mi mancavano tre anni per andare in pensione. Dissi al mio giornale che non volevo più lavorare, non volevo più fare il corrispondente, correre dietro a tutti i massacri, le alluvioni, i colpi di stato… Così mi hanno fatto un contratto da scrittore “speciale”, talmente speciale che non avevo bisogno di scrivere. Allora ho preso i voti, sono entrato in un ashram induista, mi sono messo a studiare il sanscrito, la mattina alle cinque andavo a pulire le statue con lo yogurt e la polvere di sandalo. Sono entrato in quella realtà. Mi rendo conto che per tutta la vita non ho fatto altro che questo, per tutta la vita una sola cosa mi ha davvero incuriosito: capire gli altri. Ma per capirli bisogna avvicinarli, vivere nel loro mondo.
Come ha conciliato il desiderio di stare dentro le cose con quello di raccontare, di essere testimone…
Io ho avuto molto dalla vita, sono un uomo fortunatissimo. Innanzitutto a diciassette anni ho incontrato mia moglie, e ciò ha determinato tutta la mia esistenza. E poi la vita mi piace, mi diverte, mi affascina, e per istinto la devo raccontare. Non c’è gioia che io provi da solo, perché ho imparato molto presto a spartirla con mia moglie, e poi anche con gli altri. Ma non solo quando una cosa è bella provo il desiderio di condividerla, anche quando mi trovo di fronte un’esperienza orribile, se mi pare di aver capito qualcosa attraverso di essa, mi viene voglia di parlarne agli altri.
Come giornalista, poi, ho quasi sempre scritto in una lingua che non era la mia. Questo ha fatto sì che mi dovessi liberare scrivendo libri nella mia lingua. E mi è andata bene. Se mi guardo indietro mi dico: «Che fortuna!».
Questa sua curiosità istintiva può essere la chiave del rispetto per l’altro…
Credo di sì. L’altro giorno è venuto da me un signore per chiedere una dedica sul mio libro. Mi è venuto da scrivere: «Al signor tal dei tali perché mi aiuti a rendere i turisti dei pellegrini».
Mi spiego: la curiosità che viene dall’interno – non quella di prendere qualcosa da portarsi a casa, il ricordino, la fotografia – parte proprio dal rispetto. Mentre invece l’industria del turismo, una delle più orribili del mondo, sollecita solo una curiosità consumistica. Come si potrebbe recuperarla? Trasformando i tour in pellegrinaggi.
In realtà il turismo è nato proprio così. In un paese come il Giappone, per esempio, si andava al monte Fuji come pellegrini, non come turisti. Quando io sono stato in Giappone mi sono rapato, ho preso il bastone e ho scalato quella montagna con l’idea del pellegrino che vuole raggiungere la cima, che sta camminando su Dio, e allora non lascia cartacce. Se si potesse riportare nel turismo questo atteggiamento, il rispetto, il senso di devozione, si salverebbero i turisti, che saprebbero di più quello che fanno e la smetterebbero di continuare a consumare, e si salverebbe anche il consumabile.
Se ci si mette a studiare una cosa, come si può odiarla? L’odio dell’Occidente verso l’Islam risiede in gran parte nel fatto che nessuno se ne occupa più, nessuno più studia questa cultura. Provate a vedere quanti studenti all’università studiano l’arabo: pochissimi. È chiaro che così si aumenta la distanza. Ma se ci si mette a studiare, l’oggetto del proprio studio diventa anche l’oggetto del proprio amore. Il rispetto nasce dalla conoscenza, e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo.
Come si può coniugare il rispetto, il riconoscimento di una cultura altra e la nostra idea occidentale di universalità dei diritti umani…
Questo è il vero grande problema. Innanzitutto bisogna intendersi sulle parole. Le parole di per sé sono una trappola. Per esempio, cosa significa felicità? Per Gengis Kan forse la felicità era ammazzare un migliaio di persone, chiamare il capo di quella tribù, prendergli la moglie, violentarla sotto i suoi occhi e poi tagliarle la testa. Ma per me quella non è felicità.
Quindi parlare di diritti umani, di universalità dei diritti umani, mi lascia qualche perplessità… Vorrei che i diritti fondamentali fossero sempre rispettati, ma onestamente mi chiedo: siamo tutti d’accordo sull’universalità di questi diritti?
Certo che c’è qualcosa che accomuna gli esseri umani, che dovrebbe essere il rispetto per tutti. Un occidentale ha forse meno paura della morte di un orientale? Forse la psiche è diversa tra un orientale e un occidentale? Non credo. Un orientale ama più o meno come un occidentale, ha la stessa paura di essere solo… Secondo me di cuore ce n’è uno solo, e il cuore è uguale per tutti, la voce del cuore sa quali sono i diritti umani, i diritti degli animali, il cuore parla allo stesso modo nel petto di tutti, musulmani, ottentotti, bantù, esquimesi, uomini, donne. Il problema è che questa voce del cuore non la sta più ad ascoltare nessuno, c’è tanto rumore, quella è una voce piccola, che bisbiglia, proprio un soffio a volte.
È da questo, a suo avviso, che dipendono le difficoltà sempre più gravi che il mondo si trova a fronteggiare?
