Sui terremoti-Articolo di Guido Giordano
di Guido Giordano
Ricercatore di Vulcanologia presso l’Università di Roma Tre
Sono vulcanologo da vent’anni e da dieci buddista praticante. Ho imparato tantissime cose in questo tempo, spinto dal desiderio di conoscere e dalla speranza che quanto capisco e faccio possa avere un riscontro utile per la società, sia nel campo dell’uso e della gestione delle risorse sia in quello della prevenzione dai rischi. Proprio per questo, ogni volta che c’è un grande evento naturale che scuote i sentimenti delle persone vengo interrogato da amici e conoscenti che in genere mi chiedono il perché, oppure “se si poteva prevedere”, o “se è vero che tal giorno di tal anno ci sarà un terremoto a Roma”, o ancora “se è colpa degli americani con i loro esperimenti”, o dei russi, o di AlQuaeda, o se è una punizione divina per le malefatte del genere umano e così via. È stato così per il terremoto di Sumatra del 26 dicembre 2004 (Magnitudo 9.2) e del conseguente tremendo maremoto, è stato così per il terremoto del 6 aprile 2009 de L’Aquila (Magnitudo 6.3), con il suo carico di polemiche sulla sua eventuale prevedibilità e sui comportamenti della Protezione Civile, è stato così con i terremoti del 2010 di Santiago del Cile (Magnitudo 8.8) e di Haiti (Magnitudo 7), con quello meno citato di inizio anno a Christchurch (Magnitudo 6.3), è stato ed è ancora così in questo sciagurato evento dell’11 marzo 2011 in Giappone (Magnitudo 8.9), i cui terribili effetti ancora non sono conclusi, attanagliati come siamo dalle notizie sul disastro in corso delle centrali nucleari a Fukushima.
Il terremoto dal punto di vista scientifico
I terremoti sono fenomeni naturali che esistono da sempre sul nostro pianeta. Sono legati alla dinamica della Terra, dove le cosiddette placche o zolle litosferiche si muovono e si scontrano alla velocità di vari centimetri l’anno. Questa dinamica, che oltre ai terremoti crea i vulcani, è l’origine della vita, perché l’ossigeno, l’idrogeno e il carbonio, elementi principali dell’atmosfera, sono arrivati (ed arrivano) in superficie nel corso delle ere geologiche proprio attraverso i vulcani. Ma, mentre guardando il fenomeno a questa scala molto vasta se ne può percepire il lato benefico, il singolo terremoto può essere un’immensa tragedia per le comunità che si trovano nelle zone prossime all’epicentro e, occasionalmente, la tragedia può ampliarsi enormemente se il terremoto e tale da innescare uno tsunami, ovvero ancora se gli esseri umani hanno deciso di costruire una qualche centrale nucleare “supersicura” o qualche altra potenziale fonte di inquinamento nel raggio di impatto delle onde sismiche.
Come funziona un terremoto? Un terremoto si genera nella crosta terrestre quando, a causa del movimento reciproco tra le placche, si sia accumulata in un certo punto sufficiente deformazione che possa essere rilasciata improvvisamente, a seguito della rottura delle rocce, lungo dei piani noti come “faglie”. L’energia liberata (o Magnitudo) durante un terremoto dipende da quanta deformazione si è accumulata nel tempo, come in un elastico. In linea del tutto generale, cicli medi di accumulo per terremoti medio grandi (Magnitudo tra 6 e 9) sono di 100-1000 anni; questo vuol dire che, in un certo luogo della Terra, un terremoto di una certa intensità si può ripetere ciclicamente se l’energia di deformazione si accumula nel tempo. Nel caso del terremoto dell’11 marzo, ad esempio, il movimento di rilascio ha causato uno spostamento di circa 13 m nella zona dell’ipocentro, e il precedente terremoto di magnitudo simile in quella zona, secondo ricostruzioni geologiche, si era verificato circa 1200 anni fa. È facile comprendere che, subito dopo un sisma, il sistema sia “scarico” mentre nel tempo si andrà accumulando energia; di conseguenza, in via del tutto generale, più lungo è il tempo che intercorre tra un terremoto e il successivo, maggiore è la potenzialità che sia di grande intensità. Nonostante l’osservazione strumentale dei terremoti sia cosa abbastanza recente, dell’ultimo secolo per alcuni luoghi (tra cui l’Italia) e degli ultimi sessanta anni a scala globale, possiamo affermare che i geologi e i sismologi hanno oggi una conoscenza piuttosto precisa dei luoghi della Terra dove avvengono i terremoti, così come delle intensità e delle frequenze nel tempo. Vi è altresì da dire che le comunità che vivono in questi luoghi conoscono bene il fenomeno e hanno tradizionalmente sviluppato sistemi di convivenza, quali architetture adatte a resistere agli scuotimenti o delimitazione di aree di non insediamento.
… dal punto di vista sociale…
In teoria, dunque, unendo la conoscenza empirica delle popolazioni esposte alla conoscenza scientifica dovremmo essere in grado di sviluppare cultura e sistemi di interazione con i terremoti (come con qualunque altro evento naturale) tali da minimizzarne gli effetti. Invece non è proprio questo il caso, anzi.
È del tutto evidente che almeno nel corso degli ultimi 50-60 anni stiamo assistendo allo sviluppo di processi concomitanti estremamente preoccupanti. Da un lato l’esplosione demografica, le migrazioni e l’urbanizzazione ultrarapida hanno di fatto cancellato, non solo in Occidente, la memoria delle culture tradizionalmente legate al territorio e di conseguenza la trasmissione di generazione in generazione di quegli accorgimenti minimi, ad esempio, sul dove e sul come costruire. Dall’altro, la progressiva crescita delle comunità scientifiche ha senz’altro accresciuto la conoscenza dei fenomeni naturali, ma ha anche progressivamente accentrato questa conoscenza nelle mani di un’élite ristretta e dotata di linguaggio incomprensibile alla popolazione. La somma dei due processi ha causato una progressiva ma evidentissima e veloce perdita di potere da parte del pubblico sulla sicurezza personale. Da un lato c’è un’élite tecnico-politica che decide tutto circa le procedure e i piani di protezione civile e che detiene il potere della comunicazione sia nella fase emergenziale che in quelle pre- e post-. Dall’altro c’è una popolazione generalmente ignorante dei fenomeni naturali, assolutamente non in grado di difendersi autonomamente né in grado di pretendere la messa in opera di politiche specifiche di prevenzione, soggetta alle decisioni dall’alto circa l’utilizzazione del suo territorio. Guardiamo al caso italiano, dove nonostante la precisa conoscenza da parte della comunità scientifica e di quella politica delle aree sismogenetiche, delle intensità massime previste, dei tempi di ritorno, nonché in molti casi (tra cui proprio quello dell’Aquila) anche della valutazione della consistenza del patrimonio edilizio esistente, poco o nulla viene fatto “dall’alto” tra un sisma e l’altro per ridurre la vulnerabilità degli edifici e per istruire capillarmente la popolazione ai corretti comportamenti e alla conoscenza del fenomeno. Del resto, altrettanto poco o nulla viene preteso “dal basso” nella stessa direzione, spesso per senso di impotenza o addirittura per collusione tra i due livelli (io cittadino voto te politico ma tu mi lasci costruire abusivamente dove mi pare, salvo poi morire sotto una frana; io imprenditore pago la mazzetta e per risparmiare faccio il cemento fasullo e tu operaio stai zitto quando usi la sabbia marcia perché altrimenti la prossima volta non lavori. Salvo poi veder crollare il palazzo supposto antisismico).
Di fronte a questo disastro culturale le persone invece sembrano propense a entrare in fibrillazione appena c’è l’accenno, in genere da parte di millantatori, alla previsione mancata o, meglio, alla previsione nota ma colpevolmente coperta. Oppure alle teorie complottistiche o altre dietrologie. In genere a tutti mi soffermo a spiegare che scientificamente non è ancora possibile dire esattamente in che giorno, a che ora e dove ci sarà il prossimo terremoto (anche se la comunità scientifica sta lavorando su questi temi per arrivare a certezze spendibili in protezione civile, ossia spendibili con la certezza di non sbagliare se si tratta di evacuare migliaia o centinaia di migliaia di persone), ma nelle mappe esistenti in Italia, tutto il territorio nazionale è diviso in classi per cui possiamo dire con certezza che un terremoto di una certa intensità avverrà in un certo luogo ogni tot anni. È dunque una previsione accurata a tutti gli effetti, tale sicuramente da consentire la messa in opera tempestiva di tutti quegli accorgimenti strutturali, informativi e di piani di emergenza in grado di minimizzare se non addirittura di annullare gli effetti peggiori del terremoto, dunque di preservare le vite umane. Allora perché così poche persone invece si preoccupano per tempo di pretendere che questa opera di prevenzione venga finalmente messa in opera?
… e dal punto di vista buddista: Nichiren e l’adozione dell’insegnamento corretto, Makiguchi e il dialogo empatico con la natura…
Nel suo fondamentale trattato Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese (scritto nel 1260) Nichiren Daishonin compie una disamina molto precisa della situazione del Giappone di quel tempo proprio a partire dai tanti disastri sia naturali (terremoti, inondazioni) che sociali (guerre, rivolte) che affliggevano la società, causando sofferenza, distruzione e morte nella popolazione. Tuttavia, lungi da avere una visione vittimistica, Nichiren si chiede: «Eppure, i movimenti del sole e della luna sono regolari, i cinque pianeti seguono le loro orbite […]. Perché allora questo mondo è sull’orlo della rovina e le sue leggi stanno decadendo? Che cosa è sbagliato? Quale errore è stato commesso?» (RSND, 1, 7). Nichiren dunque chiarisce subito che la Natura è sempre se stessa, che non è certo matrigna ma madre, mentre tutto il trattato si pone il problema della relazione diretta che esiste tra il sistema filosofico-spirituale che adotta una società e gli effetti conseguenti che si manifestano per gli individui, illustrando con tutta evidenza che sistemi filosofico-spirituali centrati sull’egoismo, sull’esoterismo e sull’oligarchia, rappresentati in varia misura dalle varie scuole buddiste dell’epoca, trasformano la relazione con la Natura in disastri, mentre solo con l’adozione dell’insegnamento corretto basato sull’umanesimo totale descritto nel Sutra del Loto «nella loro esistenza presente le persone saranno libere dalla sfortuna e dai disastri e impareranno l’arte di vivere a lungo» (La pratica dell’insegnamento del Budda, RSND, 1, 347). Ne Il conseguimento della Buddità in questa esistenza (RSND, 1, 4) Nichiren afferma ancora: «Se la mente degli esseri viventi è impura anche la loro terra è impura, ma se la loro mente è pura lo è anche la loro terra; non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente». È da specificare che nella dottrina del Daishonin il termine “mente” è sinonimo di “cuore” o “vita”: si sta parlando quindi non del semplice intelletto, della razionalità, ma della totale “dimensione vitale” di un essere umano. Il rapporto con la Natura e con l’ambiente in genere nel Buddismo di Nichiren è dunque centrale. Il buddismo supera completamente la dicotomia essere umano-ambiente in quanto spiega che nessun essere o fenomeno esiste in sé, ma solo in relazione ad altri esseri o fenomeni. Niente esiste indipendentemente da altre cose né può manifestarsi in completo isolamento, secondo il principio di “origine dipendente” (giapp. engi, sansc. Pratitya-samutpada). Più estesamente, il fondatore e primo presidente della Soka Gakkai, il pedagogista giapponese Tsunesaburo Makiguchi definiva due classi di relazione con l’ambiente: alla prima appartengono le relazioni di tipo cognitivo, utilitaristico, scientifico, estetico e morale, che vedono l’ambiente come essenzialmente diverso da sé; alla seconda classe quelle di tipo empatico e religioso (nel senso della religiosità) in cui invece l’ambiente è parte del mondo come lo siamo noi.
La prima classe di approcci produce un ambiente (umano e naturale) in generale sconosciuto ed ostile, detentore di risorse da usare e generatore di rischi da cui difendersi.
La seconda classe, quella del rapporto empatico, di quello religioso, dell’Io-Tu, dell’origine dipendente, produce un ambiente compagno dell’avventura della vita, capace di sviluppare la nostra vita emotiva e la nostra personalità.
