Leggi l’articolo in NR730 (8x1000Pat-covid)
Il progetto di natura scientifica “Meccanismi della malattia Covid-19” (PAT-COVID), finanziato con i fondi 8×1000 dell’IBISG, è realizzato dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri (IRCCS) che ne è capofila insieme ad altri sei soggetti con sedi nelle regioni Lombardia, Toscana, Liguria, Puglia e Lazio, ed ha un impatto a livello nazionale.
Il progetto si propone di sviluppare un approccio genetico per comprendere la variabilità clinica del Covid-19 attraverso la raccolta di campioni biologici di circa 3.000 pazienti affetti dal SARS-CoV-2 e le informazioni cliniche a loro correlate.
Maddalena Fratelli, capo dell’Unità di Farmacogenomica dell’IRCCS, insieme a Enrico Cabri, giovane ricercatore, ingegnere biomedico e bioinformatico, rispondono ad alcune domande sullo studio che stanno portando avanti.
Tutte le info del progetto sono disponibili su https://ottopermille.sokagakkai.it/progetto/meccanismi-genetici/
Come nasce l’idea di questo progetto?
L’idea dello studio PAT-COVID nasce molto presto, nel 2020. Già dalla fine di gennaio, quando cominciavano ad arrivare le notizie dell’epidemia in Cina, il nostro gruppo nel dipartimento di Biochimica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri (IRCCS) aveva iniziato a studiare i dati disponibili e a cercare di sviluppare possibili farmaci che proteggessero dall’infezione. In particolare, utilizzando la sequenza del virus che era stata resa pubblica, stavamo provando a disegnare dei peptidi che potessero inibire il legame del virus con le cellule umane. Sviluppando questo progetto durante la prima ondata della pandemia, eravamo venuti in contatto con alcuni gruppi italiani che si stavano occupando di Covid e decidemmo di scrivere un progetto collaborativo approfittando dell’iniziativa della professoressa Alessandra Renieri, cattedra di Genetica Medica all’Università di Siena, che aveva costituito un consorzio per la raccolta di campioni dai pazienti malati di Covid su tutto il territorio nazionale, il GEN-COVID. Abbiamo così formato un gruppo che riunisce istituti e ospedali di Milano, Genova, Firenze, Siena, Roma e San Giovanni Rotondo.
In cosa consiste il progetto PAT-COVID?
Il progetto consiste in una serie di elementi. L’idea parte dall’osservazione che esiste una variabilità molto grande nella risposta al virus SARS-CoV-2. Qualcuno è completamente asintomatico, qualcuno ha bisogno di essere ricoverato in terapia intensiva e una proporzione rilevante di persone va incontro a morte.
In linea generale i soggetti più anziani sono più esposti al rischio di avere una malattia grave rispetto ai giovani, i maschi sono più a rischio delle femmine, così come coloro che hanno altre malattie.
Tuttavia esistono anziani che se la cavano molto bene e giovani che invece si ammalano gravemente.
Si ipotizza quindi che ci possano essere degli elementi genetici che predispongono a una maggiore gravità della malattia oppure a una particolare capacità di resistere all’infezione o agli effetti del virus. Il nostro progetto si propone di studiare questi elementi. Si tratta quindi di raccogliere numeri molto grandi di campioni da pazienti affetti da Covid, di raccogliere tutte le informazioni sulla loro malattia e sulle precedenti condizioni della loro salute, di determinare le varianti genetiche di ciascun individuo e di trovare quali di queste sono associate con la gravità della malattia.
Come è composto il gruppo di lavoro?
Il progetto è molto articolato ed è costituito da vari passaggi che coinvolgono un gruppo nutrito e composito.
Vorrei sottolineare che tutto si basa sulla disponibilità dei pazienti a fornire i loro campioni (e con questi il loro patrimonio genetico) per la ricerca. Ufficialmente non fanno parte del gruppo di lavoro, ma in realtà sono al centro di tutto il progetto e il loro contributo è inestimabile.
Poi ci sono i medici che, in un momento in cui tutte le loro energie erano necessarie per affrontare la pandemia, hanno trovato il tempo di organizzare la raccolta dei campioni e dei dati clinici.