L’umanità sta affrontando un periodo di spaventosa barbarie, le torri che crollano sono una barbarie, il modo con cui l’occidente reagisce – perché non sono solo bombe americane, sono bombe di tutti – è un’altra barbarie. E Guantanamo – la base americana sull’isola di Cuba dove vengono portati i prigionieri afgani – non è una barbarie? Forse potevano risparmiarsi la foto del marine che tiene l’arabo legato come un cane con la camicia di forza. Quella foto non l’ha mica rubata un paparazzo, l’ha fatta un fotografo ufficiale del Dipartimento della difesa ed è stata diffusa nel mondo perché volevano farla vedere, volevano soddisfare la fame e la sete di vendetta dell’opinione pubblica americana.
Quello che mi stupisce è come mai un paese che per tanti anni ha fatto giustamente la lotta per la difesa dei diritti umani nei confronti del mondo comunista, nei confronti di tante dittature africane, d’un tratto fa distinzione tra cittadini americani e cittadini non americani.
Ci sono voluti centocinquanta anni per mettere a punto la Convenzione di Ginevra, per dare una vernice di umanità alla convivenza umana, e ora viene tutto messo da parte in nome dell’interesse nazionale americano, della lotta al terrorismo. Di nuovo l’ambiguità delle parole: ma chi è il terrorista?
Certo, ci vogliono le istituzioni, ci vorrebbero le leggi, ci vorrebbero le definizioni, ma a corto di tutto ciò bisogna fermarsi, rallentare, bisogna sedersi, chi sa pregare preghi, chi non sa pregare faccia qualcos’altro. E allora prendiamo coscienza di esserci e cominciamo a ragionare, cosa vogliamo diventare, da dove veniamo, dove stiamo andando.
Voi, con le vostre preghiere, trovate una consolazione tutti i giorni… Permettetemi di dire che avete scoperto l’acqua calda, ma quest’acqua calda l’hanno dimenticata tutti. Com’è possibile che con tutte queste scienze delle comunicazioni, con tutti questi telefonini, abbiamo dimenticato le cose fondamentali?
Ma pensi ai suoi nonni, o ai miei bisnonni, la mattina si alzavano e pregavano, andavano nei campi, tornavano la sera e c’era il vespro, prima di andare a cena guardavano il pezzo di pane e dicevano grazie, c’era sempre un momento in cui si ringraziava, oggi siamo tutti distratti, tutti di corsa…
A volte mi intristisce un po’ che questa grande vecchia civiltà europea, che aveva una sua storia e che potrebbe ritrovare anche all’interno di se stessa dei valori, deve avere dei giovani che viaggiano fino in Oriente e vanno a cercare la soluzione laggiù.
Credo che occorra cercare in se stessi le proprie radici, la propria ricchezza. Non è un caso che si stia diffondendo proprio il Buddismo, che non è una religione, è una civiltà, non ha comandamenti o dogmi. Einstein diceva che il Buddismo è l’unica religione che si confà alla mentalità scientifica. A Bodhigaya ho visto mongoli, tibetani, cinesi, srilankesi, europei, e ho avuto per la prima volta il senso di come il Buddismo sia una grande religione, una religione universale.
Tornando all’universalità dei diritti umani, come possiamo agire in loro favore senza calpestare l’identità delle altre culture? Come possiamo porci, ad esempio, nei confronti del burqa indossato dalle donne afgane?
Il punto è chiedersi: dobbiamo aiutare altri popoli, che ci sembrano oppressi, a volere quello che vogliamo noi? Bisogna per prima cosa rendersi conto che nel mondo ci sono oggi milioni e milioni di persone che non vogliono essere come noi.
Sono orgogliosissimo di essere italiano, di essere fiorentino, di essere europeo, ma dico, specie ai giovani: «Siate orgogliosi di essere chi siete, però non pretendete che la vostra cultura abbia il monopolio di tutto, il monopolio della dignità della donna, il monopolio della civiltà, il monopolio della felicità, del benessere, del progresso. Analizzate, confrontatevi, difendete la vostra in maniera giusta, non violentemente».
Io trovo bello, meraviglioso esserediversi. Pensate alle donne giraffa del nord della Birmania, che portano quei lunghi collari. È una tortura terribile, ma cosa dovremmo dire loro: «Toglieteveli»? Non solo il loro collo è diventato così lungo che levando il collare soffocherebbero, ma soprattutto in questo modo sarebbero private della loro identità. Tutta la vita sognano questo… Alla lunga se non gli andrà più bene saranno loro a cambiare, le trasformazioni economiche e culturali porteranno a questo mutamento, ma l’idea che ci debba essere un gruppo di donne americane che gli tolgono i collari è una follia.
Riguardo al burqa è lo stesso. Sono d’accordo che è l’espressione di un aspetto maschilista dell’Islam, ma è anche una tradizione di centinaia di anni. Ci sono gruppi di coraggiose donne afgane che risolveranno il problema. Ma mi chiedo nuovamente: dobbiamo aiutarle a volere quello che vogliamo noi?