Come si mette in pratica? L’assunzione della responsabilità a tutti i livelli
L’approccio buddista attribuisce dunque grandissima responsabilità e potere all’essere umano. Dipende, secondo il buddismo, dai singoli individui e dal loro personale grado di assunzione di questa responsabilità il rapporto armonico con l’ambiente, nella sua accezione più ampia, che abbraccia sia la Natura sia la società umana nel complesso. Il maestro Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale, afferma nel suo Building global solidarity toward nuclear abolition (2009), che la chiave è l’“auto-educazione”. L’auto-educazione si basa sulla conquista della consapevolezza che ogni essere umano ha un inviolabile diritto alla vita. Da questa profonda consapevolezza, che abbraccia l’individuo e il suo ambiente, può nascere quell’autoriforma che il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda chiamò rivoluzione umana, che può dare vita e corpo a un potente movimento di cittadini che chiedono e pretendono la partecipazione ai processi decisionali sull’uso del territorio, che si assumono la responsabilità del controllo e dell’osservanza delle direttive, che indirizzano la spesa pubblica verso interventi vasti volti all’educazione e alla prevenzione, così come la messa in opera di ogni strumento di mitigazione del rischio. È necessario diffondere la conoscenza dei fenomeni, ma ancor più importante è che gli individui e la società nel suo complesso adottino l’insegnamento corretto, ossia una visione della vita in cui interessi personali, o di lobby, non possano mai prevalere sull’interesse comune. Il praticante buddista è chiamato a svolgere un ruolo centrale in questo processo, sia mettendosi personalmente e costantemente in gioco, verificando giorno per giorno il grado reale di coerenza tra le azioni e gli ideali, sia mettendosi in rete e favorendo l’unione di tutti gli individui e le componenti della società che lavorano in armonia con l’umanesimo proposto dal Daishonin. Quando la nostra cultura sarà finalmente matura – e la velocità con cui questo inevitabile processo si realizzerà dipende solo da noi – le persone, davanti a un disastro come quello del Giappone o de L’Aquila, non cercheranno più complotti, né saranno rassegnate a una natura o fato o dio maligno che punisce, ma si rimboccheranno le maniche chiedendosi, mentre si apriranno all’ascolto dell’ambiente: cosa dunque posso fare ora?
Roma 17 marzo 2011
L'alleanza tra le religioni e l'ecologia-Articolo di Mary Evelyn Tucker
di Mary Evelyn Tucker
Docente di Religione e Ambiente all’Università di YaleLe maggiori religioni del mondo sono spesso considerate inclini a preservare visioni e comportamenti tradizionali, e di conseguenza conservatrici nelle loro concezioni. Quello che non dovrebbe perdersi di vista è che le religioni possono essere anche un fattore di emancipazione, capace di provocare un cambiamento sociale. Benché le religioni non balzino immediatamente alla mente come catalizzatrici di un intervento sull’ambiente, l’autorità morale e il potere istituzionale che possiedono fanno sì che si trovino in una posizione privilegiata per contribuire a un cambiamento delle attitudini, delle pratiche e delle politiche sociali, nel rispetto della sostenibilità.Ovviamente le religioni hanno un ruolo centrale nel formulare visioni del mondo che orientano gli esseri umani verso il mondo il mondo naturale e nell’articolare rituali ed etiche che guidano il loro comportamento. Per giunta, esse possiedono la capacità istituzionale di raggiungere milioni di persone in tutto il mondo. Islam, induismo e cristianesimo rappresentano ciascuna più di un miliardo di persone. La dimensione e la complessità dei problemi che abbiamo di fronte richiedono sforzi collaborativi tra le religioni, e un dialogo con altri ambiti chiave dell’impresa umana come la scienza, l’economia e le politiche pubbliche.
Una definizione allargata di religione è di grande aiuto per comprendere questa convergenza tra le religioni mondiali e l’ecologia. La religione è più di una semplice credenza in una divinità trascendente o un mezzo in vista di una vita dopo la morte. È anche un orientamento nei confronti del cosmo e del nostro ruolo in esso. Per questo fa riferimento a storie cosmologiche, a sistemi simbolici, a pratiche rituali, a norme etiche, a processi storici e a strutture istituzionali che trasmettono una visione dell’umano inserito in un mondo di significato e di responsabilità, trasformazione e celebrazione. La religione mette in contatto gli esseri umani con una presenza divina o numinosa, con la comunità umana e con la più vasta comunità della Terra. Lega gli umani alla più grande matrice di mistero in cui la vita sorge, si dispiega e fiorisce.
Allo stesso tempo, la natura fornisce un contesto “di rivelazione” che induce gli umani a porsi questioni religiose sulle origini cosmologiche dell’universo, sul significato dell’apparizione della vita e sulla responsabilità umana riguardo ai processi vitali. Così la religione mette gli esseri umani in relazione sia con il mondo naturale che con quello umano per quanto riguarda il significato e la responsabilità. Per molte religioni, il mondo naturale è inteso come una fonte di insegnamento, di guida, di ispirazione, di rivelazione o di potere. Allo stesso tempo la natura è anche una fonte di cibo, abbigliamento e riparo. Così, le religioni hanno sviluppato sistemi intricati di scambio e dono collegati alla dipendenza umana da animali e piante, foreste e campi, fiumi e oceani.
Le religioni sono state significative catalizzatrici nel far fronte ai cambiamenti e nel trascendere la sofferenza, portando allo stesso tempo gli esseri umani a vivere a ritmo con la natura. Le tensioni creative che si producono tra il tentativo umano di trascendere il mondo e l’anelito a restarvi attaccato fanno parte delle dinamiche delle religioni. Questa consapevolezza porta a una comprensione più equilibrata delle possibilità e dei limiti delle religioni nei confronti delle problematiche ambientali. Molte religioni, pur conservando una concezione della salvezza personale al di fuori di questo mondo, promuovono l’impegno per la giustizia sociale, per la pace e l’integrità ecologica nel mondo. Ci sono nuove alleanze emergenti che collegano la giustizia sociale alla giustizia ambientale. La preoccupazione di come le comunità povere siano state sfavorevolmente colpite dal cambiamento climatico ha dato avvio a un’intensa discussione riguardo alla “giustizia climatica”.
In questo spirito, i capi religiosi stanno parlando in modo sempre più chiaro in favore della protezione dell’ambiente. Figure come il Dalai Lama, il patriarca Bartholomew della Chiesa greco-ortodossa, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams e Papa Benedetto XVI hanno tutte preso posizione in difesa dell’ambiente. Nel dicembre 2009 in una storica riunione del Parlamento delle religioni del mondo, a Melbourne, l’ambiente è stato uno dei maggiori argomenti di discussione. Molti capi religiosi hanno anche inviato messaggi alla conferenza di Copenhagen sul clima. La Sgi ha giocato un ruolo di primo piano nella conferenza e continua a dare il suo sostegno all’ambiente anche con la promozione della Carta della Terra, una dichiarazione di etica globale per un futuro sostenibile che mette insieme l’integrità ecologica, la giustizia sociale ed economica, la democrazia, la nonviolenza e la pace. Con una struttura unificatrice finalizzata ad abbracciare la più ampia comunità della Terra, la Carta è stata accolta da molte comunità religiose in tutto il mondo. Inoltre, negli Stati Uniti, l’Interfaith Power and Light ha contribuito a portare nuova consapevolezza nelle congregazioni religiose della loro “impronta del carbonio” (carbon footprint, contenuto di CO2 in quanto misura dell’impatto che le attività umane hanno sull’ambiente in termini di ammontare di gas serra prodotti, misurati in unità di anidride carbonica, n.d.r.). Il film Renewal ha documentato otto casi di ambientalismo su base religiosa. Così, come chiave per la riaffermazione dei valori e come sostegno indispensabile alla trasformazione morale, le religioni stanno giocando un ruolo sempre più importante nel prospettare visioni convincenti di un futuro più sostenibile.
Lo storico Lynn White ha osservato che le nostre attitudini nei riguardi della natura consciamente o inconsciamente sono state condizionate dalle visioni religiose del mondo: “Cosa le persone fanno a proposito della loro ecologia dipende da cosa pensano di sé stesse in relazione a ciò che le circonda. L’ecologia umana è profondamente condizionata dalle credenze su noi stessi e sul nostro destino – cioè dalla religione” (Science, 1976). Questa prospettiva riassume uno dei principali orientamenti grazie al quale il campo della religione e dell’ecologia è entrato negli ultimi quindici anni in ambito accademico. Sebbene sia ancora un campo relativamente nuovo, lo studio accademico della religione e dell’ecologia si sta differenziando rispetto ad altre discipline, e gli studiosi ne stanno sviluppando le dimensioni teoretiche, storiche, etiche, culturali e di impegno.
Dal 1996 al 1998 nel Centro studi delle religioni del Mondo (CSWR) presso l’Università di Harward ebbe luogo una serie di conferenze internazionali che avevano lo scopo esaminare i differenti modi in cui le relazioni tra gli esseri umani e la Terra erano state concepite dalle religioni del mondo. Fine del progetto era ottenere una rassegna generale che fornisse la base per avviare un nuovo campo di studi su religione ed ecologia. Visto il divario tra i testi antichi e le tradizioni da un lato, e i recenti cambiamenti ambientali dall’altro, ha evidenziato la necessità di un metodo più ampio di recupero delle informazioni, rivalutazione e ricostruzione. Le conferenze di Harvard furono anche concepite per promuovere incontri interdisciplinari che facessero ricorso alla sinergia tra storici, teologi, studiosi di etica e scienziati e le azioni ambientaliste della società civile. Gli studiosi si impegnarono nel riportare criticamente aspetti delle tradizioni religiose per riesaminarli e rivalutarli in relazione al contesto contemporaneo. Storicamente, ciò è stato parte integrante della fioritura dinamica delle religioni, che si sono sforzate di equilibrare l’ortodossia con le necessità di adattarsi a nuove circostanze o culture.
Le tradizioni religiose non sono state mai monolitiche, ma hanno abbracciato un ampio raggio di posizioni interpretative che vanno dall’ortodossia alla riforma. Per secoli, separare un cambiamento necessario dai valori fissi della tradizione è stata una parte importante della vita dei maestri religiosi. Rabbini ebraici, teologi cristiani e imam islamici in Occidente; maestri indù, monaci buddisti e studiosi confuciani in Oriente: tutti si sono impegnati nell’interpretazione delle loro rispettive tradizioni nel corso del tempo. Il progetto di un’alleanza tra religione ed ecologia riguarda direttamente l’attuale processo di discernimento ed esegesi, e punta a una fase costruttiva in cui gli studiosi di varie religioni possano indicare quali siano le fonti, attuali o potenziali, di consapevolezza e di azione ecologica nel contesto delle diverse tradizioni. (La raccolta dei contributi di questa conferenza è stata pubblicata in dieci volumi dalla Harvard University Press).
Il Forum su Religione ed ecologia è stato stimolato da queste conferenze ed è culminato nella conferenza delle Nazioni Unite del 1998 prendendo forma compiuta. Il Forum ha sede ora presso l’Università di Yale dove si tiene aggiornato un sito web, con newsletter mensili.
Il Forum continua a lavorare dentro e fuori il mondo accademico incoraggiando lo sviluppo dell’ambientalismo religioso.
I valori comuni che la maggior parte delle religioni del mondo sostengono in relazione al mondo naturale possono essere riassunti con venerazione, rispetto, moderazione, redistribuzione, responsabilità e rinnovabilità. Sebbene rispetto a questi principi vi siano variazioni interpretative sia all’interno di ogni religione sia tra le diverse religioni, si può dire che tutte stiano muovendo verso una comprensione sempre più allargata dei propri orientamenti cosmologici e dei propri impegni etici. Sebbene questi siano stati in precedenza intesi prima di tutto in rapporto agli altri esseri umani, oggi si tende a estenderli al mondo della natura. Con l’avanzare di tale ampliamento – e ci sono segni che ciò sta già accadendo – le religioni possono sempre più sostenere l’idea di una riverenza verso la Terra e i suoi profondi processi cosmologici, di un rispetto per le miriadi di specie del pianeta, di un’etica estesa a ogni forma di vita, di una limitazione nell’uso delle risorse naturali combinata col sostegno a efficaci tecnologie alternative e a un’equa distribuzione della ricchezza. Le religioni possono portare a un più ampio riconoscimento della responsabilità umana nella continuità della vita sul nostro pianeta e contribuire a rinnovare le energie della speranza per far sì che questo lavoro di trasformazione sia portato a compimento.
Negli ultimi quindici anni, il connubio tra religione ed ecologia è emerso sia come un campo di studi accademici definito, sia come una forza impegnata in questioni ambientali. Senza dubbio continuerà a crescere col crescere dell’interesse degli studiosi, del clero, dei laici e dei capi religiosi.
Tradotto da Sgi Quarterly, luglio 2010
Verso un Artico libero dal nucleare-Articolo di Adele Buckley
di Adele Buckley
Fisica, ingegnere e scienziata ambientale. Fa parte del Pugwash Council
Nell’agosto del 2007 il gruppo Pugwash del Canada richiese pubblicamente l’istituzione dell’Artico come zona libera dalle armi nucleari. Una proposta sostenuta da altri attivisti anti-nucleare e ripresa dal presidente dell’SGI Ikeda nella sua proposta di pace del 2008. La dottoressa Adele Buckley, ex presidente del gruppo Pugwash canadese, esplora i passi da compiere verso la realizzazione di questa ipotesi.
L’apertura delle acque dell’Artico crea un potenziale di profitto enorme grazie all’abbreviarsi delle rotte di commercio internazionale e a un più agevole accesso al petrolio, al gas del fondale, e alle risorse marine. Il diritto del mare consente agli stati di esercitare la giurisdizione territoriale all’interno delle 200 miglia nautiche dalla costa, ma le nazioni stanno prendendo misure per assicurarsi l’accesso, i diritti e, in certi casi, la sovranità su porzioni di fondale marino, al di fuori di queste zone. Le pretese e contro-pretese territoriali saranno una fonte di tensione che potrebbe degenerare in aperto conflitto.