A questo punto entra in gioco la parte legata alla ricerca di base per il sequenziamento e per l’analisi dei dati che, per la loro enorme quantità e complessità, richiedono competenze molto avanzate di bioinformatica e biologia computazionale.
Infine, una volta ottenuti i risultati, si tratta di interpretarli, di capire la loro rilevanza e di sviluppare conseguenti strategie terapeutiche o preventive. In questa fase ritornano in gioco tutti i componenti del gruppo: biologi, clinici, genetisti, ingegneri biomedici, bioinformatici.
Speriamo che, a chiusura di questo cerchio, riusciremo a dare indicazioni su come curare ciascuno al meglio, in maniera personalizzata.
A che punto è lo studio? Avete già potuto formulare delle ipotesi?
L’obiettivo dello studio di reclutare 3.000 pazienti è stato raggiunto. Al momento sono stati sequenziati in due modi più di 2.000 campioni.
L’analisi iniziale su questi 2.000 campioni ha portato a individuare un elevato numero di varianti geniche che potrebbero essere associate con la gravità della malattia o con una minore severità.
Su queste varianti abbiamo fatto ulteriori analisi per capire quali fossero gli organi o i meccanismi biologici in cui erano coinvolte.
Oltre a confermare alcune caratteristiche già note della malattia, come il coinvolgimento multi organo e il ruolo del sistema immunitario, abbiamo anche individuato alcuni nuovi potenziali meccanismi. Inoltre, abbiamo generato un punteggio che integri il contributo delle diverse varianti all’effetto fenotipico finale e che potrebbe servire per predire il rischio in ogni singolo paziente.
I risultati di questo studio sono stati sottoposti a una rivista scientifica e sono ora in fase di revisione. Questo è un primo passo di cui siamo molto soddisfatti. Tuttavia, abbiamo ancora molto lavoro da svolgere. Ci sono molti elementi che complicano l’interpretazione dei dati.
In ogni ondata della pandemia, la variante prevalente del virus è diversa, le capacità del sistema sanitario di affrontare la crisi sono diverse, le classi di età coinvolte e la provenienza geografica sono leggermente diverse.
Dobbiamo affinare le nostre capacità di analisi e di utilizzo di tutto il sapere precedente per affrontare lo studio di un problema così complesso, in cui entrano in gioco moltissime variabili oltre a quelle genetiche.
Dobbiamo anche aumentare il numero di dati, per poter trarre conclusioni più robuste. Gli ulteriori 1.000 campioni che stiamo sequenziando saranno per questo molto importanti.
Inoltre, la nuova fase dello studio che prevede di analizzare le componenti genetiche che influenzano la risposta anticorpale ai vaccini ci potrà fornire ulteriori indicazioni sulla parte di variabilità della malattia che dipende dalla risposta iniziale del sistema immunitario (al vaccino o al virus).
Dobbiamo tuttavia considerare in futuro di riunire i nostri dati con quelli generati da altri gruppi nel mondo. Mai come in questo momento è risultato chiaro che la condivisione dei dati, quella che chiamiamo Open Science, è la chiave per raggiungere i nostri obiettivi.
Quale impatto può avere questo studio nella cura del Covid-19?
In primo luogo, saper prevedere in anticipo quali sono i soggetti che hanno un maggiore rischio è di estrema importanza sia per una prevenzione adeguata, sia per decidere fin dall’inizio della malattia quale deve essere l’intensità di cura. Inoltre, la conoscenza di alcuni meccanismi specifici di suscettibilità alla malattia in determinati pazienti può suggerire l’utilizzo di farmaci mirati a contrastarli.
Bisogna dire che non è facile e immediato ottenere una genotipizzazione per ogni paziente, e in molti casi questa potrebbe essere inutile, quindi l’applicazione di questo approccio a tutti i soggetti non è praticabile. Tuttavia si potrebbero trovare strategie più sostenibili, per esempio identificando famiglie ad alto rischio per la loro storia clinica su cui intervenire.
Infine, l’identificazione di meccanismi che, se alterati, rendono più o meno grave la malattia, ci possono suggerire nuove opzioni terapeutiche.