Si ritorna a quanto dicevamo all’inizio: il rispetto delle altre culture è una grande cosa, quello che va evitato è lo scontro tra civiltà, che porterà alla fine di tutto. Mai come ora l’umanità ha avuto in mano armi di distruzione di massa così potenti, e questo rappresenta un pericolo per tutti gli esseri umani, ma l’idea che gli americani vogliono andare a bombardare Saddam Hussein per togliergli queste armi è assurda, come se solamente loro avessero il diritto di possederle.
Ma allora perché non ricominciamo da zero, non eliminiamo le armi e smettiamo di produrle?
Dopo l’11 settembre si è detto da più parti che interpretare gli attuali conflitti come scontri tra civiltà è una posizione pericolosa e fuorviante. Secondo lei oggi, nei conflitti, pesano più gli aspetti ideologici o quelli economici?
Questa domanda mi permette di esprimere una mia posizione ben precisa. Per trent’anni ho fatto il giornalista, e mi sono sempre dovuto occupare di quello che si pensa domani, la prossima settimana o il prossimo mese. Non c’è dubbio che se fossi giornalista e dovessi analizzare la situazione di oggi direi che per la popolazione americana l’istinto di vendetta è comprensibile, perché si sono presi una botta spaventosa. Direi anche che dietro c’è il petrolio, c’è l’interesse delle aziende militari che vogliono rinnovare tutto l’armamento, la voglia di essere una superpotenza.
Ma oggi voglio fare un passo in avanti: le vere radici della violenza, cioè della guerra, secondo me non sono fuori di noi. La violenza ha le sue radici dentro, nelle nostre passioni, nei nostri desideri, nella nostra voluttà, nel nostro arraffare, nel nostro voler possedere più che volere essere.
Di questo sono assolutamente convinto, e quindi arrivo a dire che le rivoluzioni esterne sono state dei disastri. Quelle di questo secolo le ho viste tutte, all’inizio o alla fine. Sulla fine della rivoluzione sovietica ci ho scritto un libro, Buonanotte signor Lenin. Che disastro, le montagne di morti, le montagne di lacrime, le tracce di orrore, di tristezza… E quella cinese? Quanti morti… E quella vietnamita? Perciò sono arrivato a questa conclusione, che è la mia ultima speranza: forse l’unica rivoluzione da fare è quella interiore, che non fa morti, non massacra, non lascia tristezza.
Ci vorrà tempo, forse due vite, tre, quattro generazioni, ma è questa una buona ragione per non cominciare? Dico sempre che se ognuno di noi fa una piccola cosa, allora tutti insieme ne facciamo una grande.
Quindi se ognuno di noi decide di fare qualcosa…
Ma cosa vogliamo sperare, che Bush ci salvi dall’orrore del mondo? Forse ci salviamo noi se è vero quello che sento, che la vita è una, che siamo tutti collegati. Il Buddismo ha dato veramente il contributo più grande. Mi piace raccontarlo come fa Thich Nhat Hanh, quando dice che il tavolino che ha davanti è lì perché migliaia di cose hanno contribuito: quel seme, quel giorno che ha piovuto, quella pianta che è diventata albero dentro la foresta, il boscaiolo che va e lo taglia, e poi lo porta in una segheria dove c’è un falegname, e il falegname prende i chiodi, e anche i chiodi vengono da una miniera dove un giorno un altro signore è andato a comprarli. Bastava che il nonno del falegname non fosse nato, e quel tavolo non sarebbe stato lì…
Se la vita è così, allora perché vogliamo eliminarne un pezzo che non ci sta bene?
Se riuscissimo a dire: «Siamo tutti parte di questa cosa», se riuscissimo con questa benedetta coscienza a prendere coscienza di chi siamo, dove siamo, da dove veniamo, dove andiamo, forse… Io per un mese e mezzo sono andato in giro per l’Italia a parlare di queste cose, e la cosa curiosa è che la gente mi sta ad ascoltare. Nelle tante lettere che mi scrivono il tono è sempre questo: «Grazie, lei dice quello che sento». Siccome sono vecchio e non ho più paura di essere preso per pazzo dico le cose che sento… e la gente questa pazzia la riconosce, è la pazzia di tutti, tutti vogliono vivere in pace, chi vuol mandare i propri figli a morire?
Però soltanto quando si vedono i morti altrui come propri, quando si sente la sofferenza sui corpi degli altri come sul proprio, allora si comincia a ragionare. Il cammino di pace può partire da tante considerazioni: secondo me è l’unico cammino oggi. Qualcuno mi ha detto: ah, tu parli sempre della pace, ma in tutta la storia dell’umanità c’è stata sempre la guerra… Io ho risposto, citando Gandhi: ma perché ripetere la vecchia storia e non cominciarne una nuova?