Le operazioni navali di Russia e Stati Uniti – le due potenze nucleari della regione – aumenteranno all’aprirsi delle acque, creando il rischio di uno scontro militare, specialmente perché entrambi in possesso di sottomarini nucleari. Da nessun altra parte le due maggiori potenze atomiche sono in così stretta, reciproca, prossimità. C’è la possibilità di una ulteriore nuclearizzazione di terra e mare.
Nella regione, le armi nucleari costituiscono sotto diversi punti di vista un pericolo per i paesi e i popoli dell’Artico, e occorre prendere misure preventive prima che sia troppo tardi. Si sta cominciando a discutere della creazione di strutture e procedure legali, ed è importante che la questione delle armi nucleari venga messa all’ordine del giorno, altrimenti l’attuale status quo tenderà a consolidarsi. Gli accordi esistenti e lo status attuale dell’Artico offrono un avvio pieno di speranza perché:
– C’è in vigore un trattato relativo ai fondali marini che impedisce lo stazionamento di armi nucleari nella superficie dell’oceano artico.
– L’utilizzo di bombardieri strategici nello spazio aereo dell’Artico risulta adesso molto meno significativo che durante la guerra fredda.
– Al presente, potrebbero avere inizio negoziati per la costituzione di misure di sicurezza militare. Degno di interesse è il Trattato dell’Antartico, stando al quale ognuno dei contraenti ha il diritto di inviare osservatori in tutte le basi di ogni paese della regione, fatto che determina la costituzione di una misura di sicurezza davvero forte, assicurando la piena adesione.
– Si spera che i colloqui tra Stati Uniti e Russia sulla riduzione delle armi strategiche abbiano nuovamente inizio.
Ci sono seri ostacoli, comunque, per un Artico libero dalle armi nucleari. Entrambi, Stati Uniti e Russia, schierano regolarmente sottomarini atomici nella acque dell’Artico. La base navale russa di Zapadnaya Litsa mantiene i suoi missili balistici sottomarini più avanzati, e le aree sotto pattuglia si trovano principalmente nell’artico. Così i negoziati per un Artico libero dalle armi nucleari (NWFZ, Nuclear Weapon Free Zone) potrebbero essere tentati solo dopo misure di disarmo complementari da parte degli Stati Uniti.
C’è un nuovo importante movimento in favore dell’abolizione. Ex ufficiali di alto rango di Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Germania e altri hanno chiesto immediati passi concreti verso la riduzione del pericolo nucleare, attraverso l’abolizione delle armi atomiche. Nell’ottobre 2007 una conferenza presso l’Hoover Institute, negli Stati Uniti, ha raccomandato a Stati Uniti e Russia di ridurre a cinquecento il limite delle testate. Ottenendo una simile riduzione, risulterebbe nel più grande interesse della Russia collocare i suoi missili balistici intercontinentali su basi terrestri mobili. Il risultato potrebbe essere la chiusura degli impianti dei sottomarini nucleari nell’Artico, o, in alternativa, il mantenimento di questi sottomarini privati, però, degli armamenti atomici. L’una o l’altra di queste alternative aprirebbe la strada a una NWFZ nella parte russa dell’Artico.
Una differenza molto importante tra la Russia e altre nazioni dell’Artico è che la prima ha circa quattro milioni di persone nella regione, molte delle quali non indigene. Nella realtà geopolitica, così come viene vista dalla Russia, la sicurezza militare non è separabile della sicurezza energetica. In vista di un considerevole aumento dell’attività nell’Artico, miliardi di dollari sono stati o saranno spesi sia dall’Est (Russia) che dall’Ovest (Stati Uniti e Canada) per navi rompighiaccio, imbarcazioni di pattugliamento, piattaforme petrolifere, basi militari, nonché equipaggiamenti ed infrastrutture analoghe. Al momento, la Russia sembra meglio preparata dell’Occidente.
Nell’arco di quattordici anni, cinque stati dell’Asia centrale hanno portato avanti dei negoziati, sotto l’assistenza dell’Onu, per il progetto di un’Asia centrale come zona libera dalle armi nucleari (CANWFZ, Central Asia Nuclear Weapon Fre Zone). Il Trattato di Semipalatinsk del 2006 – non entrato in vigore – comporta che gli ex stati dotati di armi nucleari accettino che l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica visiti i siti a scopo di ispezione e verifica. Solo Russia e Cina risultano, finora, firmatari del protocollo relativo al CANWFZ. Il CANWFZ offre un’esperienza applicabile al progetto “Artico come NWFZ”.
I negoziati richiedono un periodo di tempo significativo: il lavoro dovrebbe iniziare adesso.
Un approccio potenzialmente produttivo si avrebbe se tutti gli stati non-nucleari dell’Artico lavorassero assieme a un trattato regionale, come previsto dall’articolo VII del Trattato di non proliferazione: “assicurare la totale assenza di armi nucleari nei rispettivi territori”. Norvegia, Svezia e Finlandia, tutti stati che estendono la propria sovranità su territori a Nord del Circolo Artico, sono liberi da armi atomiche. La Groenlandia ha una base militare Usa a Thule, ma la Danimarca è uno stato con armi non nucleari (NNWS). Il Canada è già un paese non nucleare de facto. Il passaggio a nord-ovest, un canale marittimo dove passano molti isolani dell’Arcipelago canadese artico, è un passaggio decisamente sfavorevole per i sottomarini perché stretto e poco profondo, e pone gravi difficoltà di manovra e di copertura da intercettazioni. Molto probabilmente, questo passaggio è de facto zona libera dal nucleare. Per quanto riguarda gli spostamenti in superficie attraverso il passaggio a nord-ovest, la sicurezza marina otterrebbe con facilità un accordo internazionale per bandire materiali nucleari fissili da queste acque pericolose.
Dichiarare NWFZ solo una parte delle regioni e delle acque dell’Artico sarebbe problematico. D’altra parte, la parzialità di soluzioni, prese però in concertazione, potrebbe essere la strada giusta. Per le ragioni delineate sopra, c’è una realistica speranza che i due stati della regione dotati di armi nucleari realizzeranno una riduzione significativa dei loro ordigni nucleari. Facendo così, creeranno un’atmosfera favorevole al negoziato che potrà permettere loro di lavorare al progetto di un Artico come NWFZ. La questione di creare una NWFZ è centrale per la sicurezza ambientale dell’Artico. I popoli dell’Artico hanno diritto di essere al sicuro dalle armi atomiche stanziate nella loro terra o nei loro mari.
La dichiarazione di una NWFZ parziale in Canada, nel passaggio a nord-ovest, potrebbe essere problematica perché focalizzerebbe l’attenzione sull’affermazione di Stati Uniti e di altri stati che tale passaggio costituisce una rotta marittima internazionale; mentre il tornaconto comune di Canada e Stati Uniti potrebbe portare al mantenimento dello status quo. In questa realtà, potrebbe risultare più facile per il governo canadese designare l’intero Canada come NWFZ. Un atto legislativo del genere da parte del Canada potrebbe dare risalto a una leadership persuasiva capace di condurre a un trattato regionale tra tutti gli stati dotati di armi non nucleari dell’Artico. L’effetto complessivo potrebbe modellare il processo per Stati Uniti e la Russia.
Una volta che la NWFZ entrerà in vigore in Africa, come ci si attende, centodieci paesi, che comprendono l’intero emisfero meridionale, saranno protetti dalle rispettive NWFZ. Ogni NWFZ è unica, con differenti termini e accordi. Questo rappresenta un utile precedente in quanto sia Stati Uniti che Russia potrebbero, con determinazione politica legittima, designare solo i territori a nord del Circolo artico come territori liberi da armi nucleari, senza dover modificare altre strategie nucleari di sicurezza.
Il confronto con la struttura legale e politica dell’Antartico è interessante, sebbene la situazione differisca di molto. Nel 1991, il Protocollo di Madrid designava l’Antartico riserva naturale destinata alla pace e alla scienza, e proibiva indefinitamente le attività di estrazione esplorativa. La protezione dell’ambiente, sensatamente considerata necessaria nell’Antartico, potrebbe valere come utile punto di partenza anche per l’Artico.
I cambiamenti nell’apertura dell’Artico sono senza precedenti. Fornire un regime di controllo equo richiede un livello alto di cooperazione internazionale e una risoluzione delle rivalità. Un Trattato dell’Artico ridurrebbe il conflitto e fornirebbe un’opportunità di soddisfare l’aspettativa di una NWFZ. Un Artico come NWFZ, che potrebbe essere introdotto con ragionevolezza nel futuro immediato, potrebbe gradatamente guadagnare consenso. Sarebbe un passo significativo verso il disarmo, e alimenterebbe la fiducia verso un mondo libero dalle armi atomiche.
Educare a un futuro sostenibile-Articolo di Daisaku Ikeda
La necessità di cambiare
Sono ormai passati dieci anni dal Summit della terra tenuto a Rio de Janeiro in Brasile, evento che ha portato a una maggiore consapevolezza della necessità di proteggere l’ambiente. Da allora il termine “sviluppo sostenibile” è diventato parte integrante del nostro vocabolario. In generale, però, gli accordi raggiunti a Rio non sono stati mantenuti e il progresso raggiunto non riesce a tenere il passo con il degrado della terra. Risulta chiaro che non possiamo permettere che questa situazione continui nel XXI secolo.
La risoluzione della crisi ambientale richiederà l’investimento di sempre maggiore conoscenze, tecnologie e fondi. Ma gli elementi fondamentali che a mio parere più fanno difetto sono la solidarietà e la coscienza di uno scopo comune tra gli abitanti della terra e il senso di responsabilità verso le generazioni future.
Lo scorso giugno ho avuto la possibilità di incontrare Tommy E. Remengesau Jr., presidente della Repubblica di Palau, un arcipelago di isole spesso descritte come gioielli dell’Oceano Pacifico. In quella occasione abbiamo parlato della crisi ambientale e il presidente Remengesau ha espresso le proprie preoccupazioni a questo riguardo. «Il riscaldamento globale – ha affermato – è una questione molto sentita dalla popolazione di Palau. Il livello dell’oceano è aumentato e l’acqua salata sta invadendo le falde acquifere. La bellezza naturale delle nostre isole è minacciata. El Niño ha provocato una scarsità di precipitazioni piovose e il processo di distruzione della barriera corallina sta avanzando. A causa dell’aumento della temperatura dell’acqua, il corallo si sbianca e muore…». Il presidente ha inoltre detto che il suo paese si sta impegnando per la ricerca e la conseguente introduzione di fonti alternative di energia per ridurre i gas di scarico. I tempi richiedono questo tipo di risposte attive – il rifiuto di essere osservatori passivi o vittime delle circostanze – sia in ambito governativo sia in quello della società civile.
Nel film Una rivoluzione silenziosa, prodotto dal Consiglio della terra per il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile (WSSD), vengono presentati diversi esempi di questo modo di agire, come le risposte al problema delle risorse idriche nel villaggio di Nimi in India, alla minaccia di sostanze inquinanti organiche nel lago Zemplinska Sirava in Slovacchia e alla deforestazione contro la quale protestano le donne in Kenya. La Soka Gakkai Internazionale ha partecipato alla produzione del film condividendone gli obiettivi, perché crediamo che il messaggio di questa opera, secondo il quale ogni individuo può cambiare il mondo, infonda il coraggio e la speranza necessari in questo periodo così difficile.
Uno degli scopi del WSSD è quello di redigere e adottare un piano di attuazione che possa servire come riferimento di base per trasformare il XXI secolo in un’epoca di coesistenza creativa tra gli esseri umani e la natura. Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha affermato che il Summit sarà una prova decisiva per la determinazione dei paesi ad agire. Il successo dell’incontro dipenderà dall’evoluzione di un dialogo costruttivo che trascenda gli interessi conflittuali delle nazioni e miri al bene dell’intero pianeta e dell’umanità.
Come parte dei nostri sforzi a sostegno del WSSD ho presentato, in una proposta scritta qualche tempo fa, tre suggerimenti per una possibile riforma del sistema internazionale relativamente alla salvaguardia del nostro pianeta. Il primo è la nomina di un Alto commissario delle Nazioni Unite per l’ambiente a guida di iniziative per i problemi ambientali globali. Il secondo è il consolidamento graduale dei segretariati per la supervisione della messa in atto dei trattati per l’ambiente, collegati all’istituzione di un fondo globale verde. Il terzo è l’adozione di una convenzione per promuovere le risorse di energia rinnovabile.
Allo stesso tempo ho sottolineato la necessità di una maggiore consapevolezza e di una trasformazione del modo di considerare l’ambiente. Oltre alle riforme “dall’alto verso il basso” – come le misure istituzionali e legali sopra delineate – una soluzione duratura richiede riforme adeguate dal “basso verso l’alto”, cioè a partire dalla gente comune. Questi sono prerequisiti per il cambiamento su scala globale. In questa proposta desidero mettere a fuoco la questione di come costruire una solidarietà popolare a livello globale per una risoluzione della crisi ambientale.