A livello personale cosa ha significato essere parte di questo progetto?
Sono bergamasca di origine e molti miei amici e parenti sono stati colpiti anche gravemente fin da subito. In quei momenti in cui eravamo tutti chiusi in casa accerchiati da un nemico totalmente sconosciuto e pericoloso, per me è stato molto importante poter pensare di rimboccarmi le maniche e provare a dare il mio piccolissimo contributo per combatterlo.
Questo ha comportato molto studio, molto lavoro e molto tempo dedicato.
C’è stato anche un elemento relazionale molto importante nell’organizzare una collaborazione tra tanti gruppi. Molti di noi non si erano mai incontrati di persona, ma scrivendo il progetto e successivamente lavorando abbiamo stabilito rapporti continuativi attraverso teleconferenze, telefonate e messaggi.
Tra le persone che stanno contribuendo vorrei presentarvi Enrico Cabri, un giovane ricercatore che lavora al progetto.
Enrico: Quando Maddalena mi ha parlato di questo progetto ho subito pensato che avrei fatto parte di qualcosa di importante e complesso, non solo dal punto di vista prettamente tecnico, ma anche relazionale.
Il progetto raccoglie professionisti seri e capaci da centri di ricerca italiani di élite e analizza dati forniti da persone che hanno avuto fiducia in questo gruppo fornendoci campioni genetici: quanto di più personale posseggono.
Inevitabilmente questo ha comportato un grande senso di responsabilità che mi ha portato a impegnarmi per essere all’altezza del compito e dei miei collaboratori.
La ricerca è sinonimo di speranza. Cosa significa fare ricerca oggi?
Maddalena: Essere ricercatrice è innanzitutto un privilegio. È un lavoro impegnativo, ma consente ogni giorno di imparare e di stupirsi.
Alimentare la speranza mentre si svolge questo lavoro non è però sempre facile. Spesso le cose non funzionano e quasi mai si fanno scoperte sensazionali. Però si sente di far parte di un cammino. Negli anni della mia carriera ho visto progressi e conquiste della ricerca che non avrei mai potuto immaginare quando ho iniziato.
Enrico: Ho cominciato la mia esperienza nella ricerca in parallelo al mio percorso di laurea magistrale. Non è stato un percorso lineare, ma ho avuto la fortuna di entrare in un ambiente che ha favorito la mia crescita professionale e personale grazie a un team di persone molto capaci che credono in quello che fanno.
Progetto dopo progetto, vedere l’effetto dei risultati nel concreto mi ha portato un senso crescente di orgoglio. Capire che la fatica, la felicità per i piccoli successi e, onestamente, anche le piccole delusioni hanno un effetto tangibile su persone che lottano per uno dei beni più preziosi – la salute – dà ancora più significato a ciò che facciamo.
Purtroppo non mancano anche i lati negativi: è noto che questo mestiere non è particolarmente redditizio e, soprattutto in questo periodo di incertezze, è anche controverso.
A volte non si vede la “persona” dietro il “ricercatore”, e non sempre si dà la giusta attenzione a un settore cruciale come quello della ricerca.
Tutto questo provoca la “fuga” di professionisti che potrebbero dare un contributo tangibile e necessario allo sviluppo di un’area “sanità e salute” sempre più efficiente nel nostro paese.
Maddalena: Nel mondo della ricerca ci sono molte contraddizioni. La necessità di trovare i fondi per sostenere il nostro lavoro ci porta spesso a competere. Tuttavia a me piace pensare di far parte di una comunità di cui condivido gli sforzi e gli obiettivi, esattamente come è avvenuto grazie all’incontro con l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai.
È grazie al generoso contributo del vostro Istituto e al vostro desiderio di esserci per la comunità, in un momento di grande vulnerabilità a cui ci ha esposto la pandemia, che è stato possibile dare vita a questo progetto di ricerca che altrimenti non avrebbe avuto l’opportunità di svilupparsi. Noi ricercatori non possiamo che essere grati per la fiducia riposta nel nostro lavoro e nella scienza.
Per ulteriori informazioni vai al sito