L’essere umano che noi siamo oggi non è allo stadio definitivo, veniamo dalla scimmia, ci sono voluti cinque milioni di anni per diventare così. Questa non è la fine della nostra specie, è una parte della sua storia. Allora perché non approfittare ora di questa bella cosa che è la coscienza per fare un passo in su invece che in giù? Visto che possiamo ancora cambiare, perché non prendiamo la decisione di cambiare in meglio, un po’ più di fratellanza, un po’ meno violenza…
Ma guardatevi davvero bene attorno, guardate la televisione, siamo all’inizio di una svolta orribile di disumanità, di atrocità, di imbarbarimento… Vogliamo continuare in questa catena oppure, come io dico, cogliere questa buona occasione? Tutto il mondo ha visto le torri crollare, e tutto il mondo tutte le sere vede la Palestina, com’è che la gente non si sveglia? Io ci spero ancora: questa è una buona occasione, l’occasione che tutti dicano basta, non si può andare avanti così…
In realtà anche noi siamo complici di tutto ciò.
Io dico che siamo inconsapevoli complici, non c’è dubbio, siamo corresponsabili. Se non prendiamo coscienza e non diciamo basta….
Come facciamo noi occidentali a vivere questa contraddizione? In realtà tutti virtualmente abbiamo bombardato l’Afghanistan.
Sono d’accordo, e mi vergogno… Ci sono momenti nella storia in cui vivere normalmente, come se non fosse successo niente, è vergognoso. Bisogna arrestare un attimo la propria vita frenetica e dire no, parlare con gli altri, contarsi. Viviamo ancora in un sistema democratico, possiamo fare qualcosa. Io ho scritto un libro, vado in giro, parlo, ognuno fa il suo. Durante una delle mie presentazioni un signore anziano si è alzato e ha chiesto come avrebbe potuto contribuire. Io gli ho domandato: «Ma lei cosa faceva nella vita?». «Io suonavo». «E allora si rimetta a suonare per la pace, insegni ai giovani a godere della musica, se amano la musica verranno fuori dei pacifisti, forse…».
Cosa direbbe a un bambino?
Gli parlerei di una cultura di pace. Ieri il mio editore mi ha detto: «Visto che ha un nipotino di due anni e mezzo – a cui è dedicato l’ultimo libro Lettere contro la guerra, ndr – perché non scrive un racconto per lui?»
Io mi rendo conto che sono vissuto tutta la vita senza essere esposto a delle idee di pace, tutta la storia che studiamo parla di massacri, di guerre, Alessandro è Magno (grande) perché ammazza tutti… Sono dovuto arrivare a sessant’anni per scoprire in India che l’imperatore Ashoka, vissuto nel terzo secolo a.C., dopo una battaglia disse: «Che cosa terribile ho fatto!», e cambiò profondamente. Davanti al museo nazionale di Delhi c’è una stele dove si annuncia che Ashoka aveva aperto in Siria due ospedali, uno per gli umani e uno per gli animali. Questo accadde più di duemila anni fa. E noi parliamo tanto di progresso. Un bambino che sa queste cose cresce in modo diverso.
Davvero sono preoccupato… le cose sono complicate, non mi aspetto niente di buono, senonché continuo a credere che questa possa essere ancora una buona occasione. Questi orribili mezzi di comunicazione di massa che oggi mi spaventano sono anche un potente aiuto.
Esiste allora un lato positivo della globalizzazione?
Certo. Questo mio pellegrinaggio di pace che mi ha portato in diverse città italiane a parlare del mio ultimo libro è cominciato con una letterina, una e-mail che ho mandato a tre o quattro amici dal mio rifugio sull’Himalaya. Questi a loro volta l’hanno mandata ai loro amici e agli amici degli amici, ed è diventata una catena di S. Antonio. A un certo punto ho ricevuto la telefonata di un preside di un liceo di Foggia che mi diceva: «Ho avuto la sua e-mail da una monaca buddista di Katmandu». Vedi la globalizzazione…
In questo viaggio in Italia ho incontrato migliaia di giovani, migliaia di persone, ho fatto a volte tre riunioni al giorno. Se in ciascuno di questi incontri ho acceso anche una sola lampadina, e questa ne ha accesa un’altra e così via… posso essere contento, ho fatto il mio dovere. E ora torno per un po’ alla mia meravigliosa montagna.
Buddismo e Società n.92 – maggio giugno 2002
Ripartiamo dalla differenza - Intervista a Luisa Muraro
Considerata una tra le maggiori filosofe contemporanee è autrice dalla vasta e multiforme creatività.
I suoi scritti: La signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifesto-libri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D’Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000), Le amiche di Dio(D’Auria, Napoli 2001).
Con la comunità filosofica Diotima ha pubblicato sei volumi collettanei: Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, 1987, Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, 1988, Il cielo stellato dentro di noi, La Tartaruga, Oltre l’uguaglianza: Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1994, Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999 e Approfittare dell’assenza , Liguori, Napoli 2002 (in stampa).
È diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997.
Il secolo delle donne: così Daisaku Ikeda – presidente della Soka Gakkai Internazionale – ha a più riprese definito il periodo storico iniziato con il 2001. Un’indicazione e un auspicio. Perché egli riconosce una qualità speciale al genere femminile: mettere al centro i valori della vita e dello spirito piuttosto che quelli dell’esclusione e della forza, tradizionalmente legati alla psicologia maschile. «L’entrata in scena delle donne – ha scritto nella proposta di pace presentata all’ONU l’anno scorso – avrà una portata che andrà al cuore della civiltà umana, e si rivelerà più importante e vitale dell’ottenimento della parità legale ed economica».