Il decennio internazionale dell’educazione
allo sviluppo sostenibile
L’educazione riveste un ruolo di vitale importanza nel far sì che le persone possano considerare i problemi dell’ambiente come una preoccupazione personale e per armonizzare i loro sforzi per costruire un futuro comune. L’educazione è l’unica risorsa in grado di fornire la forza motrice per un simile rinnovamento delle coscienze. A questo scopo la SGI ha proposto l’istituzione a livello internazionale di un decennio dell’educazione per lo sviluppo sostenibile, a partire dall’anno 2005, che faccia seguito a quella dedicata dalle Nazioni Unite ai diritti umani. Gli obiettivi di questa iniziativa sono la promozione dell’educazione, fondamentale per la creazione di una società sostenibile, e il rafforzamento della cooperazione internazionale per una maggiore informazione sull’ambiente. In uno degli incontri di preparazione del Summit di Johannesburg (WSSD PrepCom IV) svoltosi in Indonesia lo scorso giugno questa proposta è stata inclusa nel progetto di realizzazione.
L’importanza dell’educazione per lo sviluppo sostenibile era stata chiaramente affermata nel piano di azione – Agenda 21 – adottato in occasione del Summit della terra di Rio. Il concetto chiave è la sostenibilità, come enfatizzato anche dalla Dichiarazione di Salonicco del 1997: «Il concetto di sostenibilità comprende non solo l’ambiente ma anche la povertà, la popolazione, la salute, la sicurezza sul cibo, la democrazia, i diritti umani e la pace». Il problema ambientale è strettamente legato a tali questioni, la cui risoluzione richiede una rielaborazione del nostro modo di vivere come individui, come società e in termini di civiltà umana.
Per questo motivo penso che il decennio per l’educazione allo sviluppo sostenibile dovrebbe essere promosso tenendo presente i seguenti tre scopi:
conoscere e approfondire la nostra consapevolezza delle questioni e delle realtà ambientali;
riflettere sulle nostre modalità di vita, rinnovando quelle a favore della sostenibilità;
dare alle persone il potere (to empower) di intraprendere azioni concrete dirette alla risoluzione delle questioni che stiamo affrontando.
Conoscere
È essenziale approfondire la comprensione e la consapevolezza. Tutto ha avuto inizio da fatti come la deforestazione, l’aumento dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo e l’impatto di tutto ciò sull’ecosistema globale.
Si devono inoltre capire le cause e le strutture sociali all’origine della distruzione ambientale. E infine è necessario comprendere a fondo le realtà di chi soffre, abbracciando la loro sofferenza come se fosse la nostra, consapevoli del legame che ci unisce. Un simile sforzo darà origine a ulteriore consapevolezza e determinazione ad agire.
È di vitale importanza includere questi temi nel curriculum dei primi anni di scuola, periodo in cui i bambini, sviluppando sensibilità, immaginazione e creatività, raggiungono i massimi livelli di apprendimento. Alcuni paesi già promuovono l’educazione ambientale come parte integrante del programma scolastico. Curare nei bambini il desiderio di proteggere la terra e il rispetto della natura è un passo vitale per salvaguardare il nostro futuro.
Nella scuola media Soka del Kansai gli studenti sono stati coinvolti in un’esperienza di apprendimento – le riprese della terra dallo Space Shuttle e dalla stazione spaziale internazionale – partecipando così al programma Earthcam della NASA. In quanto fondatore della scuola mi sono commosso all’impatto educativo dei bambini che hanno potuto avere una prova visiva diretta della crisi dell’ambiente a livello globale.
Da alcuni anni ho proposto un Summit mondiale degli educatori a cui dovrebbero partecipare non solo i responsabili della politica educativa di ciascun paese, ma anche quanti sono impegnati in prima linea sul fronte educativo. Inaugurando il decennio dell’educazione (2005) con una conferenza internazionale, gli educatori di tutto il mondo avrebbero l’occasione di scambiare idee ed esperienze in questo campo.
Allo stesso tempo avrebbe particolare importanza lo sviluppo, da parte di movimenti a livello locale, di opportunità che incoraggino una maggiore comprensione della crisi ambientale globale. A questo scopo la SGI ha organizzato una mostra dal titolo Verso un secolo di speranza: ambiente e sviluppo in occasione del Summit della terra di Rio. La Soka Gakkai USA e quella giapponese sono state promotrici delle mostre itineranti rispettivamente su “Ecologia e vita Umana” e “EcoAid”. Questi impegni, realizzati grazie alla cooperazione con altre ONG, sono diretti a contribuire all’educazione pubblica, approfondendo la consapevolezza della gente comune.
Riflettere
Non solo è importante ottenere una maggiore e più accurata informazione, ma è anche fondamentale chiarire i valori etici da noi condivisi. Ciò diventa vitale nel caso delle questioni ambientali che, per loro vastità e portata, possono disorientare le persone riguardo ai passi concreti da intraprendere. Per contrastare questo senso di impotenza l’educazione dovrebbe incoraggiare la comprensione di come i problemi ambientali siano intimamente connessi alla nostra vita quotidiana. L’educazione deve ispirare in ciascuno di noi la convinzione di avere il potere e la responsabilità di apportare un cambiamento positivo su scala globale.
La Dichiarazione di Salonicco afferma che «la sostenibilità è, in ultima analisi, un imperativo etico e morale in cui si devono rispettare la diversità culturale e la conoscenza tradizionale». Si può imparare dall’eredità spirituale e dalle diverse tradizioni culturali, patrimonio di tutta l’umanità. Da queste si possono trarre preziose lezioni e intuizioni filosofiche su come vivere meglio.
La Carta della terra, la cui redazione è stata promossa dal segretario generale del Summit della terra, Maurice Strong, e dal presidente della Croce verde internazionale Michail Gorbaciov, unisce queste diverse fonti di saggezza. I suoi quattro capisaldi sono: 1) il rispetto per la vita, 2) l’integrità ecologica, 3) la giustizia economica e sociale, 4) la democrazia, la nonviolenza e la pace. La Carta della terra offre una panoramica dei valori e dei principi necessari per un futuro sostenibile e per questo motivo è un’inestimabile risorsa educativa.
Oltre al contenuto, è significativo il modo in cui questa “carta del popolo” è stata elaborata. Nella sua redazione sono state incluse la saggezza e le tradizioni di tutte le regioni della terra. La lingua in cui redigere il documento è stata decisa pazientemente sia da esperti sia da persone comuni. Oggi la Soka Gakkai sta svolgendo workshop e conferenze in tutto il mondo nello sforzo di promuovere e diffondere i principi della Carta della terra tra la gente. Spero che si facciano altrettanti sforzi per imparare dalla Carta attraverso programmi che uniscano i suoi principi alle questioni specifiche delle diverse comunità e delle loro scuole.
Uno dei temi su cui si fonda il Kenya’s Green Belt Movement (Movimento per la fascia verde sorto in Kenya) è che il deserto non ha origine nel Sahara ma nei nostri cortili. Seguendo il proprio senso di responsabilità verso il futuro, le mamme e i bambini coinvolti nel movimento hanno piantato e curato la crescita di venti milioni di alberi. So che i bambini che hanno partecipato a questa iniziativa si sono divertiti in una sorta di gara amichevole, riponendo tutto il loro amore verso gli alberelli e aspettando di vedere quale sarebbe cresciuto prima. Questo tipo di impegno è davvero significativo perché è proprio attraverso queste esperienze che le persone – e in modo particolare i giovani – vengono in contatto con le realtà concrete della loro comunità, affinando la propria consapevolezza sull’ambiente. Il fondatore della Soka Gakkai, l’educatore giapponese Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), paragonò la comunità locale a una miniatura, mettendo in rilievo l’importanza di un apprendimento ben radicato nella propria comunità – luogo in cui la storia, la natura e la società si incontrano – perché i bambini schiudano gli occhi al mondo.
Credo che questo movimento ciclico – la visione del mondo dalla prospettiva della comunità locale e quella della comunità attraverso le lenti del mondo – sia essenziale al fine di sviluppare una comprensione etica e apprezzare la natura così radicata nella realtà quotidiana.
Dare potere alle persone
In terzo luogo si devono infondere coraggio e speranza alle persone affinché siano capaci di intraprendere i primi passi concreti. Qualsiasi accordo si possa raggiungere sui modelli etici o comportamentali da seguire, se questi non vengono realizzati nella vita delle persone la realtà che stiamo affrontando non cambierà. In altre parole, se l’etica viene considerata solo come un insieme di regole da seguire passivamente perché imposte dall’esterno, senza nessun legame con la propria vita individuale, essa non ci aiuterà a cambiare le circostanze. Anzi sarà abbandonata alla prima crisi.
Per questomotivo l’etica ambientale deve essere sentita come un impegno personale, il cui adempimento deve portare a un immenso senso di gioia e determinazione.
In questo periodo sono impegnato in un dialogo con la dottoressa Hazel Henderson, economista ambientale e futurologa. Ella mi ha parlato della sua decisione ad agire spinta dal desiderio di proteggere sua figlia dai pericoli dell’inquinamento. «La maggior parte delle persone che si sono impegnate nella campagna “Cittadini per l’aria pulita” sono madri» ha detto. «Dal momento che sapevamo quanto impegno ci volesse per far crescere un bambino, desideravamo che i nostri figli avessero il migliore futuro possibile. Ripensandoci è proprio questo desiderio che ci ha dato la forza di resistere a tutti i tipi di persecuzione e andare fino in fondo nella lotta».
Perché sia efficace, l’etica deve essere fondata su questo tipo di sentimento: l’irrefrenabile impulso che ci spinge ad agire quando vediamo che le persone e il mondo che amiamo sono in pericolo. Un’etica così attiva appartiene alla nostra umanità.
Quali sono dunque i valori che possono servire a unire fra loro le persone comuni? Quello fondamentale è il rispetto per la vita, che può risvegliare le persone al legame con tutti gli esseri viventi e al senso di continuità con le future generazioni.
Tali valori fanno parte delle tradizioni culturali fin dai tempi più antichi, sono stati trasmessi e sono ancora presenti presso molte culture indigene. L’umanità dovrebbe umilmente attingere a questa saggezza vivente. I Desana dell’Amazzonia, ad esempio, dicono che gli esseri umani non possono vivere isolati ma la loro prosperità dipende da una coesistenza armoniosa con il loro ambiente. Gli Irochesi del Nord America ci esortano a prendere decisioni tenendo in considerazione «non solo il presente ma anche le future generazioni, persino quelle il cui viso non ha visto la terra perché ancora non nate». Da questo punto di vista, tutti gli animali e le piante sono considerati nostri simili.
Un modo di vivere “contributivo”
Questo rispetto per la vita è messo in rilievo anche in molte religioni. In uno scritto della tradizione buddista, sulla quale si fondano le attività della SGI, si dice: «Che tutti gli esseri, quelli visibili e quelli che non possono ancora essere visti, quelli che sono nati e quelli che desiderano ancora nascere, possano tutti godere della felicità!».
Queste parole appartengono a una filosofia secondo la quale tutta la vita è interconnessa, si sostiene mutuamente, in una relazione definita dal Buddismo come “origine dipendente”. Il punto chiave qui è comprendere che il desiderio di felicità è al centro della nostra interconnessione. Per questo motivo gli insegnamenti buddisti danno particolare risalto al nostro ruolo di protagonisti di un cambiamento positivo. Pur riconoscendo l’influenza dell’ambiente su di noi, si focalizza l’attenzione sul nostro impegno cosciente e attivo nei confronti dell’ambiente e delle altre forme di vita. La potente volontà che promuove il processo di cambiamento trae origine dall’interesse e dalla compassione che siamo capaci di provare per gli altri.
Attraverso il dialogo e l’impegno facciamo emergere in noi e nelle vite altrui un profondo senso di determinazione e gioia, iniziando così un processo di cambiamento fondamentale che risveglia un senso di identità più ampio – il nostro “grande io”. Scopo ultimo delle attività della SGI è determinare – iniziando con una riforma o “rivoluzione umana” a livello individuale – il fiorire universale di una filosofia di vita fondata sul rispetto.
Nel suo libro Il sistema della pedagogia creatrice di valore, scritto nel 1903, Tsunesaburo Makiguchi esortò a una trasformazione fondamentale della qualità di vita delle persone. Egli biasimava la dipendenza e la passività e dichiarò che anche l’attività e l’indipendenza risultano insufficienti, richiamando invece l’attenzione su un tipo di esistenza fondata sull’interdipendenza e l’interazione, un tipo di vita “contributivo”.
Un’esistenza passiva e dipendente è in balia delle circostanze perché difetta di un chiaro e definito senso di sé. D’altra parte, con l’indipendenza si può manifestare la propria individualità a discapito, però, della consapevolezza della realtà e delle necessità degli altri. Al contrario, un modo di vivere “contributivo” si basa sulla consapevolezza della natura interdipendente delle nostre esistenze, delle relazioni che ci uniscono gli uni agli altri e al nostro ambiente. È un tipo di vita in cui ci impegniamo attivamente per realizzare la nostra e l’altrui felicità.
Questo modo di vivere è centrato sul concetto di empowerment (dare potere, rendere capaci), in particolare attraverso il dialogo che stimola l’immenso potenziale interiore, ispirando la gente a lavorare insieme per la pace e la felicità di tutta la comunità globale.
Nulla è più importante oggi di una educazione umanistica che permetta di sentire la realtà dell’interconnessione al fine di apprezzare l’infinito potenziale presente nella vita di ciascuno e coltivarne appieno le qualità umane sopite.
Mi vengono in mente le parole di Aurelio Peccei, co-fondatore del Club di Roma, che nel suo rapporto I limiti dello sviluppo (The Limits to Growth) ha risvegliato il mondo alla crisi ambientale. In occasione di un nostro incontro Peccei ha affermato: «La gamma di capacità ancora dormienti in ciascun individuo è così grande che queste possono essere trasformate nella più grande risorsa umana. Solo sviluppando tali capacità, adeguate alla nostra nuova condizione nel mondo attuale, potremo porre ordine e armonia nelle nostre vite e nella relazione con la natura, progredendo verso il futuro».
Per quanto complesse possano sembrare le questioni a livello globale, non dobbiamo dimenticare che siamo noi ad averle create. Dunque è impossibile che la loro soluzione sia al di là del nostro potere di esseri umani. Dobbiamo ripartire dalla nostra umanità, riformando e facendo emergere le nostre capacità: questo tipo di rivoluzione umana individuale può portare a un’effettiva riforma su scala globale.
Per esprimere i miei sentiti auguri per il successo del WSSD desidero condividere con voi alcuni versi della mia amica Esther Gress (1921-2002), la poetessa danese da poco scomparsa:
Se vuoi cambiare il mondo
Devi cambiare l’essere umano.
Se vuoi cambiare l’essere umano
Devi far sì che voglia cambiare.
Desidero inoltre offrirvi queste parole di Ben Okri, famoso scrittore nigeriano, tratte da una poesia dedicata al nuovo secolo:
Non puoi ricostruire il mondo
Senza ricostruire te stesso.
Ogni nuova era inizia dall’interno.
È un evento intimo, con sorprendenti possibilità
per una liberazione interiore.
Buddismo e Società n.94 – settembre ottobre 2002
La condizione umana all'alba del XXI secolo-Articolo di Fritjof Capra
«Ciò che bisogna “sostenere” in una comunità sostenibile non è tanto la crescita economica o lo sviluppo, quanto l’intera rete di vita da cui dipende la nostra sopravvivenza futura».
Fritjof Capra, insigne fisico teorico, tra i fondatori della scienza dell’ecologia e autore di testi noti in tutto il mondo come Il tao della fisica e La rete della vita, chiama tutta la comunità mondiale a sviluppare una “cultura ecologica” per imparare a vivere, a gestire gli affari e l’economia senza interferire con l’attitudine intrinseca della natura a sostenere la vita
Con l’approssimarsi della fine del secolo ci troviamo di fronte a una gran quantità di problemi globali che minacciano in misura allarmante la biosfera e la vita umana, e che presto potrebbero diventare irreversibili. La questione ambientale non è più uno dei tanti “problemi particolari”. È diventata invece il contesto di qualsiasi cosa: delle nostre vite, degli affari e della politica. La grande sfida del nostro tempo è quella di costruire e far crescere comunità sostenibili, cioè ambienti sociali, culturali e fisici in cui poter soddisfare i nostri bisogni e aspirazioni senza diminuire le possibilità delle generazioni future.
Dalla sua introduzione, all’inizio degli anni Ottanta, il concetto di “sostenibilità” è stato spesso distorto, strumentalizzato e persino banalizzato a causa dell’uso che ne è stato fatto al di fuori del contesto ecologico che gli conferisce un significato corretto. Dunque vale la pena di riflettere per un istante su che cosa davvero significa “sostenibilità”.
Ciò che viene “sostenuto” in una comunità sostenibile non è lo sviluppo o la crescita economica bensì l’intera rete della vita dalla quale dipende la nostra sopravvivenza a lungo termine. In altri termini, una comunità sostenibile è progettata in maniera tale che i suoi stili di vita e le strutture commerciali, economiche, fisiche e tecnologiche non interferiscano con l’intrinseca capacità della natura di sostenere la vita.
Il primo passo in questo compito naturalmente deve essere quello di diventare “ecologicamente colti”, cioè comprendere i principi organizzativi che gli ecosistemi hanno sviluppato per sostenere la rete della vita. Nel nuovo secolo la cultura ecologica sarà un requisito fondamentale per politici, imprenditori e professionisti di tutti i campi. Dirò di più, sarà cruciale per la sopravvivenza dell’intera umanità e quindi sarà la componente più importante dell’educazione a tutti i livelli, dalla scuola dell’obbligo al liceo, alle università, all’educazione permanente e all’addestramento professionale.
Al Centro di ecocultura (http://www.ecoliteracy.org) ci concentriamo sulla scuola dell’obbligo. Il nostro obiettivo è incoraggiare l’esperienza e la comprensione del mondo naturale nell’educazione primaria e secondaria. Essere ecologicamente colti significa, dal nostro punto di vista, comprendere i principi fondamentali dell’ecologia e saperli incorporare nella vita quotidiana delle comunità umane. In particolare riteniamo che i principi dell’ecologia dovrebbero costituire le linee guida per creare comunità scolastiche sostenibili. In altre parole, l’ecocultura offre una struttura di riferimento ecologica per la riforma dell’educazione.
Il pensiero sistemico
Se ci chiediamo come funzionano gli ecosistemi e li analizziamo a fondo scopriremo immediatamente che i loro principi organizzativi di base sono i principi organizzativi di tutti i sistemi viventi.
Così la cornice teorica più adeguata per l’ecologia è la teoria dei sistemi viventi. È una teoria che solo adesso sta acquistando piena rilevanza ma le sue radici vanno ricercate in numerosi campi della scienza che si svilupparono nella prima metà del ventesimo secolo: la biologia organismica, la psicologia della Gestalt, l’ecologia, la teoria generale dei sistemi e la cibernetica.
In tutti questi campi gli scienziati esploravano sistemi viventi, entità integrate le cui proprietà non potevano essere ridotte a quelle delle loro componenti più piccole.
La teoria dei sistemi implica un nuovo modo di vedere il mondo e un nuovo modo di pensare noto come “pensiero sistemico”. Significa pensare in termini di contesto, relazioni, modelli e processi.
Il pensiero sistemico ha ottenuto un nuovo status negli ultimi vent’anni con lo sviluppo della scienza della complessità, che comprende un linguaggio matematico interamente nuovo e un nuovo insieme di concetti per descrivere la complessità dei sistemi viventi. Pur essendo quindi l’avanguardia della scienza e nonostante la sua tradizione intellettuale abbia quasi cent’anni, il pensiero sistemico non si è ancora radicato nella cultura occidentale ufficiale dei paesi sviluppati.
Chiedendomi perché gli occidentali trovino così difficile pensare in termini di sistemi, sono giunto alla conclusione che le ragioni principali sono due. Una è che i sistemi viventi non sono lineari bensì reti, mentre la nostra intera tradizione scientifica si basa sul pensiero lineare: catene lineari di cause ed effetti, ovvero quando fai qualcosa che funziona, se ne fai di più funzionerà anche meglio. Così, è sana un’economia che esibisce una forte crescita, una crescita indefinita, e così via.
Il pensiero ecologico e il pensiero sistemico sono completamente differenti. Gli ecosistemi, come tutti i sistemi viventi, sono altamente non lineari. Non massimizzano le proprie variabili ma le ottimizzano. Se qualcosa è buono non significa che una maggior quantità della stessa cosa sarà ancor meglio, perché le cose funzionano in maniera circolare e non lungo linee rette. Il punto fondamentale non è l’efficienza ma la sostenibilità, non è la quantità che conta ma la qualità.
Questo è il punto della questione. L’essenza dell’ecologia e del pensiero sistemico è l’analisi di entità non lineari e immateriali, qualcosa che la cultura occidentale ufficiale ritiene molto difficile da studiare.
Ecocultura ed ecoprogettazione
Quando l’approccio sistemico viene applicato allo studio della casa terrestre – questo è il significato letterale di “ecologia” – scopriamo che i princìpi organizzativi degli ecosistemi sono i modelli base della vita. Per esempio, osserviamo che:
– un ecosistema non produce rifiuti; i rifiuti di una specie sono cibo per un’altra specie;
– la materia circola in continuazione attraverso la rete della vita;
– l’energia che alimenta questi cicli ecologici fluisce dal sole;
– la diversità accresce la resistenza ai fattori avversi (resilienza);
– la vita, sin dai suoi inizi più di tre miliardi d’anni fa, non ha stabilito il suo dominio sul pianeta attraverso il combattimento ma con la cooperazione, l’associazione e l’interconnessione.
Il compito principale del nuovo secolo sarà quello di applicare la nostra conoscenza ecologica e il pensiero sistemico al ripensamento sostanziale delle tecnologie e delle istituzioni sociali, in modo da colmare l’attuale frattura tra progettazione umana e sistemi di natura sostenibili dal punto di vista ecologico. Fortunatamente questo processo è già in corso e negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di ottimismo connessa all’impressionante ascesa delle tecniche di progettazione a orientamento ecologico. La miglior trattazione in proposito è il libro Natural Capitalism di Paul Hawken e Amory e Hunter Lovins.
Progettare, nel senso più ampio del termine, consiste nel dar forma a flussi di energia e di materia per scopi umani. Nell’ecoprogettazione i fini umani sono accuratamente inseriti nei modelli e nei flussi più vasti del mondo naturale.
Per esempio il principio “rifiuti uguale cibo” significa che tutti i materiali e i prodotti fabbricati dall’industria, così come gli scarti del processo di produzione, devono alla fine servire da nutrimento per qualcos’altro.
Un’impresa sostenibile dovrebbe far parte di una “ecologia delle imprese” nella quale gli scarti di una qualsiasi azienda sono risorse per un’altra. In un sistema industriale sostenibile di questo genere la produzione totale di ogni azienda, cioè sia i suoi prodotti veri e propri che i suoi scarti, verrebbero considerati e trattati come risorse da far circolare attraverso il sistema.
Di recente un’organizzazione denominata Zero Emissions Research Initiative (www.zeri.org) ha cominciato a creare degli “insiemi ecologici” di industrie in varie parti del mondo.
Due tipi di meabolismo
Attualmente gli ecoprogettisti parlano di due tipi di metabolismo: un metabolismo biologico e un “metabolismo tecnico”. I prodotti del metabolismo biologico – cioè i sistemi agricoli e alimentari, l’abbigliamento, la cosmesi – non dovrebbero contenere sostanze tossiche persistenti, mentre i prodotti del metabolismo tecnico – macchine, strutture fisiche ecc. – dovrebbero essere tenuti accuratamente separati dal metabolismo biologico.
Alla fine tutti i prodotti, materiali e scarti, potranno essere considerati sostanze nutrienti biologiche o “tecniche”. I nutrienti biologici saranno progettati per ritornare ai cicli ecologici, cioè per essere letteralmente consumati dai microorganismi o da altre creature presenti nel terreno. I nutrienti tecnici saranno progettati per ritornare ai “cicli tecnici”. Quando avranno finito di essere utilizzati come prodotti, il fabbricante li ritirerà, li smantellerà e riutilizzerà i materiali complessi che li costituiscono per fabbricare nuovi prodotti.
Servizio e flusso
Il passaggio da un’economia incentrata sul prodotto a una economia di “servizio e flusso” non è più mera teoria. Per esempio, uno dei più grossi fabbricanti di tappeti degli Stati Uniti ha avviato una transizione delle strategie di marketing dalla vendita al leasing di tappeti. L’idea di base è che le persone vogliono camminare su un tappeto, lo vogliono guardare ma non sono interessate a possederlo.
Oggigiorno gli ostacoli che ostruiscono la strada della sostenibilità ecologica non sono più concettuali o tecnici. Risiedono nei nostri valori di riferimento, in particolare nei valori dominanti delle grandi imprese. I princìpi guida e le scelte di queste ultime sono determinate in larga misura dai flussi d’informazione, di potere e di capitali nelle reti finanziarie globali che modellano le società attuali.
A causa dell’abilità del capitale finanziario di scandagliare senza sosta l’intero pianeta alla ricerca di opportunità di investimento, modificando le proprie scelte in una manciata di secondi, i margini di profitto nei mercati finanziari globali sono generalmente più elevati che nella maggior parte degli investimenti diretti. Perciò i profitti di qualsiasi origine alla fine convergono nel “meta-network” dei flussi finanziari.
I movimenti di questo casinò elettronico globale non seguono una logica di mercato. Il mercato è distorto, manipolato e trasformato in una combinazione di manovre strategiche governate dai computer e di impreviste turbolenze causate dalle complesse interazioni tra flussi di capitali in un sistema altamente non lineare.
La network society
L’Information Technology ha giocato un ruolo decisivo nell’ascesa della rete come nuovo modello di organizzazione delle attività umane, che va ben oltre l’ambito economico. Nella nostra “Network Society”, come la chiama Castells, i processi fondamentali della produzione di conoscenza, della produttività economica, del potere politico e militare e della comunicazione mediatica sono stati profondamente trasformati dalla tecnologia dell’informazione, e sono legati alle reti globali di capitali e di potere. Le funzioni e i processi sociali dominanti sono sempre più organizzati intorno alle reti. La presenza o l’assenza nella rete è una sorgente determinante di potere.