Abbiamo chiesto a Luisa Muraro, filosofa del pensiero della differenza in Italia, di aiutarci ad approfondire in che cosa consista questa specificità del genere femminile, a partire dalla sua esperienza, dai suoi studi, dalle sue riflessioni sulla differenza di genere e dalla pratica delle “relazioni politiche” con altre donne.
L’abbiamo incontrata a Milano, nella nuova sede del Circolo della Rosa insieme a Vita Cosentino, Clara Jourdan, Sara Gandini, Laura Colombo, Laura Modine, Traudel Zatler, Laura Minguzzi, del gruppo della Libreria delle Donne. In certi casi le domande dell’intervista che segue sono estratte dai loro interventi.
Si parla spesso di donne e pace, della capacità delle donne di dialogare: dove lei ritiene stia la principale differenza in questo tra una donna e un uomo?
Anche se so che di solito nelle interviste ci si dà del “lei”, noi diamoci del “tu”.
D’accordo. Dov’è, secondo te, la differenza principale tra i due generi per quel che riguarda la pace e la capacità di dialogare?
Vi risponderò per quello che ho capito finora, lavorando con altre (le amiche di Diotima e donne che s’incontrano qui, in Libreria).
La differenza principale tra un uomo e una donna nella capacità di dialogare è nella relazione della donna con la madre, relazione intesa nei due sensi: ogni donna è stata messa al mondo da un’altra donna ed è a sua volta potenzialmente madre di un’altra. Tra la bambina e la madre si instaura una relazione che non è un compimento. Mi spiego: una donna e la sua bambina si parlano un linguaggio in cui, come dire, è presente la possibilità di un’altra creatura: il regalo di una bambola alla bambina dice questo, no? E lo speciale desiderio di diventare nonna, da parte della madre di una figlia, forse continua a dirlo. Nell’amore femminile della madre, c’è posto per gli altri. La differenza principale dunque sta nella relazione con la madre.
Il resto lo fa la storia. La storia è sempre stata vista come una storia di dominio sulle donne, ma bisogna anche imparare a leggere, nella storia, la presenza di scelte femminili.
Per esempio, quella di sacrificare tante cose per dare cura ai bambini e alle bambine. Una scelta che ha umanizzato la società. Infatti, le cure prolungate che ricevono le creature quando vengono al mondo le ricevono essenzialmente da donne, e queste cure prolungate trasmettono civiltà perché imprimono nelle prime esperienze di vita la presenza di qualcuno che ti vuol bene, che si rivolge a te personalmente, qualcuno che ti ha caro e che ha bisogno di essere ricambiato. Dico “qualcuno”, parlo al maschile cioè, perché anche un uomo può imparare a essere madre, sebbene questa resti, storicamente, un’eredità femminile. Il suo valore di civiltà solo oggi – in Occidente, senza fare confronti con altre culture, che non saprei fare – si comincia a scoprire e apprezzare. Ma, come dice il popolo, meglio tardi che mai.
Attraverso quale storia personale sei arrivata a pensare tutto quello che pensi? Quali sono stati gli snodi significativi?
Io ho la vita scandita di trenta in trenta anni. Ora sono alla terza fase. La prima scansione, fino ai trenta anni, è stata quella di formazione, una fase in cui le donne erano per me un sottinteso indispensabile e importantissimo, c’erano le sorelle, le amiche, ma credevo che una donna fosse destinata a entrare nel mondo degli uomini, ed era quello che io stavo facendo.
Poi c’è stato l’incontro con il femminismo, e quindi altri trent’anni di vita “con” e “per” le donne. Per me stessa in sostanza, ma non come individuo fine a se stesso, bensì come una in relazione con altre e, indirettamente, altri. Da questo punto di vista, ero preparata bene dalla vita in famiglia, una famiglia numerosa sotto l’autorità di una madre che lasciava noi più giovani giocare molto liberamente, purché si andasse d’accordo (tanto che, per fare qualche bella litigata, ogni tanto ci voleva, si aspettava che lei uscisse di casa). Torno al femminismo: ero una pensatrice senza idee e col femminismo ho trovato un mare di idee. Mi spiego meglio: la mia formazione (mi sono laureata in filosofia all’Università cattolica di Milano) mi aveva dato idee ma non la competenza simbolica di farle mie, questa me l’hanno data altre donne, con il femminismo. Prima ero un pensatore neutro in un corpo vivo femminile, ora sono una pensatrice che riesce a mettere in circolo le parole con il corpo vivo, i pensieri con l’esperienza.
Adesso, terza scansione, sto lavorando, con altre, per cercare di mettere questa ricchezza della politica delle donne, così come l’abbiamo scoperta e incrementata, a disposizione di chi la pensa diversamente o pensa altre cose, perché prenda forma un pensiero nuovo, nello scambio tra donne e uomini. Abbiamo bisogno di una pratica di relazione nella differenza, cioè tra i due generi, altrimenti si ripete la subordinazione delle donne agli uomini o, in alternativa, la separazione. Infatti le politiche di parità non risolvono i problemi che nascono dai rapporti donna/uomo. È un tema (e più che un tema, si tratta infatti di una svolta profonda) al quale, in Libreria, lavoriamo da un certo tempo e al quale abbiamo dedicato un numero della nostra rivista, Via Dogana 56/57, intitolato “E gli uomini?” Ma molto resta da capire, discutere, inventare.