L’impatto di questa nuova Network Society sul benessere umano è stato per ora sostanzialmente negativo. Nelle reti globali dei flussi finanziari il denaro è quasi interamente indipendente dalla produzione e dai servizi. Così la classe lavoratrice si vede separata dal proprio rendimento, frammentata nell’organizzazione e divisa nella sua azione collettiva. Di conseguenza l’ascesa del capitalismo globale è strettamente connessa all’aumento della diseguaglianza sociale, della polarizzazione e dell’emarginazione. «La lotta tra capitalisti e classi lavoratrici – scrive Castells – viene riassunta nell’opposizione più fondamentale tra logica dei flussi di capitale e valori culturali dell’esperienza umana».
La resistenza al capitalismo globale sta assumendo la forma di una nuova politica dell’identità che, secondo Castells, è stata il tratto distintivo sociale e politico degli anni Novanta. La politica e l’azione sociale si vengono costituendo attorno a identità primarie «o radicate nelle realtà storiche e geografiche o costruite ex-novo in un’ansiosa ricerca di significato e di spiritualità». C’è la ricerca di un nuovo senso di connessione attraverso un’identità condivisa e ricostruita.
Sono state le femministe e i movimenti ambientalisti a dare inizio ai più macroscopici mutamenti di identità, le prime con una ridefinizione delle relazioni fra i generi, e gli altri con una ridefinizione delle relazioni tra esseri umani e natura. Molto del successo degli ambientalisti deriva dal fatto che, più di ogni altra forza sociale, sono stati capaci di adattarsi alle condizioni della comunicazione e della mobilitazione nel nuovo paradigma tecnologico. Da una parte il movimento si affida a organizzazioni di base (cioè network umani viventi); dall’altra è stato all’avanguardia nell’utilizzazione delle nuove tecnologie di comunicazione (cioè i network elettronici) come strumenti di organizzazione e mobilitazione. In questo modo il movimento ambientalista ha creato un legame unico tra network elettronici ed ecologici.
Due scenari
All’alba del XXI secolo possiamo dunque osservare due linee di sviluppo che avranno un impatto fondamentale sul benessere e sullo stile di vita dell’umanità. Entrambe hanno a che fare con le reti ed entrambe implicano tecnologie radicalmente nuove. Una di esse è l’ascesa del capitalismo globale e della Network Society, l’altra è la creazione di comunità sostenibili attraverso l’ecocultura e le tecniche di ecoprogettazione. Mentre il capitalismo globale riguarda i network elettronici dei flussi finanziari e di informazione, l’ecocultura e l’ecoprogettazione riguardano i network ecologici dei flussi di energia e di materiali. Lo scopo dell’economia globale è quello di massimizzare la ricchezza e il potere delle élite della Network Society, lo scopo dell’ecoprogettazione è massimizzare la sostenibilità della rete della vita.
Questi due scenari, ognuno dei quali implica reti complesse e tecnologie particolarmente avanzate, sono attualmente in rotta di collisione. La Network Society ha un effetto distruttivo sul mondo naturale e sulle comunità locali e dunque è intrinsecamente insostenibile. È basata su quello che è il valore centrale del capitalismo: far soldi per far soldi – indipendentemente dagli altri valori.
Ma i valori umani possono cambiare, non sono leggi naturali. Le stesse reti elettroniche dei flussi finanziari e d’informazione potrebbero avere altri valori alla base. Oggigiorno, grazie alla grande versatilità e accuratezza delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione, è tecnicamente realizzabile un’effettiva regolazione del capitalismo globale secondo princìpi e valori umanistici ed ecologici. La nostra sfida nel XXI secolo sarà quella di trasformare il sistema di valori dell’economia globale in modo da renderlo compatibile con la dignità umana e la sostenibilità ecologica.
È un’impresa che trascende tutte le differenze di razza, cultura o classe. La Terra è il focolare domestico che tutti abbiamo in comune: creare un mondo sostenibile per i nostri figli e per le generazioni future è compito di tutti noi.Buddismo e Società n.85 – marzo aprile 2001
(tradotto da SGI Quarterly, gennaio 2001)
La via di mezzo del Buddismo e i problemi ambientali-Articolo di Shuichi Yamamoto e Victor S. Kuwahara
di Shuichi Yamamoto e Victor S. Kuwahara
Docenti presso la Soka University
Questo articolo è la revisione di una conferenza pubblica tenutasi in questo Istituto il 30 novembre 2007
Il 4° rapporto del Gruppo Consulente Intergovernativo sul Mutamento Climatico, (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC)1 è stato reso noto nella primavera del 2007. Il Ministro giapponese dell’ambiente ne ha anche annunciato una versione ufficiale tradotta in giapponese. In questo articolo offriremo una sintesi del 4° rapporto dell’IPCC, seguita da una descrizione delle condizioni ambientali del passato e/o dei mutamenti climatici del pianeta Terra. In altre parole, quali fenomeni ed eventi si sono verificati finora sulla Terra? In terzo luogo, forniremo informazioni che indicano come il momento attuale sia un punto di svolta cruciale per i mutamenti climatici. Anche se per ora possiamo solo formulare supposizioni e ipotesi, è realistico ritenere che si possano verificare trasformazioni ambientali considerevoli e gravi, se non ci occupiamo delle condizioni attuali. Infine, descriveremo il modo in cui il Buddismo guarderebbe alla questione dei problemi ambientali dall’ottica del principio Buddista della “via di mezzo”, in particolare dal punto di vista della “saggezza della dottrina dell’origine dipendente” e della “saggezza della via di mezzo”.
La concentrazione di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera ha indubbiamente subito un’impennata negli ultimi anni, rispetto alle condizioni atmosferiche del recente passato (ultimi 250 anni circa). Nel misurare le attuali concentrazioni di CO2 gli scienziati tendono a fare riferimento a quelle dell’anno 1750, come linea di demarcazione fra il periodo pre- e post- rivoluzione industriale. La concentrazione di CO2 prima della rivoluzione industriale era di 280 ppm. L’unità di misura ppm (parti per milione) equivale a 1/1 milione di volume atmosferico. Quindi, anche se la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera sembra relativamente bassa, essa influisce significativamente sull’isolamento e sulla temperatura della superficie terrestre. La concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è passata dai 280 ppm del 1750 a 381 ppm: un aumento di circa 100 ppm nell’arco di 250 anni. Anche se il tasso medio di incremento è di circa 0,4 ppm all’anno, il dato più recente ha evidenziato un aumento di circa 2 ppm in un anno. Una rapidità di incremento mai osservata prima. Oltre all’anidride carbonica, i gas serra comprendono metano, protossido d’azoto, solfato, ecc. Anche se la concentrazione degli altri gas nell’atmosfera è relativamente bassa rispetto a quella dell’anidride carbonica, negli ultimi anni si è registrato un rapido aumento di tutti i gas, compresa l’anidride carbonica.
In che misura l’anidride carbonica è responsabile dell’effetto serra? Effettivamente, in misura piuttosto considerevole. Se non esistesse l’atmosfera e la Terra fosse riscaldata solo dall’energia solare diretta, la temperatura della superficie terrestre sarebbe di soli -19°C. In realtà, la temperatura terrestre media è di circa 14°C. Quindi, una differenza di circa 33°C. Questa differenza è ciò che viene definito effetto serra dell’atmosfera terrestre. Anche se la concentrazione atmosferica di anidride carbonica, metano e altri gas ammonta a soli 380 ppm, l’effetto è relativamente grande. Quindi, è logico sentirsi inquieti all’idea che l’effetto serra aumenti a causa di incrementi minimi dell’anidride carbonica o dei gas metani.
L’anidride carbonica contiene l’elemento chimico carbonio. Analizziamo ora la sorte sulla Terra del carbonio prodotto dalle attività antropogeniche (umane). Questa prospettiva è importante soprattutto quando esaminiamo in che misura le attività umane hanno influito sul clima della Terra. Il maggior quantitativo di carbonio si riscontra nell’acqua di mare, con 38.000 Gt (Giga ton = 109 t), principalmente sotto forma di acido carbonico disciolto, carbonio organico disciolto e in particelle, e plancton. Oltre a questo quantitativo marino, sono presenti circa 730 Gt di anidride carbonica nell’atmosfera, 500 Gt di carbonio organico sotto forma di piante terrestri e 1500 Gt di carbonio organico nel terreno. Queste sono le principali riserve di carbonio che influiscono sulla superficie terrestre, o sulla biosfera.
Il carbonio è utilizzato da diversi organismi viventi sulla Terra e viene continuamente riciclato. Sulla Terra esistono due principali cicli del carbonio: il ciclo rapido e il ciclo lento. Il ciclo rapido riguarda i processi che avvengono sulla terra e nel mare. Sulla terra, il ciclo comprende i processi relativi alla fotosintesi delle piante terrestri che sfruttano l’anidride carbonica atmosferica, i processi che riguardano l’alimentazione degli animali erbivori e i processi relativi ai microbi che decompongono la materia vivente in putrefazione, liberando nuovamente anidride carbonica nell’atmosfera. Un ciclo analogo si verifica in mare, attraverso la fotosintesi del fitoplancton che sfrutta l’acido carbonico presente nell’acqua di mare, il processo di alimentazione dello zooplancton con il fitoplancton, e i processi di decomposizione da parte dei microbi, con un conseguente ritorno rapido del carbonio dal mare all’atmosfera. È stato stimato che i cicli del carbonio ammontino a circa 90 miliardi di tonnellate all’anno sulla terra e circa 120 miliardi di tonnellate all’anno in mare.
Esiste poi una quota di carbonio che sfugge al ciclo rapido e va incontro a un ciclo più lento. Il primo processo avviene principalmente negli oceani, dove il carbonio sfugge ai processi di decomposizione microbica e si trasferisce nei sedimenti marini. Il secondo processo avviene quando i sedimenti si depositano passando dalla crosta al mantello attraverso l’attività della placca tettonica, o si trasformano in roccia sedimentaria nel corso delle ere geologiche. Il carbonio che penetra nel mantello torna nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica attraverso l’attività vulcanica e altre attività correlate della crosta terrestre. Questo ciclo è un processo particolarmente lento, che dura dai 100 ai 200 milioni di anni. Ne fanno parte il petrolio e i gas naturali. Sulla terra questi cicli sono correlati alla genesi del carbone.
Abbiamo visto che sulla Terra esistono cicli del carbonio lenti e rapidi, ma quali sono gli effetti della civiltà umana e della nostra società? Noi bruciamo combustibile fossile e rilasciamo anidride carbonica nell’atmosfera a un ritmo allarmante. La domanda è: quali conseguenze ha questo rilascio sul ciclo naturale del carbonio? La risposta è data innanzitutto dalla considerazione che il carbonio originariamente destinato al ciclo lento sotto forma di combustibili fossili viene improvvisamente messo in circolo nel ciclo rapido. La quota aggiuntiva di anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera sotto forma di scarichi dei combustibili fossili ammonta a circa 7,1 miliardi di tonnellate all’anno, oltre alle emissioni conseguenti allo sfruttamento del terreno, per esempio attraverso la deforestazione. Attualmente, il quantitativo di carbonio nell’atmosfera è di circa 730 miliardi di tonnellate, con un rapporto di 1/100 per il carbonio che deriva dall’attività umana. Tuttavia, non tutto il carbonio prodotto dalle nostre attività viene rilasciato e accumulato nell’atmosfera. Almeno 1,9 miliardi di tonnellate si dissolvono nell’oceano e altri 1,9 miliardi di tonnellate vengono sfruttati dalla fotosintesi delle piante terrestri. Quindi, approssimativamente 3,8 dei 7,1 miliardi di tonnellate del carbonio antropogenico vengono trasformati dagli oceani e dalla terra. Restano però 3,3 miliardi di tonnellate di carbonio immessi nell’atmosfera ogni anno dalle attività umane. Da qui nasce l’attuale dilemma riguardo ai fenomeni di riscaldamento globale indotti dall’anidride carbonica.
Recentemente la temperatura della Terra è salita, verosimilmente a causa di aumenti dei gas serra antropogenici come l’anidride carbonica. Ad esempio, le temperature medie della superficie terrestre negli ultimi 12 anni (1995-2006) hanno segnato il periodo più caldo mai registrato dal 1850, anno in cui sono cominciate le osservazioni. Inoltre, la temperatura media della superficie terrestre è aumentata di 1°C negli ultimi 150 anni. L’aumento della temperatura non solo incide sulla temperatura atmosferica e del suolo, ma provoca lo scioglimento dei ghiacci in Antartide e in Groenlandia. Se il ghiaccio di questi continenti si scioglie, il volume dell’acqua di mare aumenta e il livello del mare sale. L’innalzamento del livello del mare non è causato solo dallo scioglimento dei ghiacci, ma anche dall’espansione termica dell’acqua. Negli ultimi 130 anni è stato registrato un innalzamento del livello del mare di 20 cm. Mentre il tasso medio di innalzamento era di 1,8 mm/anno fra il 1961 e il 2003, dal 1993 al 2003 è passato a 3,1 mm/anno in risposta all’aumento della temperatura terrestre complessiva.
L’impatto del riscaldamento delle temperature è maggiore man mano che la latitudine aumenta verso i poli. Se la temperatura media aumenta di 1°C, l’impatto è diverse volte maggiore nelle regioni a latitudini più elevate. Quindi, le modificazioni di temperatura hanno conseguenze maggiori su regioni quali il Polo Sud, la Groenlandia e il Polo Nord. A questo proposito, nell’estate del 2007, l’area annuale di disgelo estivo del Mare Artico è stata la più vasta mai registrata. Inoltre, i ghiacciai dell’Everest e delle regioni alpine si stanno ritirando in modo evidente. Il ritiro dei ghiacciai non è conseguenza solo dello scioglimento del ghiaccio, ma anche delle minori precipitazioni atmosferiche (acqua o neve). Tutto contribuisce al riscaldamento globale.
Passiamo ora a descrivere le modificazioni del paleoclima sulla Terra in un’ottica temporale a lungo termine. Si scopre che le modificazioni ambientali del passato sulla Terra sono state maggiori di quanto si pensasse. Per accertare le modificazioni attuali e future del clima della Terra è fondamentale tenere conto delle condizioni storiche in senso ampio. Ad esempio, quando le temperature si alzano o si abbassano, quali modificazioni planetarie si verificano effettivamente? Gli strumenti e i metodi per rispondere a questo interrogativo necessitano di una profonda comprensione del passato. In altre parole, è fondamentale capire il passato per poter prevedere il futuro.
Se osserviamo le fluttuazioni della temperatura della superficie terrestre negli ultimi 2000 anni, ci accorgiamo che le temperature fra il 1500 e il 1700 d.C. hanno segnato un periodo freddo, comunemente noto come “la piccola era glaciale del medioevo”, corrispondente al periodo Edo in Giappone. Al contrario, gli anni che vanno dal 900 al 1100 d.C. sono considerati un periodo relativamente più mite, spesso denominato “periodo caldo del medioevo”, corrispondente al periodo Heian in Giappone. È noto come le drastiche differenze di condizione climatica fra questi due periodi abbiano influito notevolmente sulla civiltà umana. Ad esempio, durante la piccola era glaciale del medioevo, la produzione agricola era ridotta a causa delle basse temperature. Durante questo periodo freddo e più arido era frequente che i contadini si ribellassero ai governanti e rifiutassero ogni aspetto della vita sociale. Per contro, il periodo relativamente mite del medioevo, corrispondente al periodo Heian in Giappone, fu caratterizzato da una fiorente creatività artistica e da prosperità.
Quando valutiamo le modificazioni termiche su scale temporali di decine di migliaia di anni, riscontriamo un’instabilità termica ancora maggiore, con conseguenze enormi sugli ambienti del pianeta. Ad esempio, si sa che l’era Jomon risalente a oltre 6000 anni fa, era relativamente più mite dell’era attuale. Durante quel periodo caldo, il ghiaccio terrestre si sciolse e il livello dei mari salì, fino a ricoprire vaste aree delle zone costiere e fu denominato “il periodo di trasgressione marina”. In Giappone il mare si spinse nell’entroterra fino a raggiungere Saitama e la prefettura di Gunma, nella regione del Kanto. Il periodo compreso fra 10.000 e 20.000 anni fa è definito era glaciale. La temperatura media della superficie terrestre era di 7-8°C inferiore rispetto a quella attuale e i ghiacciai ricoprivano buona parte della Terra. Quindi, il livello dei mari era inferiore e dunque quest’era è nota anche come “periodo di regressione marina”. Contrariamente al “periodo di trasgressione marina”, il livello del mare scese di oltre 10 m e si sa che la regione del Kanto occupava una vasta porzione di terra.
Il periodo relativamente mite dell’era moderna viene considerato un periodo di intermittenza, denominato era interglaciale. Le oscillazioni fra le ere glaciali e interglaciali si sono alternate nell’ultimo milione di anni con cicli variabili fra 100.000 e 130.000 anni. La ragione principale dell’alternanza di cicli sta nel rapporto fra il Sole e la Terra, cioè l’eccentricità, l’inclinazione dell’asse terrestre, e il movimento di precessione. Questo ciclo è detto ciclo di Milankovich, dal nome del suo scopritore. Tuttavia, poiché non abbiamo testimonianze di questi cicli che risalgano a prima di un milione di anni fa, molti interrogativi rimangono non propriamente risolti. Se consideriamo il paleoclima su una scala temporale ancora più lunga, di 100 milioni di anni, osserviamo che sul pianeta si sono verificati cambiamenti ancora più drastici. Ovviamente, con alcune incertezze dovute alla difficoltà di stabilire con esattezza la temperatura e il clima del remoto passato. Il periodo Cretaceo al tempo dei dinosauri, circa 100 milioni di anni fa, il periodo Devoniano con la prima evoluzione dei pesci, circa 400 milioni di anni fa, e il periodo Cambriano, che vide l’evoluzione dei primi animali circa 500-600 milioni di anni fa, sono stati tutti relativamente più caldi dell’era attuale, e quasi privi di ghiacciai sulla Terra. Inoltre, è stato ipotizzato che fra 600 e 800 milioni di anni fa e anche fra 2.200 e 2.400 anni fa il pianeta Terra fosse una specie di gigantesca palla di neve (l’intero pianeta congelato).
In breve, si ipotizza che l’epoca attuale, con i ghiacciai che ricoprono alcune zone della Terra, sia in certa misura un periodo di intermittenza fra periodi di grande glaciazione (caratteristiche da palla di neve) e periodi più caldi (assenza di ghiacci). Ne possiamo dedurre con una certa sicurezza che esiste una correlazione fondamentale fra le concentrazioni nell’atmosfera di gas serra come l’anidride carbonica e le fluttuazioni della temperatura della superficie terrestre. In altre parole, indipendentemente dal controverso effetto che l’aumento del carbonio antropogenico può avere sul clima, le variazioni della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera sono correlate alle fluttuazioni della temperatura.
Secondo il rapporto dell’IPCC, attualmente si ipotizzano sei possibili scenari per il futuro, i quali prevedono le temperature della superficie terrestre per l’anno 2100 in base a sei possibili direzioni che potrebbero essere dettate dall’attività umana. Lo scenario migliore ipotizza che verranno introdotte tecnologie pulite e di risparmio energetico conformemente alla diminuzione della popolazione umana, dopo un picco a metà del XXI secolo. Secondo questo scenario, il divario economico fra le regioni e la dipendenza dalle risorse naturali si ridurrebbero, e si prevede che la temperatura della superficie terrestre aumenti tra l’1,1 e i 2,9°C (probabilmente 1,8°C). Per contro, lo scenario peggiore ipotizza che l’elevata crescita economica prosegua, con una continua dipendenza dai combustibili fossili nonostante l’introduzione di nuove ed efficaci tecnologie e una diminuzione della popolazione umana analoga a quella dello scenario precedente. Secondo questo scenario, la temperatura della superficie terrestre aumenterebbe tra i 2,4 e i 6,8°C (probabilmente 4,0°C).
Se partiamo dal presupposto dello scenario peggiore, con un aumento medio della temperatura della superficie terrestre di circa 4°C, alle latitudini più alte dell’emisfero boreale è verosimile aspettarsi un aumento relativo della temperatura anche di 10°C. Le condizioni attuali indicano che lo scenario peggiore è quello più probabile, con alterazioni inimmaginabili del clima e delle caratteristiche fisiche dell’intero pianeta. Se prendiamo in considerazione gli effetti di un riscaldamento di tale portata in ciascuna regione del mondo, quale aspetto avrà il pianeta Terra? Senza dubbio, il riscaldamento modificherebbe il pianeta Terra al di là di ogni immaginazione.
Come accennavamo prima, nel passato è esistito un periodo freddo, in cui il pianeta era come una gigantesca palla di neve e un periodo relativamente caldo, senza grandi distese di ghiaccio. Il climatologo russo Mikhail I. Budyko risolse un’equazione con la quale spiegò lo stato di stabilizzazione fra l’equilibrio dell’energia solare che irradia la superficie terrestre e l’energia delle emissioni infrarosse che sfuggono alla superficie terrestre2. Secondo questa equazione, esistono due soluzioni stabili per l’equilibrio, dove la soluzione calda è l’assenza di ghiaccio sulla Terra e la soluzione fredda è un pianeta interamente congelato. Queste due soluzioni sono estremamente stabili grazie al meccanismo di feedback che agisce anche quando si verifica uno spostamento dalla Terra senza ghiacci o dalla Terra congelata verso condizioni più calde o più fredde. È interessante notare che la condizione attuale si situa a metà tra queste due soluzioni ed è una condizione intrinsecamente instabile con flussi di energia in entrata e in uscita finemente regolati. In altre parole, essendo una condizione instabile, può scivolare facilmente sia verso la situazione calda che verso quella fredda. Secondo l’equazione di Budyko, una volta che la Terra si sbilancia verso una di queste due condizioni climatiche stabili, farà molta fatica ad uscirne. Tuttavia, la Terra si è alternata fra le due soluzioni di periodo caldo e periodo freddo prima di lasciar supporre che esista un meccanismo di qualche genere che determina il passaggio da una soluzione all’altra. Le cause e i meccanismi sono pressoché sconosciuti, ma dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi che il nostro pianeta possa passare dalla soluzione instabile a una delle due soluzioni stabili. In quest’ottica, le recenti attività umane possono aver, per così dire, “spinto” verso la soluzione calda.
Passiamo ora ad analizzare come la filosofia buddista si pone nei confronti dei problemi ambientali e come potrebbe contribuire a risolverli3. Innanzitutto, chiariamo il concetto di come la filosofia buddista dovrebbe contribuire a risolvere i problemi ambientali. Nel Buddismo, il concetto di “esseri viventi” non si riferisce unicamente alle persone, ma a tutte le forme di vita sul pianeta. Dal punto di vista buddista, i problemi ambientali come il degrado e l’inquinamento non sono problemi che riguardano solo gli esseri umani, ma comportano gravi complicazioni per tutti gli organismi viventi. Naturalmente, i problemi ambientali arrecano sofferenza fisica e mentale a tutti gli esseri viventi. Uno dei principi fondamentali del Buddismo è di alleviare e togliere la sofferenza a ogni creatura vivente. Partendo da questo insegnamento, è naturale per la filosofia buddista operare attivamente per risolvere gli attuali problemi ambientali.
Il Buddismo espone due principi filosofici: quello dell’ “origine dipendente o produzione condizionata (engi)” e quello della “via di mezzo (chudo).” Entrambi questi principi forniscono un importante punto di vista che contribuisce alla risoluzione dei problemi ambientali. Il concetto di “origine dipendente” ci insegna che ogni entità si genera ed esiste in relazione ad un’altra. In altre parole, nella vita nulla è concepito come a sé stante, bensì tutti i fenomeni sono concepiti in relazione a tutto il resto). La correlazione causale fra tutte le cose comprende anche le relazioni spazio-temporali.
Per relazioni spaziali si intende il rapporto ecologico fra organismi viventi (relazioni biotiche) o il rapporto fra organismi viventi e il loro ambiente (relazioni abiotiche), compresa la materia inorganica presente sulla Terra. Nel caso degli esseri umani non si tratta solo delle relazioni con altri esseri umani, ma anche di quelle con qualunque altro organismo vivente, compresi piante, animali, microbi e fattori ambientali quali l’ambiente fisico, l’atmosfera, la temperatura ecc. La correlazione temporale comprende non solo il collegamento fra una generazione e l’altra (genitori e figli), ma anche le relazioni in termini di scala temporale molto più vasta, come il processo di evoluzione. Ovviamente, nel caso della specie umana, siamo passati attraverso un lungo processo di evoluzione, conformemente alla lunga storia del pianeta. La specie umana non si è evoluta da umani, bensì da diversi organismi viventi. Qui sta il significato della correlazione temporale nel concetto buddista di “origine dipendente o produzione condizionata (engi)”.
Abbiamo detto che la dottrina dell’“origine dipendente” caratterizza le relazioni spazio-temporali. Ogni deviazione che danneggia tali correlazioni di origine dipendente è contraria alla saggezza buddista. Questo concetto si esprime bene con la similitudine della Rete di Indra che descrive l’aspetto dell’“origine dipendente” nel Sutra Huayan o della Ghirlanda di Fiori (kegon-kyo) della letteratura buddista. Secondo questa similitudine, nel palazzo di Indra, il re del tuono, è appesa un’enorme rete e ognuna delle innumerevoli intersezioni o nodi di questa rete è adornata da gioielli, a formare un insieme meravigliosamente complesso. Ciascuno di questi gioielli riflette chiaramente tutti gli altri gioielli nella rete, cosicché ogni punto della rete riflette tutti gli altri. I gioielli, o nodi, e la rete simboleggiano rispettivamente ciascuna entità vivente e l’ecosistema. La rete è fissata in modo tale che la relazione sia complessa. Il fatto che ciascuna intersezione o nodo è raffigurato come un gioiello sta a significare che ciascuna entità vivente è di valore inestimabile, mentre l’azione di riflettere lo splendore degli altri gioielli rappresenta il rispetto reciproco e la profonda correlazione esistente fra ogni cosa vivente. Ogni gioiello ha un riflesso diverso dagli altri poiché ogni entità vivente è unica e a sé stante. Quindi, anche se la correlazione (ecosistema) comprende un essere umano, egli non è l’unico gioiello espresso nella rete. Inoltre, questa rete (ecosistema) è stabile solo finché tutte le altre entità viventi sono in rapporto equilibrato fra loro. Ovviamente, la resistenza dell’intera rete è data unicamente dal sottile intreccio di connessioni fra le varie maglie che la costituiscono. Se la rete venisse recisa in un punto qualsiasi o privata di un gioiello, rischierebbe di crollare. Questa parabola descrive bene la sensibilità dell’ecosistema naturale sulla Terra e la sua suscettibilità al degrado ambientale. Perciò, dal punto di vista buddista dell’“origine dipendente”, è fondamentale mantenere l’equilibrio dell’ecosistema con la biodiversità.