Cosa intendi quando parli di “ricchezza della politica delle donne”?
Un libro non mi basterebbe per rispondere, ma si può dire molto anche in poche righe. Penso alla scelta, fatta da molte, la maggioranza delle donne, di accordare i propri interessi, professionali e materiali, con quelli delle persone care, all’amore femminile della libertà che, per affermarsi, non ha fatto morti né guerre, penso alla competenza relazionale e al primato della relazione che noi oggi e altre prima di noi hanno praticato e teorizzato. Penso al nostro modo di intendere la politica, come una convivenza che non si basa sui rapporti di forza e di potere (che ci sono e tendono a imporsi, negarlo sarebbe idealismo, ma vanno visti come il fallimento della politica) e anche al nostro modo di parlare e di scrivere di politica, a partire da noi e in concreto.
Per prepararci a quest’incontro, ci hai indicato il tuo ultimo articolo pubblicato su Via Dogana dal titolo “Che cosa ci sta capitando?”. In questo tuo lavoro, scritto dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre, dici, fra le altre cose, che «per molti stare nella maggioranza, stare con quelli che hanno il potere di decidere e l’agio di avere facilmente ragione, è un modo di non sentirsi impotenti, di trovare le parole per sapere quello che capita e dargli un senso». Questo ci ha colpito. Ci puoi dire di più?
Mi capita spesso di ascoltare quello che dicono donne e uomini che non hanno potere e che non sono intellettuali di professione, persone, dunque, che dipendono molto, troppo, dai mass-media, per orientarsi. Sono colpita dalla fatica che fanno e dai molti ostacoli che incontrano, e anche se arrivano a conclusioni con le quali non posso essere d’accordo (per esempio, la diffidenza o l’ostilità per gli immigrati poveri), trovo ingiusto chiudere il discorso con un’etichetta (come razzismo). Tutti abbiamo bisogno di dare un senso a quello che ci capita e non è per niente facile trovarlo in un mondo come il nostro, spesso anzi questo senso non si trova da nessuna parte e bisogna inventarlo, crearlo.
Io non so né potrei creare il senso di cui hanno bisogno le maggioranze che finiscono per votare i demagoghi, esporre bandiere, credere alla propaganda di guerra. Non sono capace, e non c’è nessuno capace di sapere qual è la cosa che interpreta fedelmente quella domanda, so solo che i ragionamenti non bastano, per quanto siano giusti.
Penso che la cosa di cui bisogna rendersi capaci è ascoltare con le antenne il bisogno di senso, in qualsiasi maniera si esprima. Ascoltare profondamente le richieste, farle risuonare dentro di sé e tentare di tradurle in parole accettabili, da offrire agli interessati.
Come si fa a dare parole adeguate?
Prendiamo il caso della partecipazione popolare alla morte di Lady Diana Spencer: quella enorme commozione di massa a molti è apparsa un fenomeno di sentimentalismo deteriore, buono solo per essere sfruttato dai fabbricanti di spettacoli (com’è successo). Ma alcune donne (per esempio Marta Lonzi, autrice di Diana, una femminista a Buckingham Palace) hanno cercato di leggere la verità psicologica e politica di quel fatto. Non si tratta di andare dietro ai fenomeni di massa, ma di cercare di ascoltare quello che ancora non ha trovato parole e, quindi, si manifesta in un modo qualsiasi o malamente. E cercare le parole che mancano.
È un lavoro che può ridurti alla quasi solitudine.
Ci sono cose che per trovarle resti in due o tre. E sono le cose che aiuteranno migliaia, milioni di persone.
Per trovare una risposta che non sia la morte, che non sia la guerra, non sia la distruzione o il patriottismo bieco, che non siano le masse nazificate che fanno le sfilate, bisogna trovare un’altra strada, e per farlo si può cominciare in due o tre. Senza però viversi come “minoranza” e senza fare la conta di tutti quelli o quelle che stanno dalla tua parte, ma restare all’ascolto del comune modo di sentire e di parlare.
C’è una formula di Margherita Porete (una scrittrice spirituale del sec. XIII, che ha pagato con la vita l’audacia del suo pensiero) che esprime felicemente quest’idea: l’anima libera, dice, è “sola e comune”. A essere precisa, lei dice: «Sola con Dio», ma qui si entra in una dimensione per noi difficile da intendere; ci basta sapere che si tratta, come dire, di una solitudine relazionale, in cui un altro è presente o può esserlo.
Dal tuo articolo emerge un altro punto cruciale. Per dare una risposta a «quello che capita – scrivi sempre riferendoti al periodo immediatamente successivo all’11 settembre – non posso mantenere l’abito mentale di aver ragione, perché l’essenziale è ancora da pensare, e finora non c’è nessuno che possa dire di avere ragione, se non quelli che sono morti o si spendono per salvare vite umane». Che cosa intendi dire?
Nella nostra cultura e nella nostra formazione la verità si guadagna dialetticamente, che vuol dire per affermazione e negazione, da cui la grande importanza della critica e del confronto. Chi partecipa a questo processo, ci va con l’abito mentale di avere ragione, salvo scoprire che l’avversario ha ragione lui. Ma se l’altro non parla? Se parla una lingua enigmatica? Se quello che dice è dettato dalla paura? Questa è la prima serie di obiezioni, alle quali si cerca di rispondere, nel campo scientifico, con la pratica del laboratorio (con tutte le riserve che suscitano certe pratiche scientifiche) e, nella vita sociale, con la democrazia: non la democrazia rappresentativa, sia chiaro, che lascia i più nel silenzio, ma quella che una di noi, Lia Cigarini, ha chiamato democrazia relazionale.
Ma c’è un altro tipo di obiezione.
Da qualche anno in qua (l’11 settembre è una data emblematica per un processo già in corso) ci manca il linguaggio necessario a dire quello che ci capita. O, meglio, da qualche anno in qua è spuntata la consapevolezza che ci manca il linguaggio necessario. Di conseguenza, il classico abito mentale con cui si va al confronto con l’altro per la conquista della verità si riduce a essere il pretesto per l’affermazione di sé o del proprio gruppo con i relativi interessi, quando non addirittura una specie di esibizionismo, ivi compreso l’esibizionismo tipicamente postmoderno di chi non crede nella possibilità del vero. Ma come si fa ad alimentare la fiducia nella possibilità di dire o ascoltare qualcosa di vero, senza quell’abito mentale dell’avere ragione? Quale linguaggio mi aiuterà a sapere come cosa giusta e sensata, e a saperlo con ogni evidenza, cioè anche a sentire che l’essenziale, la cosa più preziosa per me, è nelle mani dell’altro?
Proprio qui sta il punto. Infatti dopo aggiungi: «Non diminuire di un etto quello che sai e che sei, ma non cercare riconoscimenti. Metterti anche tu a pensare altro con altri, […] e attraverso questo scambio con donne e uomini, che non può escludere il conflitto, dare vita a un nuovo pensiero, nuovi desideri, nuovi abiti mentali, qualcosa che non sia la dimostrazione che avevo, avevamo ragione, ma un’intelligenza di quello che ci sta capitando e una risposta». Ora ti chiedo: come si fa a non diminuire di un etto quello che si sa e si è e nello stesso tempo aprirsi alle prospettive altrui? In che modo questa capacità ti deriva dall’esperienza della pratica politica tra donne?
Io posso dire la sintesi di un lungo lavoro fatto anche con altre: quando ho cominciato a farepolitica nel senso classico della parola ho capito, e così era, che la politica veniva, e viene, intesa come “una macchina per far capitare le cose”. Pensiamo a Genova durante il G8: da una parte e dall’altra della barricata, tutto è stato concepito e organizzato come una macchina per far capitare le cose. La grande partecipazione alla manifestazione di protesta nasceva da una molteplicità di bisogni e intenti, fra cui quello di stare vicini e insieme ad altri o quello di anticipare simbolicamente un’umanità non divisa dagli egoismi. Ma la forma politica era data dall’intento di produrre un grande evento mass-mediatico. Insomma, la politica intesa come “macchina per far capitare le cose”.
Con la pratica politica fra donne, io ho notato che le cose più feconde ed efficaci, quelle cioè che non si lasciano azzerare nello scontro fra potere e contropotere, vengono con una politica intesa invece come un “intensificare le relazioni” per rendere possibile altro. “Un altro mondo è possibile” (che è lo slogan dei no-global) mi è congeniale, con la sola differenza che l’altro mondo possibile – io sostengo – è già qui, ma spesso imprigionato nella nostra povertà simbolica. Praticare la politica come un intensificare le mediazioni tra sé e sé, tra sé e le altre, tra sé e l’altro, porterà a trovare le mediazioni necessarie, e farà sì che dal reale si sprigioni il di più, quello che è possibile grazie al fatto che c’è un’intensità delle mediazioni. Perché la politica si impoverisce quando le mediazioni sono di bassa intensità, quando sono meccaniche e, peggio ancora, assicurate dai rapporti di potere. Gli uomini politici hanno ormai questa pochezza umana dipinta in faccia, che forse non c’era in loro all’inizio ma ha finito per installarsi, e di solito la gente la vede e si ritrae con una vera e propria ripugnanza.
A questo tipo di mediazioni “intensificate” ti riferisci quando parli di “scambio” da cui emergono nuove idee?
Sì, la qualità degli scambi e, dunque, la loro fecondità, è assicurata dalla ricchezza delle mediazioni, tutto quello che si attiva e si inventa per rapportarsi all’altro. (Quando dico “l’altro” intendo tutto quello, cose, persone, situazioni, che si fa sentire da me come non-me, come non assimilabile a me e al mio mondo.) Non c’è un metodo per far nascere nuove idee, io credo, ma una disposizione favorevole sì, ed è, fondamentalmente, quella del bisogno in cui si è di idee quando si esce da sé e dai propri rifugi e ci si trova in mezzo a cose che non si sanno, a situazioni che non si conoscono. Noi, abitanti della Terra, in questo momento, ci troviamo in questa condizione, ma bisogna diventarne più fortemente consapevoli.