Il secondo principio buddista è la saggezza della “via di mezzo (chudo)”. Le sue interpretazioni possono essere molteplici, ma in questo caso vogliamo soffermarci sul concetto della via di mezzo a partire dalla definizione vera e propria, che spiega l’importanza della fusione fra gioia e dolore. In altre parole, il vero significato di “chudo” non è del “mezzo” inteso in un ambito di questioni economiche o politiche, bensì il vero significato della via di mezzo comprende la relazione fra i due estremi. La via di mezzo tra gioia e dolore si basa sulle pratiche di Shakyamuni. Sebbene si fosse dedicato a pratiche austere (un estremo) per sei anni insieme a cinque monaci, Shakyamuni non riuscì ad ottenere l’illuminazione spirituale. Dopo aver tentato così a lungo, egli comprese l’inutilità di cercare di ottenere l’illuminazione attraverso l’autopunizione. Al contrario, dopo aver ricevuto una pappa di riso e latte da una donna di nome Sujata, le sue condizioni fisiche migliorarono e fu in grado di ottenere l’illuminazione. Il “dolore” del principio di penitenza indica che, sebbene possa probabilmente essere utile per sviluppare la forza d’animo, esso non conduce alla saggezza assoluta o all’illuminazione spirituale. Invece, la “gioia” dell’edonismo dimostra che la saggezza assoluta o l’illuminazione possono essere ottenuti senza fare ricorso all’autopunizione. Perciò, il principio della “via di mezzo della gioia-e-dolore” non assume una posizione deterministica né verso l’edonismo, né verso l’austerità. Ciò vuol dire che, pur riconoscendo il valore di entrambi questi principi o estremi, la “via di mezzo” esige l’armonia fra i due, senza tentennamenti verso uno o l’altro. Secondo la via di mezzo è importante includere entrambi gli estremi in una condizione di equilibrio.
I problemi ambientali comportano sempre vantaggi e svantaggi. Ad esempio, la società umana trae vantaggio dallo sfruttamento di risorse naturali come la pesca, ma la natura subirà lo svantaggio della perdita delle riserve ittiche. Inoltre, le economie più avanzate hanno sottratto molte risorse naturali dalle terre dei paesi dalle economie emergenti. In questo caso, le economie avanzate ottengono dei vantaggi, mentre i paesi emergenti subiscono lo svantaggio di aver perso le proprie risorse. Ogni volta che la società umana si appropria di risorse naturali, la conseguenza è la distruzione della natura. Quindi, nel caso dei problemi ambientali, la saggezza della “via di mezzo” buddista esige un’equa distribuzione e un’armonia fra vantaggi e svantaggi per tutte le parti coinvolte.
Nella prima parte di questo documento ci siamo occupati unicamente del riscaldamento globale, ma in realtà questo è solo uno dei molti problemi ambientali. Il punto è: in che modo il Buddismo può contribuire a risolverli? Approfondiamo meglio la questione. Esaminiamo ora i problemi ambientali in base a tre categorie: le economie avanzate, quelle emergenti e l’ecosistema naturale che comprende gli animali, le piante e i microbi. È necessario analizzare queste tre categorie in relazione ai vari problemi ambientali attualmente esistenti, cioè il riscaldamento globale, la deforestazione, la riduzione della biodiversità, ecc. È importante anche chiarire come queste tre categorie debbano convivere in modo armonico per poter risolvere i problemi ambientali in un’ottica futura. Questa è l’essenza del concetto di “etica della Terra” nel Buddismo. Per esempio, attualmente esiste un evidente squilibrio a favore delle economie avanzate rispetto a quelle emergenti. Se guardiamo al rapporto fra le economie avanzate e l’ecosistema naturale, ne risulta un immenso vantaggio unilaterale per le prime. Inoltre, anche le popolazioni dei paesi emergenti vendono le proprie risorse naturali, come ad esempio gli alberi, ottenendo anch’esse un profitto a spese dell’ecosistema. Ad ogni modo, va sottolineato che l’entità di questo profitto è notevolmente inferiore rispetto a quello delle popolazioni delle economie avanzate. Complessivamente, le economie avanzate sono quelle che ottengono il profitto maggiore dallo sfruttamento delle risorse naturali, mentre l’ecosistema naturale è la categoria più svantaggiata fra tutte e tre. In breve, la civiltà e la società umana non hanno restituito quasi nulla all’ambiente naturale. Le popolazioni appartenenti alle economie avanzate ricevono risorse naturali in modo unilaterale e godono di vita agiata. Perciò, per il futuro, è fondamentale trovare e ristabilire un rapporto armonico in cui i vantaggi vadano equamente a tutte le categorie, e soprattutto alla natura.
Una giusta etica della Terra deve adottare un’ottica efficace ed equilibrata di consumo delle risorse naturali invece che un atteggiamento superficiale su come sfruttare le risorse, o se “prendere questo o quello”. Il pensiero basato sulla saggezza della via di mezzo buddista guarda alle risorse naturali attraverso un bilanciamento efficace tra gioia e dolore, in questo caso tra vantaggi e svantaggi del consumo. In quest’ottica, la questione non è se “prendere questo o quello” dalle economie emergenti o dall’ambiente naturale, quanto piuttosto come far sì che tutte le categorie ne traggano vantaggio. Ad esempio, il Buddismo non si interroga su come sfruttare le economie emergenti o le risorse naturali ma cerca di trovare un mezzo per fare in modo che tutte le forme di vita sperimentino l’illuminazione della via di mezzo di piacere e dolore. Questo è il concetto di etica della Terra. Poiché l’intero pianeta è un unico veicolo che include esseri umani e altri organismi, è fondamentale mantenere un’armonia tra tutte le componenti. Pertanto, non è importante interrogarsi su cosa abbia o meno valore, piuttosto è necessario trattare tutte le categorie e le sue varie componenti come parte di un unico sistema.
Un altro importante squilibrio riguarda il modo in cui le economie avanzate monopolizzano tutti i vantaggi. È sempre più urgente trovare un modo ideale per soddisfare alcuni desideri senza sacrificarne altri. Se analizziamo la relazione fra le emissioni di anidride carbonica pro capite (Indice 1) e le emissioni pro capite rispetto al prodotto interno lordo (PIL) in dollari USA (Indice 2) di ogni paese del mondo, vediamo emergere quattro gruppi di paesi o categorie4. Confrontando gli indici si vede che maggiore è il quantitativo di anidride carbonica pro capite, maggiore è il numero di persone che conducono una vita agiata in quel paese, e più è alto il valore per prodotto interno lordo, più sono le persone che utilizzano l’energia in modo inefficiente. I quattro gruppi sono:
- Gruppo 1: Stati Uniti, Australia e Canada: Indice 1: 16–21 CO2-t/persona Indice 2: 0,65–0,70 CO2-kg/PIL
- Gruppo 2: Russia e Polonia: Indice 1: 8–10 CO2-t/persona Indice 2: 0,9–1,48 CO2-kg/PIL
- Gruppo 3: Cina, India, Brasile, Malesia e Messico: Indice 1: 1–4,5 CO2-t/persona Indice 2: 0,25–0,72 CO2-kg/PIL
- Gruppo 4: Germania, Giappone, Regno Unito, Nuova Zelanda, Italia e Francia Indice 1: 4,7–10,2 CO2-t/persona Indice 2: 0,25–0,45 CO2-kg/PIL
Il gruppo 1 comprende i paesi che hanno il tenore di vita più alto, oltre a emettere una grande quantità di anidride carbonica. Il gruppo 2 è il più inefficiente, probabilmente a causa di ostacoli tecnologici. Il gruppo 3, che comprende i paesi più popolosi come la Cina e l’India, oltre che molti paesi emergenti, è il più inefficiente e ha il tenore di vita è basso. Il gruppo 4 comprende alcune delle economie più avanzate, caratterizzate da un buon livello di efficienza e da un tenore di vita elevato. Tuttavia, questo gruppo non è considerato un esempio ideale per quanto riguarda le emissioni di CO2. Il valore ideale di emissioni di CO2 è inferiore a 4 per l’Indice 1 e inferiore a 0,25 per l’Indice 2; questi valori si trovano facendo la media dei gruppi 3 e 4. Secondo questi risultati si può affermare che il gruppo 1 dovrebbe sforzarsi di ridurre notevolmente il proprio tenore di vita e di aumentare l’efficienza, mentre il gruppo 3 ha un certo margine per migliorare il proprio tenore di vita. Inoltre, il gruppo 2 dovrebbe compiere ulteriori sforzi per aumentare l’efficienza, e lo stesso dovrebbe fare il gruppo 3. Pertanto, per mantenere l’armonia nel mondo è fondamentale che le popolazioni delle economie avanzate si sforzino nelle direzioni indicate. Il codice di condotta e le norme etiche del bodhisattva
Infine, vorremmo parlare del codice ideale di condotta e delle norme etiche nel Buddismo in relazione ai problemi ambientali.K.S. Schrader-Frechette (1981)5 descrive come gli esseri umani siano miseramente incompetenti quando si tratta di prendere decisioni e di pensare in modo etico, pur avendo grandi capacità analitiche in ambito scientifico e tecnologico. In altre parole, i comportamenti delle persone non sono intrinsecamente ideali. Gli esseri umani possiedono la capacità e i metodi per assumere un comportamento ideale? Noi riteniamo che forse sono necessari degli espedienti. La società umana solitamente ha bisogno di un buon motivo (profitto o incentivo) per manifestare buone intenzioni. Quindi, è importante ideare un sistema che offra qualche incentivo positivo o profitto per avere buone intenzioni nei confronti dei problemi ambientali.
Ciò è possibile solo se nella società si crea un sistema di profitto efficiente. Un buon esempio è rappresentato dagli sgravi fiscali e dalle sovvenzioni nel caso in cui si contribuisca a conservare e proteggere l’ambiente, per esempio acquistando prodotti a risparmio energetico. In breve, è necessario creare un sistema che dia risultati visibili e concreti per chi contribuisce a risolvere i problemi ambientali. Secondo il Buddismo, risolvere e contribuire a eliminare i problemi ambientali è parte integrante della pratica buddista. In altri termini, la risoluzione dei problemi ambientali è un aspetto naturale della filosofia buddista della via di mezzo. Un esempio importante è fornito dalla pratica della via del bodhisattva che si serve delle sei paramita. Le sei paramita sono: Dana paramita (generosità), Šila paramita (moralità), Kshanti paramita (pazienza), Virya paramita (sforzo), Dhyana paramita (risolutezza) e Prajña paramita (saggezza); Dana paramita significa agire in favore di una persona e della natura senza rimpianti, Šila paramita significa rispettare gli insegnamenti quali non uccidere e non fare del male alle entità viventi e non rubare, Kshanti paramita significa sopportare la tristezza e il dolore, Virya paramita significa fare del proprio meglio e sforzarsi costantemente di fare sempre meglio, Dhyana paramita significa essere risoluti o fermi in ogni impresa, e Prajña paramita significa ottenere la vera conoscenza della saggezza dai principi di “origine dipendente” e “via di mezzo”. Agire e perseverare nel trovare soluzioni che risolvano i problemi ambientali corrisponde perfettamente alla via del bodhisattva. Ancora più importante è stabilire il vero significato delle sei paramita come parte intuitiva della pratica buddista, che non è in alcun modo separata dalla protezione e dalla conservazione dell’ambiente. In altre parole, un bodhisattva che pratica le sei paramita è una persona che si comporta in modo coerente con la protezione dell’ambiente e la riduzione dei problemi ambientali. I buddisti potranno contribuire in modo più costruttivo alla soluzione dei problemi ambientali se adotteranno questi codici di condotta e queste norme etiche nella loro pratica buddista.
Tradotto da The Journal of Oriental Studies, vol. 18, 2008
Bibliografia
1) IPCC, IPCC Fourth Assessment Report, Synthesis Report http://www.ipcc.ch/pdf/ assessment-report/ar4/syr/ar4_syr.pdf
2) Budyko, M.I., G.S. Golitsyn, e Y.A. Izrael, Global Climatic Catastrophes, Springer-Verlag, New York, 1988.
3) Yamamoto, S. (2002) “Environmental Ethics in Mahayana Buddhism: The Significance of Keeping Precepts and Wisdom”, The Journal of Oriental Studies, 12, 137–155.
4) Yamamoto, S. and Kuwahara, V.S. (2005) “Deforestation and Civilization: A Buddhist Perspective”, The Journal of Oriental Studies, 15, 78–93.
5) Shrader-Frechette, K.S. (1981) Environmental Ethics, Boxwood Press. Questa frase è stata tradotta in inglese dal libro giapponese (1993).