Se ci siano guide per questa dinamica, non so, ma so che, per muoversi nell’ignoto, è importante misurarsi con il giudizio di altre, altri cui riconosciamo autorità. Il presidente Clinton era uno che, liberamente, senza complessi, ascoltava l’autorità della sua compagna, e questo ha fatto di lui, con tutti i suoi limiti, un presidente migliore di quello che sarebbe stato di suo. La cosa che più temo del potere politico oggi (di fatto, il potere degli USA) è l’uso continuo che si fa dei sondaggi per orientare l’azione politica: che la maggioranza elegga i governanti ha un senso, ma che possa orientarli, non ha senso, perché la maggioranza non è dotata di autorità. Può riconoscere una buona scelta, io ne sono convinta, ma dopo, non prima che sia fatta.
Parliamo di conflitti. L’incapacità a confliggere in modo “costruttivo” è piuttosto diffusa. La difficoltà sta proprio nel mettersi in gioco sapendo anche che in quel conflitto, se è un conflitto di parole, un conflitto di senso, non viene uccisa l’integrità di una persona ma vengono trovate nuove mediazioni che rendano possibile qualcos’altro. C’è un modo per imparare a fare questo?
Il gusto e la capacità di confliggere si basano sulla convinzione della fecondità del conflitto, che non è mai tempo perso e non ammazza nessuno, come voi giustamente dite. In proposito, c’è solo una cosa che io so bene e cioè che quando sono convinta di avere ragione – e questo capita nelle relazioni politiche con donne come nella mia università – devo trovare o creare un terreno comune su cui ci si possa avventurare, e farlo vedere all’altro che altrimenti s’impaurisce e scappa. Per fare questa fatica di aprire un terreno comune, bisogna essere convinti, convinte della fecondità del conflitto. Non avere, dunque, come ideale e misura il perfetto accordo. Né immaginarsi che l’altro abbia chissà che cosa da dirti, o viceversa, che tu hai chissà che cosa da dire all’altro. Ha da dirti qualcosa il vostro accettare il conflitto: che l’altro accetti di venire allo scontro. È una relazione di scambio anche questa e, in non pochi casi, può essere l’unica praticabile. Nella mia università non ho mai aperto conflitti di alto livello, perché ho preferito pensare che un giorno avrei avuto partita vinta, che un giorno la storia mi avrebbe dato ragione. Preferivo pensare questo. E non ho aperto conflitti creativi. E quindi hanno prevalso i rapporti di forza.
Anche il Buddismo dice così: che il conflitto può essere fecondo. Che si può cambiare punto di vista a partire da questo tipo di “scambio”. Ma torno a chiederti: qual è la specialità femminile nella costruzione di pace? Cosa ci rende diverse dagli uomini, anche i più capaci e disponibili?
La grande differenza femminile, da questo punto di vista, è che le donne hanno consapevolezza della differenza sessuale. Le donne non si vivono come “uomo universale” e perciò vivono e si vivono in relazione con gli altri, per essere se stesse. Il primum nella struttura dell’esperienza diventa così la “relazione”, cioè il primum è: “c’è posto per l’altro”.
Questo posto per l’altro, in un’esperienza così strutturata, non è fatto dalla buona volontà, non è altruismo, insomma; nasce da un’accettata difettosità di sé. Siamo un sesso “mancante”.
Questo posto per l’altro nasce da un’accettata assunzione che c’è altro e che questo fa, anzi ha già fatto, un buco dentro di te.
Il sesso femminile è un sesso bucato. È un sesso bucato, come la cruna dell’ago. La misoginia descrive questa “mancanza” come una cosa orribile e invece è la quintessenza dell’umanità, la quintessenza del simbolico.
Il reale non è pieno, il reale è bucato da infinite possibilità (forse infinite no, ma innumerevoli, sì) e queste parole hanno un senso proprio perché ci sono le parole (il simbolico). C’è altro.
Questo è quello che il femminismo della differenza sostiene (non il femminismo rivendicativo che vuole riempire il buco). Il femminismo della differenza – così come io lo leggo, s’intende – accetta questa cosa e proprio per questo è capace di pensare una politica dove si arriva a quello che a te ha affascinato, cioè non ad “avere ragione” ma a “essere in relazione con l’altro”.
Fare scambio.
Il nostro maestro, Daisaku Ikeda, riconosce a tal punto il valore del genere femminile che ha dichiarato di voler rinascere donna nella prossima vita…
Bisogna che lo portiamo a voler rinascere uomo, per portare nella virilità quel cambiamento di cui ci sarebbe bisogno. Che cambiamento intendo? Non lo so, non posso dirlo io, dipenderà da lui e da altri. Tuttavia so che c’è bisogno di un cambiamento del senso della virilità, quando vedo che troppi uomini interpretano male il movimento femminile del tirarsi indietro: lo interpretano come un invito rivolto a loro perché si facciano avanti. E così capita che il posto vuoto creato da lei perché “altro” possa avvenire, viene riempito da questo e quell’uomo. I quali si comporteranno secondo le solite modalità e dinamiche.
Buddismo e Società n.91 – marzo aprile 2002